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Archive for luglio 2019

AZIONE URGENTE – CENTRO DEI DIRITTI UMANI FRAY BARTOLOME DE LAS CASAS

Privazione Arbitraria della Vita di Filiberto Pérez Pérez durante un attacco armato.

Persiste il rischio di vita nelle comunità tsotsil degli Altos del Chiapas

28 luglio 2019. Il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de Las Casas (Frayba) esprime la sua preoccupazione per il rischio di vita in cui si trova la popolazione del popolo tsotsil delle comunità della zona di confine di Aldama-Chenalhó, Chiapas, Messico.

Il 27 luglio 2019 alle ore 13:00 circa, sono iniziati gli spari verso le comunità di Tabak, Coco’, San Pedro Cotzilnam, Baletik e Xuxchen del municipio di Aldama. Secondo le testimonianze l’aggressione proveniva dalla comunità da Santa Martha, Chenalhó.

Nell’attacco armato, Filiberto Pérez Pérez originario di Tabak, di 23 anni, ferito mentre svolgeva le onoranze funebri di un defunto, è poi deceduto alle ore 16:00.

Il 19 luglio, questo Centro dei Diritti Umani aveva informato il presidente della Repubblica messicano Andrés Manuel López Obrador del persistere della situazione di violenza nella regione, con l’obiettivo di prevenire atti irreparabili: “Il 17 luglio del presente anno si sono uditi colpi di arma da fuoco nella località nota come Aktik Il (due) ad Aldama nelle terre relative ai 60 ettari in disputa, questi spari provenivano da persone armate del municipio di Chenalhó”.

Di fronte ai molteplici fatti di violenza il Frayba ribadisce allo Stato messicano l’urgenza di far cessare la violenza nella regione degli Altos del Chiapas, per cui sollecitiamo:

Implementare misure necessarie, urgenti ed efficaci per proteggere la vita, la sicurezza e l’integrità personale dalla popolazione nelle comunità tsotsil che si trovano sul confine dei municipi di Aldama e Chenalhó, Chiapas.

Indagare, sanzionare, disarmare e disarticolare i gruppi armati di taglio paramilitare di Santa Martha, Manuel Utrilla, Chenalhó, responsabili diretti degli attacchi armati che dal 2016 provocano sfollamenti forzati di massa.

Indagare sulle azioni ed omissioni dei funzionari che sono stati complici ed hanno favorito la violenza generalizzata nella regione degli Altos del Chiapas.

Non lasciare nell’impunità la Privazione Arbitraria della Vita di Filiberto Pérez Pérez e le altre violazioni dei diritti umani provocate dall’inettitudine del governo del Chiapas.

Chiediamo alla solidarietà nazionale ed internazionale di firmare l’appello urgente alla pagina web del Frayba: https://bit.ly/2K0qYWG

https://frayba.org.mx/persiste-riesgo-a-la-vida-en-comunidades-tsotsiles-de-los-altos-de-chiapas/

 

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AMLO a Guadalupe Tepeyac

Luis Hernández Navarro

La comunità tojolabal di Guadalupe Tepeyac in Chiapas è emblematica. Non è casuale che sabato scorso il presidente Andrés Manuel López Obrador abbia inviato da lì un messaggio agli zapatisti. Davanti a circa 300 contadini, il mandatario ha espresso il suo rispetto ai ribelli e richiamato all’unità.

L’appello del Presidente avviene nel contesto di un incremento della militarizzazione nei territori zapatisti. Inoltre, l’arrivo del Presidente a Guadalupe Tepeyac era stato preceduto dall’arrivo di militari nella comunità. Già tre giorni prima erano aumentati i pattugliamenti per quantità e frequenza. I soldati erano entrati nell’ospedale a parlare con i lavoratori della struttura.

