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Archive for Maggio 2015

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MORTE E TRASFIGURAZIONE

Parole di Gustavo Esteva al Seminario Zapatista Il pensiero critico di fronte all’Idra capitalista. Oventic e San Crtistobal de Las Casas – Chiapas (Mex) 3-9 maggio 2015

Per tentar di capire quello sta accadendo, può essere utile voltarsi indietro e guardare come nacquero le teste dell’idra che vogliamo tagliare. Alcune chiavi del futuro possono avere le loro radici nel passato.

La mia generazione creò la sua prima formazione politica nel 1958, istituendo l’Unione Generale degli Operai e Contadini del Messico –nientedimeno!- o il Movimento Rivoluzionario Magisteriale, di Othón Salazar, che con certezza studiò a Ayotzinapa nel 2° anno di normale[1]. Fu la settimana santa del 1959, con lo sciopero che paralizzò il paese, Vallejo incarcerato, 9mila ferrovieri licenziati, l’ingresso di Fidel a L’Avana …

Alcuni di noi cercarono un impegno, più o meno sfortunato, sulle orme del Che. Però fu decisivo lo spirito degli anni ’60.

Furono gli anni del manifesto di Port Huron, allorché i giovani statunitensi scrissero l’agenda per tutta una generazione, per imparare da soli, più che dagli adulti, e porre i propri privilegi a servizio del cambiamento.

Si misero in marcia … ma senza saper bene verso dove dirigersi. Furono il ribelle senza causa incarnato da James Dean. Allorché chiesero a Marlon Brando contro cosa si stesse ribellando in The Wild One ringhiò seccamente: “Che accade qua dentro?”. Non lo sapevano. Ma i Beatles avevano ascolto ancor prima di nascere.

Furono gli anni del sogno di Martin Luther King: non era il momento di sorbire la droga del gradualismo, ma il tempo di rendere subito reali tutte le promesse.

Leader politici fra loro assai diversi simboleggiavano il cambiamento, Krusciov e Giovanni XXIII, Fidel e Nasser …

Autori inattesi aprivano nuove strade. Apparvero i manoscritti del 1844 …

Nel 1960 solo il 10% dei nordamericani aveva la televisione; dieci anni dopo, solo il 10% ne era privo. McLuhan ci spiegò come si stesse così formando una tribù mondiale che abitava il villaggio globale.

Fu il momento di Atlantic City, Betty Friedan, il decollo del movimento femminista.

Negli Stati Uniti nacquero un milione di ‘comuni’ e prese forza il Movimento di Ritorno alla Terra: radicarsi nel campo.

La lista è interminabile. È esistito realmente uno spirito degli anni sessanta, in tensione fra una corrente individualista e un’altra solidaristica e comunitaria.

Tutto venne messo in discussione: la famiglia, il lavoro, l’educazione, il successo, la saggezza, la pazzia, l’educazione dei bambini, l’amore, la scienza, la tecnologia, il progresso, la ricchezza …

Improvvisamente, tutta la gioventù del mondo era unita e trovava un linguaggio comune per rispondere a tutte le domande. Era necessario cambiare tutto. Vi furono momenti in cui all’improvviso si vide tutto quello che una società aveva di intollerabile, assieme alle possibilità di un’altra realtà sociale.

Vi fu una profonda rivoluzione di tutte le problematiche umane. Per una gran parte della popolazione del mondo il Medio Evo ebbe fine negli anni sessanta. In questo clima, con questa visione, in queste condizioni, si desiderò tutto. “Il cielo è il limite”, “Assalto al paradiso” divennero espressioni correnti. La prima oggi viene tradotta con “tutto è possibile”. Questo era ciò che significava e che pensavamo dicendolo. La seconda esprimeva un’intenzione  precisa: assaltare il cielo, prenderlo nelle mani. Era stato possibile camminare sulla luna. Come non era possibile assaltare il cielo politico e sociale? E non fu casuale che venisse usata la stessa frase forgiata da Marx, in una lettera a un amico, per parlare della Comune di Parigi, dove per la prima volta si vide il popolo cacciare i governanti e dare l’assalto al cielo.

Quegli ‘anni dorati’, dal 1960 al 1973, furono il vertice di un periodo di prosperità senza precedenti. Traballante, per i suoi stessi eccessi, il capitale aveva fatto concessioni. Era riuscito ad uscire dalla ‘grande depressione’ con la Grande Guerra, ma il suo recupero fu possibile solo grazie al New Deal (Nuovo Corso). I sindacati divennero forza reale della politica pubblica, fecero aumentare anno dopo anno i salari reali e nacque lo ‘stato del benessere’ (Welfar State). Ricette keynesiane crearono la domanda che il capitale era incapace di creare. La guerra, la morte di cento milioni di persone, assicurò il successo del pacchetto … e così si ebbero i ‘30 anni gloriosi’, con miglioramenti nelle condizioni della gente, un’espansione capitalista spettacolare e mobilitazioni dei lavoratori che andavano dalla cucina alle scuole e alle fabbriche, con ‘comuni’, picchettaggi e guerre di guerriglia. Sembrava proprio che la rivoluzione stesse arrivando.

Una eccitazione carica di speranza percorreva il mondo. Sembrava di essere alla vigilia del parto della nuova società. Sembrava che il delirio tecnologico della civiltà occidentale avesse incontrato la sua nemesi. La triste alternativa fra un mondo occidentale democratico che aveva venduto l’anima alla burocrazia sembrava giungere finalmente a una reliquia del passato. E la nuova alternativa era una società democratica diretta … piena di anima. Dietro lo splendore di questa grande visione, confluiva una sola ondata poderosissima e inarrestabile, l’emancipazione.

Nel maggio di Parigi, nel ‘68, stava confluendo tutto questo. Si mescolavano socialisti utopici con anarchici, freudo-marxisti e surrealisti. I nomi dei gruppi danno l’idea del momento: il “Comitato d’Azione Freud-Che Guevara”, il “Comitato Rivoluzionario di Agitazione Transessuale” … I loro lemmi erano chiari: “Tutto il potere all’immaginazione”; “È il sogno che è reale”. Per i situazionisti le rivoluzioni che si avvicinavano sarebbero state dei festival, “perché festoso è il tono stesso della vita che annunciano”. Sartre sottolineava: i giovani “non desiderano  un futuro come il nostro, noi che abbiamo dimostrato di essere codardi, avviliti dall’obbedienza, vittime di un sistema chiuso”. Morin vedeva “l’estasi della storia”, Touraine “il primo movimento sociale antitecnocratico”, Malraux “la risposta a una crisi della civiltà” …

I giovani contaminarono gli adulti. A Parigi ci fu lo sciopero generale più partecipato e prolungato della storia.

Una nuova era sembrava essere sulla soglia. L’agenda dei giovani di Port Huron sarebbe divenuta realtà:

Cercare alternative autentiche a ciò che abbiamo, fare tramite queste  esperienze sociali  per auto-governarsi. Dare un senso alla vita … Senza egoismi individualisti … rimpiazzeremo il potere basato sul possesso, il privilegio o le convenzioni col potere e la relazione basati sull’amore, la riflessione, la ragione e la creatività … il lavoro deve avere come incentivo qualcosa di più importante del denaro o della sopravvivenza. Deve essere educativo, non abbrutente; creativo, non meccanico; auto-diretto, non manipolato; che stimola l’indipendenza, il rispetto degli altri, un senso di dignità e la disponibilità a accettare le responsabilità sociali. 

Bello, nevvero? In questo clima vivevamo, a questo credevamo … però venimmo sconfitti.

De Gaulle minacciò di portare i carri armati a Parigi e il movimento ebbe termine. In Messico accadde il 2 di ottobre. La primavera di Praga venne cancellata dai carri armati. Le guardie rosse in Cina fecero quello che fecero. Martin Luther King e Robert Kennedy furono assassinati. A Woodstock, “la nuova società abortì, drogata e felice” …

Vi é una lunga serie di spiegazioni per la nostra sconfitta. Il food power che modificò contro di noi il modello mondiale dell’alimentazione; l’embargo petrolifero e gli interventi della Banca Centrale statunitense, che contaminarono tutto; l’individualismo di molti giovani rivoluzionari che impedì al movimento di andare oltre … Tutto questo ha pesato. Era parte della guerra che la famosa Commissione Trilaterale andava tessendo segretamente, la fusione del gran capitale con il grande governo. Ma il fattore decisivo può essere stato il fatto che si pensò possibile che il cambiamento venisse realizzato attraverso le strutture di governo. Si voleva cambiarle, trasformarle in altra cosa, ma allo stesso tempo si voleva utilizzarle per la grande trasformazione che si cercava di realizzare. Su questo terreno, che non è quello della gente, subimmo la grande sconfitta. Alcuni di noi impararono la lezione. Non c’era nulla da sperare dai governi, dall’alto. Il cambiamento non può venire da lì. Continuiamo a sorprenderci che alcuni continuino a guardare in questa direzione.