Secondo il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas, dalla fine del 2018 è raddoppiato il numero delle incursioni dell’Esercito nella sede del Caracol della Realidad, inclusi i sorvoli sulla comunità (https://chiapasbg.com/2019/05/03/aumenta-militarizzazione/https://bit.ly/2GTfvp3). Sono anche aumentate le azioni di gruppi paramilitari che uccidono e cacciano dai loro villaggi la popolazione (https://chiapasbg.com/2019/06/05/navarro-demoni-chiapanechi/https://bit.ly/2xz1Oas). Il Presidente nega che la denuncia del Bartolomé de las Casas sia certa.

Per comprendere il simbolismo di Guadalupe Tepeyac è necessario fare un po’ di storia. L’ejido rappresentava la speranza nella trasformazione pacifica e profonda del paese. Ma, in seguito, è diventato l’emblema del tradimento e della repressione del governo.

Dopo l’insurrezione dell’EZLN la comunità fu la capitale informale dei ribelli, simbolo della rivolta globale contro il neoliberismo. Era una specie di Mecca libertaria in cui arrivavano figure politiche per incontrare il comando ribelle. Come ha ricordato il Presidente, egli stesso andò lì anni fa per parlare col defunto subcomandante Marcos, oggi Galeano.

Situato nel municipio di Las Margaritas, l’ejido Guadalupe Tepeyac è stato fondato nel 1957. Quattro mesi prima dell’insurrezione del 1994, l’allora presidente Carlos Salinas, circondato senza saperlo da centinaia di zapatisti senza uniforme, inaugurò lì un ospedale per tentare di frenare, inutilmente, la sollevazione armata.

I suoi abitanti, emigrati che colonizzarono la selva, si presentarono al mondo durante la consegna del generale Absalón Castellanos Domínguez, il 16 febbraio 1994. A dicembre di quell’anno, l’EZLN lo ribattezzò San Pedro Michoacán.

A luglio del 1994 su quelle terre fu costruita una nave dipinta coi colori della speranza: il primo Aguascalientes. Circa 6 mila delegati di quasi tutto il paese nell’agosto di quell’anno tennero lì la Convenzione Nazionale Democratica (CND) convocata dagli zapatisti, una scommessa per transitare alla democrazia ed aprire sentieri alla pace.

La nave della CND tentò di navigare nelle acque della transizione pacifica. Tuttavia, naufragò il 9 febbraio 1995. Quel giorno, l’EZLN aspettava l’arrivo dell’allora segretario di Governo (oggi Ministro dell’Istruzione della 4T), Esteban Moctezuma, per proseguire con il processo di pace. A tradimento, invece del funzionario arrivarono migliaia di soldati per arrestare il subcomandante Marcos. Una delle richieste dei ribelli era di rifare le elezioni in Tabasco per riparare alla frode elettorale perpetrata contro Andrés Manuel López Obrador.

Il giorno dopo, l’Esercito entrò nell’ejido. Quindici minuti prima delle 10 del mattino i primi elicotteri militari sorvolavano Guadalupe Tepeyac. Prima quattro, poi venti. Molti degli uomini del villaggio erano fuggiti nella selva la notte precedente. L’ordine era di ripiegare.

Poco dopo arrivarono 2.500 soldati su circa 100 veicoli blindati e d’artiglieria appoggiati da elicotteri ed aerei. Due ore più tardi giunse il generale Ramón Arrieta Hurtado, capo della Sezione Paracadutisti e responsabile dell’operazione. Trovò un villaggio deserto con parte dei suoi abitanti rifugiati nell’ospedale.

Il 23 e 24 febbraio 1995 decine di militari sotto il comando del generale Guillermo Martínez Nolasco distrussero l’Aguascalientes. Nello stesso luogo fu eretto un quartiere militare rimasto in funzione fino al 20 aprile 2001. Guadalupe Tepeyac divenne allora l’incarnazione dell’ignominia. In risposta, gli zapatisti edificarono cinque Aguascalientes in altre regioni dello stato.

Da quale delle due Guadalupe Tepeyac il Presidente López Obrador ha inviato il suo messaggio all’EZLN? Dal simbolo della lotta emancipatrice o dall’emblema del tradimento governativo? Immaginiamo come sarebbe interpretato se Donald Trump lanciasse un messaggio di amicizia al Messico da Fort Alamo.

Nel suo discorso, il Presidente ha parlato delle due strade per trasformare il paese: quella pacifica-elettorale e quella armata, ed ha indicato l’EZLN come esempio della seconda. Certo, gli zapatisti si sono sollevati in armi e grazie a questo il paese ha rivolto la sua attenzione ai popoli indigeni. Tuttavia, da quando è stata dichiarata la tregua, benché i ribelli conservino le armi, non le hanno usate. Invece, si sono dedicati a costruire un’esperienza esemplare ed inedita di autogestione ed autonomia indigena. La determinazione non è artificio.

È importante che il Presidente parli direttamente all’EZLN. Ma non sembra sufficiente. Per distendere la relazione, si devono fare altri passi sostanziali nella corretta direzione.

Testo originale: https://www.jornada.com.mx/2019/07/09/opinion/017a1pol#

Twitter: @lhan55

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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OBRADOR, UN ANNO DOPO

di Andrea Cegna

8 luglio 2019

Messico: un bilancio del governo che ha vinto con l’idea di cambiare tutto

Cosa sarà del governo di Andrés Manuel López Obrador in Messico sarà il tempo a dirlo. Ad un anno dal suo trionfo elettorale, il 1° luglio 2018, quando 30 milioni di persone l’hanno scelto come presidente, un pezzo del suo lavoro è realtà, non speculazione.

Non è una rivoluzione come in tanti speravano. La quarta trasformazione arranca tra promesse di uscita dal neoliberismo, la violenza che non si placa, e le pressioni di Trump da nord. Ma López Obrador resta uno dei presidenti più popolari della storia del paese, i suoi metodi di comunicazione e di “vicinanza” alla popolazione per ora pagano.

Il 1° luglio scorso, López Obrador è tornato alla Zócalo di Città del Messico. La piazza era gremita come il giorno del suo arrivo al potere, ma la composizione della piazza è cambiata. Non c’erano folte delegazioni indigene, ma c’era Carlos Slim. Un passaggio non da poco, e non solo a livello simbolico. I più poveri si allontanano e si avvicina uno degli uomini più ricchi del mondo. Una traiettoria netta che marca i primi mesi di AMLO (acronimo popolare di Andrés Manuel López Obrador) molto più delle parole, delle promesse e dei risultati.

Nel suo discorso dal palco il presidente ha ammesso senza mezzi termini che la violenza non è stata sconfitta, ma subito dopo ha promesso che entro dicembre (ovvero la conclusione del primo anno di governo) sarà la corruzione ad essere battuta.

Il passaggio mostra l’abilità comunicativa di AMLO e allo stesso tempo come alcuni dei punti cardine del suo mandato siano in grossa difficoltà.

Dal 1° dicembre 2018 sono già otto i giornalisti uccisi e il presidente non è stato in grado di dire nulla. Oltre a loro sono tanti e tante le attiviste sociali, soprattutto indigeni e contadini, a morire per mani misteriose o essere arrestati per le loro lotte, esattamente come succedeva prima di AMLO.

L’unico passaggio fatto per affrontare la violenza è stato stressare la costituzione e formare un nuovo gruppo armato, la Guardia Nazionale: corpo governato dall’esercito e sotto il diretto controllo dello stesso presidente.

Questo corpo armato dovrebbe sostituire la Polizia Federale per azioni contro i gruppi criminali, considerata troppo corrotta dallo stesso AMLO. Ma a chiedere di entrare in questo nuovo corpo sono stati per lo più ex membri della stessa federale. Se non bastasse, i primi compiti attributi alla Guardia Nazionale sono stati di controllo delle frontiere a sud. Ovvero al confine con il Guatemala.