L’‘apertura democratica’ di Luis Echeverria, la sua lettura del ‘68, aveva tre componenti: inventare l’opposizione politica, dare denaro alle università e offrire opportunità agli universitari. Vari leader del ‘68 passarono dalle carceri a posti di governo. Altri incentrarono la loro vita nel nuovo partito che avrebbe catturato l’anima della sinistra e altri ancora si misero a insegnare e studiare.

In questo decennio ebbe luogo un grande dibattito nazionale e internazionale, che si svolse soprattutto fra marxisti, per decidere cosa fare dei contadini. Quelli di noi che credevamo nei contadini vennero chiamati campesinisti, per squalificarli. Quelli, cosa ancor peggiore, che credevano nei popoli indigeni, vennero qualificati etnicisti.

Ci afferrammo a una filiazione di Zapata per creare con scompiglio il Coordinamento Nazionale Piano di Ayala[2]. Per questa ragione, e altre ancora, Reyes Heroles, ministro degli interni, parlò del risveglio del Messico selvaggio.  López Portillo si autodefinì l’ultimo presidente della rivoluzione quando nazionalizzò le banche … e rovinò il paese.

Eravamo confusi, è fuor di dubbio. Tardammo a renderci conto della sconfitta e ancor di più nel capirne le ragioni. Tuttavia qualcosa stavamo imparando.

La mia organizzazione nel 1980 si chiamò Autonomia, Decentramento e Gestione perché, ci dissero, era ciò che voleva la gente con la quale lavoravamo. Celebrammo, nel centro di Città del Messico, la ‘festa dell’autonomia’ che era sbocciata dopo il terremoto[3]. Alcuni di noi andarono sulle montagne del Guerrero. Da lì, come ho scoperto in un ritaglio di giornale giallognolo che mi è capitato fra le mani venendo qua, dissi a un giornalista fuorviato, il 3 marzo del 1985, parole che mi paiono aver ancora oggi un  senso.

Per dialogare, diceva Machado, prima cosa é ascoltare; poi, di nuovo ascoltare. Ma dobbiamo, quindi, saltare giù dal treno delle concezioni mitiche. Come possiamo dialogare se abbiamo occhiali opachi e i nostri auricolari lasciano ascoltare solo la nostra musica? Come dialogare se non è possibile guardare l’altro negli occhi, ascoltare le sue parole e osservare assieme a lui la nostra realtà comune, perché lo impediscono le bende ideologiche che ci paralizzano come se fossero camice di forza?

Era questa, la difficoltà. Continuavamo ad essere paralizzati da una specie di accecamento. Così ci aveva ridotto la sconfitta che oggi conosciamo col nome di ‘globalizzazione neoliberista’ …

Ormai sappiamo cosa ha prodotto: ha smantellato tutti i progressi sociali e riportato alla situazione precedente al nuovo corso … e alla crisi del 1929. Riallocò i mezzi di produzione, deterritorializzò il capitale, accrebbe la concorrenza fra lavoratori, smantellò il potere sindacale e lo ‘stato del benessere’ e organizzò la spoliazione delle terre.

Il massacro di Ludlow, nell’aprile del 1914, dove vennero assassinati i minatori del Colorado in sciopero, descrive la situazione dei lavoratori di cent’anni or sono: solo il 5% di essi era sindacalizzato. Fu ciò che il nuovo accordo ha voluto correggere. Ormai siamo tornati lì. Solo il 6,6% dei lavoratori del settore privato degli Stati Uniti è attualmente iscritto ad un sindacato. Si era arrivati a una cifra cinque volte maggiore. Il declino del settore è oggi una realtà irreversibile.

Sono stati cancellati i progressi di un secolo in materia di disuguaglianza economica e di accumulazione della ricchezza, quelli che avevano creato l’illusione che la società capitalista avrebbe potuto essere ugualitaria e che tutta la gente avrebbe potuto appartenere alla classe media.

Aldous Huxley nel 1958 pronosticò quanto sarebbe accaduto:

Grazie a metodi sempre più efficaci di manipolazione mentale, la natura della democrazia verrà cambiata. Permarranno le vecchie forme pittoresche; le elezioni, i parlamenti le supreme corti e tutto il resto. Però la realtà sottostante sarà una nuova categoria di totalitarismo non violento.

Si sbagliò. Questo totalitarismo ricorre oggi a forme terribili di violenza in una guerra aperta contro la gente.

Non so quanti della mia generazione si sentirono orfani dopo il collasso dell’Unione Sovietica o l’apertura della Cina. Non fu il caso mio, perché da tempo questi paesi  avevano cessato di essere i miei referenti, però condividevo la perplessità di quasi tutti. Andai a vivere a otto chilometri da dove era nata la mia nonna zapoteca, in un villaggio in Oaxaca. Lì ruminavo il mio sconcerto … e mi aggrappavo ai miei, ai popoli che mi fecero nascere.