Di fatto López Obrador davanti alle pressioni di Trump e alla minaccia di vedere il ritorno di dazi del 5% sull’esportazione dei prodotti Made in Mexico verso gli USA, ha deciso di reprimere fortemente i flussi migratori provenienti dal Centro America, e di accettare di trasformare il Messico in un grosso imbuto che permetta agli USA di controllare i flussi d’ingresso, di persone e beni.

In tutto questo il Messico prosegue nei suoi progetti di estrazione di materie prime e di grandi opere invasive. L’unica grande opera ad essere stoppata è stata la costruzione dell’aeroporto internazionale di Città del Messico. Sembra sempre più sicuro che non si farà nei territori resistenti di San Salvador Atenco, ma su un possedimento militare. Mentre la commissione governativa per la scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa si è fermata subito dopo la sua istituzione ad inizio del mandato di López Obrador.

Per ora il Messico prosegue seguendo la linea degli ultimi anni. Se al governo, ora, c’è una persona che gode dei favori dei sondaggi e di una storia che lo rende lontano da una storia di governi corrotti e collusi con le ambiguità delle compromissioni tra stato ed economie legali e illegali, però non si vedono ancora scarti significativi nella linea del potere, come avevano predetto le donne e gli uomini dell’EZLN, e delle comunità autonome zapatiste. https://www.qcodemag.it/indice/interventi/obrador-un-anno-dopo/

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Messico un anno dopo: dov’è il “cambiamento”?

Bilancio di un anno di presidenza di Andrés Manuel López Obrador

di Christian Peverieri, Camilla Camilli

2 luglio 2019

Un anno fa il trionfo della speranza: al terzo tentativo Andres Manuel Lopez Obrador diventava presidente del Messico. Un’elezione storica per il paese, infatti, per la prima volta un candidato di sinistra metteva alla porta i due partiti tradizionali che finora si erano spartiti il potere, il vecchio partito-stato PRI e il suo braccio destro – in tutti i sensi – PAN. Oltre che storica, una vittoria schiacciante, con 30 milioni di messicani che, scegliendo AMLO, come è comunemente chiamato, sceglievano di porre fine al regime di terrore instaurato dai due predecessori, Felipe Calderón Hinojosa (PAN) ed Enrique Peña Nieto (PRI). Con lui, il paese sceglieva la speranza di un cambiamento: troppi 12 anni di guerra civile mascherata da guerra al narco, troppi 250 mila morti, troppi 40 mila desaparecidos, troppi 300 mila sfollati interni, troppa corruzione, troppa la violenza. Ma un anno dopo questa importante svolta, il Messico di AMLO rappresenta ancora la speranza di cambiamento?

Forse è troppo presto per dirlo (è passato solo un anno dalla vittoria elettorale e solo sette mesi dall’entrata ufficiale in carica), ma alcuni segnali di questi ultimi mesi sono allarmanti. Di seguito proveremo ad affrontare alcuni di questi segnali che negli ultimi mesi hanno fatto parlare del Messico anche oltre oceano.

La nuova militarizzazione dei territori per combattere la violenza

Come detto, i dodici anni di guerra civile hanno portato il paese al collasso e sono stati, molto probabilmente, uno dei motivi fondamentali per i quali i cittadini messicani hanno scelto Andres Manuel Lopez Obrador come presidente. Purtroppo, le notizie di questi mesi non hanno mostrato un paese che ha cambiato marcia, tutt’altro. E sono i dati a parlare: nel primo quadrimestre del 2019 sono avvenuti 11221 omicidi, il quadrimestre più violento degli ultimi 20 anni [1]. Non solo, nei primi sei mesi sono già 8 i giornalisti assassinati, uno in meno rispetto all’intero anno precedente. Sono 13 invece i leader comunitari o sociali caduti con violenza per la loro lotta a difesa dei territori [2]. La risposta del nuovo governo è stata quella di investire su una nuova militarizzazione dei territori con la creazione della Guardia Nacional, un corpo ibrido metà polizia e metà militare che secondo molti ha cambiato solo forma ma non la sostanza. L’obiettivo della riforma era costituire questo nuovo corpo di polizia che avesse delle basi più civili che militari dato che lo stesso AMLO in una dichiarazione di qualche mese fa considerava la Policia Federal come il peggior corpo di polizia del paese in quanto a violenza procurata e corruzione. La realtà tuttavia è ben altra cosa rispetto alle intenzioni (dichiarate) del presidente: i membri del nuovo corpo di polizia saranno gli stessi uomini della polizia federale, obbligati a cambiare uniforme pena il licenziamento [3]. Anche gli zapatisti, naturalmente, si sono opposti alla nuova Guardia Nacional, intravvedendo subito i potenziali problemi per le loro comunità: e infatti almeno tre caserme saranno posizionate proprio nei pressi dei territori ribelli e liberati dagli indigeni zapatisti (territori che hanno tra gli indici di violenza più bassi dell’intero paese ma che sono in prossimità dei confini e interessati da alcuni mega progetti), come hanno denunciato in recenti comunicati e come ribadito durante la “giornata per la vita e contro nuova militarizzazione dei territori autonomi” [4]. Resta quindi il paradosso per l’amministrazione López Obrador, di voler combattere la violenza facendo rimanere inalterate le possibili cause di questa violenza, una scommessa che difficilmente avrà un esito positivo.

Mega progetti e resistenza indigena

In campagna elettorale AMLO si è speso molto a fianco delle organizzazioni ambientaliste e indigene di difesa dei territori, tanto da assicurare che, una volta presidente, avrebbe fatto in modo di far terminare le politiche estrattiviste. E i presupposti erano anche buoni: già ad ottobre scorso AMLO ha assicurato che avrebbe proibito il fracking, ma proprio negli ultimi giorni si è diffusa la notizia di una nuova concessione data alla PEMEX per utilizzare la fratturazione idraulica per estrarre il petrolio [5]. AMLO ha ribadito che il Messico non utilizzerà più il fracking e ha anche “sospeso” tale concessione, ma al momento, a parte le parole del presidente, non esiste una legislazione che ne vieti l’utilizzo.

Il problema tuttavia non è solo il fracking. Sono infatti numerosi i mega progetti fatti approvare attraverso il ricorso alle consulte popolari (strumenti che favoriscono l’avvallo delle popolazioni ai mega progetti e allo stesso tempo a disinnescare la protesta e a criminalizzare chi contesta) tra i quali dobbiamo citare il Tren Maya, il Proyecto Integral Morelos e il corridoio nell’Istmo di Tehuantepec. Molti di questi progetti erano stati bloccati dalle precedenti amministrazioni per la forte opposizione locale incontrata ma ora, proprio grazie all’utilizzo delle consulte, hanno ricevuto l’approvazione popolare. Ciò che tiene uniti tutti questi progetti è una parola che forse dovremmo imparare a leggerla in termini negativi: sviluppo. Sviluppo del turismo per Yucatan e Chiapas con il Tren Maya, sviluppo dei commerci per il corridoio nell’Istmo di Tehuantepec (pensato per velocizzare la circolazione di materie prime tra gli oceani Atlantico e Pacifico e competere con il canale di Panama), sviluppo del Paese con la costruzione di due centrali termiche in Morelos nell’ambito del PIM (Proyecto Integral Morelos). Uno sviluppo che però porta con sé controindicazioni nefaste per l’ambiente e le popolazioni, quasi sempre indigene, che abitano i territori sede di questi mega progetti. In questi mesi AMLO ha usato spesso la retorica del trionfo, di un paese intero che lo segue e che appoggia le sue decisioni: in questa ottica dobbiamo vedere quindi la consegna del “bastón de mando” donatogli da alcune etnie indigene durante la cerimonia di inaugurazione del suo “sessennio”, come simbolo dell’appoggio del mondo indigeno al suo operato. In realtà non tutto il mondo indigeno appoggia il presidente e a trainare l’opposizione è il Congreso Nacional Indigena, di cui fa parte anche l’EZLN, che fin dal primo momento hanno dichiarato ferma opposizione ai mega progetti del presidente, in particolare del Tren Maya che attraversa alcuni territori autonomi zapatisti. Per gli indigeni quelli portati avanti dal presidente sono progetti di morte che andranno a incidere negativamente sulla vita delle popolazioni che abitano i territori, avvelenando le acque e distruggendo terreni agricoli fondamentali alla sussistenza di molte popolazioni indigene, sfruttando la popolazione con l’impiego di lavoratori a basso costo e in molti casi, costringendo le popolazioni a spostarsi per i danni provocati da progetti ed estrazioni. In Morelos, l’opposizione al PIM è costata la vita all’attivista Samir Flores alcuni mesi fa, ucciso a colpi di arma da fuoco davanti alla porta di casa. AMLO in campagna elettorale aveva promesso la ferma opposizione al progetto per poi ritrattare una volta salito in carica. Analizzando tutti questi progetti [6] pare evidente che con questo nuovo governo non ci sarà la fine del neoliberismo come annunciato pomposamente qualche mese fa. Tutto fa credere che la logica predatoria del sistema estrattivista continuerà anche con AMLO e che le opposizioni saranno duramente represse.

La crisi migratoria e l’ingerenza statunitense

21.500. È il numero delle forze federali distribuite lungo la frontiera meridionale e settentrionale del Messico: un primo gruppo di 6.000 agenti della Guardia Nazionale sono stati inviati al confine con il Guatemala; altri 2 mila nelle zone di Chetumal, Quintana Roo, Tapachula e Chiapas oltre a 4.500 nell’Istmo di Tehuantepec. Mentre al confine nord sono stati inviati altri 15 mila agenti [7].

Numeri che rappresentano il compromesso che il “nuovo” Messico di AMLO ha preso con gli Stati Uniti. Un accordo arrivato dopo un periodo di tensione in cui Trump ha più volte minacciato di imporre dazi sui prodotti esportati dallo stato messicano verso i vicini del nord – mossa che avrebbe indebolito la già fragile economia messicana – se non fosse riuscito ad arginare l’avanzata delle migliaia di centroamericani che in questi ultimi mesi si sono messi in cammino. Di fronte ad una crisi migratoria senza precedenti, con un sistema di accoglienza ormai al collasso, la soluzione adottata dal governo di AMLO è stata la militarizzazione del territorio, la caccia al migrante e la criminalizzazione degli attivisti, come successo a Cristóbal Sánchez e Irineo Mujica (attivista per i diritti dei migranti il primo e direttore della ONG Pueblo Sin Fronteras il secondo), arrestati con l’accusa di traffico di persona e successivamente rilasciati. Tale soluzione prevede di accogliere i migranti centroamericani mentre questi aspettano la risposta alla loro richiesta di asilo rivolta però agli Stati Uniti. Un piano per l’immigrazione che al suo interno prevede la garanzia all’accesso ai servizi educativi, sanitari e legali, oltre al rispetto e alla tutela dei diritti dei migranti. Ma la realtà sfortunatamente è un’altra: il clima di odio e discriminazione, già ben presente tra i cittadini messicani, è ulteriormente alimentato dalla diffusione di notizie false, mentre numerosi sono stati i casi di aggressioni da parte delle autorità messicane. Purtroppo si sono registrate anche alcune morti. Ultime, in ordine di tempo, quella del giovane padre morto insieme alla figlia di due anni nel tentativo di guadare il Rio Bravo e quella di una donna e dei suoi tre figli nello stato di Veracruz.

Una situazione, quindi, che rischia solo di portare ad un aumento degli abusi da parte delle autorità e da parte di coloro che vorrebbero trarre profitto da una situazione simile, mantenendo i migranti in una condizione di vulnerabilità e precarietà per il loro futuro. Dall’altra parte, fortunatamente, è costantemente attivo il sistema di accoglienza portato avanti dal basso dalle centinaia di attivisti e volontari che si sono mobilitati affinché queste carovane si potessero muovere in sicurezza e raggiungere il loro obiettivo. Un sistema che viene continuamente attaccato e criminalizzato, ma che il governo messicano dovrebbe imparare a coinvolgere nella stesura dei piani riguardanti l’immigrazione essendo l’unica pratica in campo che funziona.

Rivoluzione, quarta trasformazione o continuità?

Come si evince dai temi trattati l’amministrazione López Obrador presenta molteplici aspetti di continuità con le precedenti amministrazioni. I pur lodevoli richiami del presidente a tutte le istituzioni (in particolare a Guardia Nacional, polizia ed esercito) di rispettare i diritti umani, di favorire una crescita quanto più eguale, di rispettare e di valorizzare l’indigenismo e la salvaguardia dei territori, il continuo utilizzo della retorica della “quarta trasformazione”, la vendita dell’aereo presidenziale e l’apertura al pubblico del palazzo di Los Pinos (ex residenza presidenziale), come simbolo della fine dell’era della corruzione e della depravazione, come si è visto stonano con una realtà dei fatti che sembra andare controcorrente e promuovere invece violazioni dei diritti umani, sfruttamento dell’ambiente e degli indigeni (spesso i più poveri), continuando a favorire, in due parole, estrattivismo e violenza. Quello che spaventa è anche il dopo: abbiamo visto in Italia ma anche in molte esperienze progressiste in tutto il continente latinoamericano quanto i governi cosiddetti progressisti che hanno optato per politiche moderate, non solo abbiano pagato in termini di consenso ma hanno pure favorito la crescita di una “ultradestra” fascista e molto pericolosa che, una volta preso il sopravvento, non ha nessuna remora a schiacciare con ogni mezzo, legale o illegale (vedi il caso Lula in Brasile) ogni oppositore politico. Come dice lo scrittore Pino Cacucci [8] quella di Lopez Obrador non è una rivoluzione ma il tentativo di trasformare culturalmente il paese: «AMLO è stato eletto con un processo elettorale e sappiamo benissimo che non potrà mai fare una rivoluzione, ovviamente si procederà a piccoli passi senza sfidare troppo i poteri forti». Ma qual è il senso di questa strategia? Nel mentre AMLO si adopera per trasformare culturalmente il paese, alle frontiere i migranti vengono uccisi, torturati, fatti sparire e cacciati come animali; allo stesso tempo si permette che la logica estrattivista continui a produrre macerie. Il Messico è un paese dai mille volti e dalle mille possibilità che ci ha abituato nel corso della sua storia a sorprendenti novità, dire a cosa lascerà spazio la speranza che un anno fa ha trionfato è ancora presto e sebbene con molte nubi all’orizzonte è bene concedere ancora una possibilità, con molti dubbi e una certezza: per la rivoluzione guardiamo altrove. https://www.globalproject.info/it/mondi/messico-un-anno-dopo-dove-il-cambiamento/22097

 

[1] https://www.jornada.com.mx/2019/05/21/politica/007n3pol

[2] https://www.grieta.org.mx/index.php/2019/05/16/al-menos-20-asesinatos-de-lideres-comunitarios-desde-mayo-del-ano-pasado-a-este-11-de-estos-ocurrieron-en-el-2019/

[3] https://www.proceso.com.mx/589437/entre-condiciones-precarias-policias-federales-son-forzados-a-conformar-la-guardia-nacional

[4] https://www.globalproject.info/it/mondi/ezln-una-giornata-per-la-vita-contro-la-nuova-militarizzazione-dei-territori-autonomi/22049

[5] https://piedepagina.mx/otra-asignacion-con-fracking-para-pemex/

[6] https://roarmag.org/essays/amlo-in-office-from-megaprojects-to-militarization/

[7] http://www.laizquierdadiario.mx/Lopez-Obrador-despliega-21500-militares-contra-los-migrantes-en-las-fronteras

[8] https://www.linkiesta.it/it/article/2019/06/26/messico-amlo-obrador-libro-pino-cacucci/42659/

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