Il primo gennaio del 1994 mi trovavo lì. Si è affermato con ragione che la sollevazione fu il risveglio per tutti i movimenti antisistemici. Ma vorrei affrontare il tema in termini più personali. Fu una scossa turbinosa e ingarbugliata. Vi erano cose evidenti da fare. Uscire nelle strade, ad es., per dire che non erano soli. A marzo, afferrai la mano di non so chi in un cerchio di pace nella cattedrale di San Cristóbal. Era cosa giusta. Erano gesti anonimi. Ma in aprile commisi uno sproposito: scrissi un libro sullo zapatismo … per spiegarlo. Feci di peggio: lo pubblicai.

Non mi sono emendato. Dieci anni dopo tornai a fare la stessa cosa. Ne sono pentito[4].

Seguitai a bussare a varie porte per chiarirmi le idee. Paul Baran e Paul Sweezy negli anni sessanta erano stati fari intellettuali importanti per la mia generazione. Tornai a dar loro un’occhiata, a quello che scrissero allora e a quello di ora.

La dinamica neoliberista, dicevano, creò una forma di stasi prolungata, stabile e permanente, che mise nell’angolo il capitale. Venne rotta la tregua sociale: fin dal 2.000 si arrestò la creazione di nuovi posti di lavoro. Secondo Sweezy, la finanziarizzazione del processo di accumulazione del capitale costituiva lo sforzo disperato di sfuggire alla stagnazione economica. La finanziarizzazione agiva come una droga o come uno stimolante come per alcuni atleti. Consente di vincere una battaglia … ma porta a perdere la guerra.

Noialtri -scrissero Magdoff e Sweezy nel 1987- diventammo adulti negli anni 30 e così ricevemmo la nostra iniziazione alle realtà dell’economia politica capitalista. Per noi, la stagnazione economica, nella sua forma più atroce e penetrante, comprese le sue ramificazioni di forte portata su tutti gli aspetti della vita sociale, fu un’esperienza personale marcante. Sappiamo di cosa si tratta e quello che comporta; non abbiamo necessità di definizioni né spiegazioni.

Deploravano il modo in cui le nuove generazioni ignoravano l’idea stessa di stagnazione e non trovavano il modo per collegare la propria esperienza a quanto stava accadendo. Si, avevano ragione. La tendenza alla stagnazione sta alla radice di ogni società capitalista matura. Una cosa è certa: la finanziarizzazione è un rimedio salvifico tanto disperato quanto pericoloso.

Nel 1997, Sweezy sottolineò che la questione cruciale della sovra-accumulazione attuale deve essere letta nella inevitabile interrelazione fra la monopolizzazione globale, la stagnazione e la finanziarizzazione del processo di accumulazione. Non è una crisi, che ha sempre una soluzione ed è transitoria, ma uno stato di cose permanente, con conseguenze catastrofiche per la vita sociale, che non ha vie di uscita nel suo proprio contesto.

Gli anni della prosperità, ora lo si vede con chiarezza, sono stati un’anomalia, un periodo di follia nel quale il padre ha sperperato ciecamente il patrimonio familiare. Tutti ora ne soffrono le conseguenze. Dato che ora il capitale non può più investire nella produzione, l’idra attuale si consegna senza riserve a una febbre distruttiva. Come altri hanno detto in questo incontro, i danni per la Madre Terra mettono a rischio la sopravvivenza della specie umana.

La distruzione del tessuto sociale e politico è ancora più grave. Ogni settimana scompare una lingua. Scompaiono culture intere. Forme antichissime di esistenza sociale, che erano riuscite a resistere a tutti gli attacchi e nutrivano la convivenza umana, sono gravemente minacciate. La cosa più grave è la frammentazione individualista che esaspera la violenza e limita le possibilità di organizzare una risposta collettiva al disastro.

L’impeto distruttore è a volte cieco, folle, del tutto irrazionale, puro furore avido. Però altre volte è frutto di un calcolo patologico, che pensa ai precedenti, quando grandi distruzioni favorirono la rinascita capitalista. Si è tornati a sognare questo incubo in termini da togliere il respiro.

La frammentazione colpisce  sempre più persone appartenenti allo stesso gruppo, ragazzi contro ragazzi, lavoratori contro lavoratori, comunità contro comunità. Ci stiamo avvicinando alla sindrome jugoslava, al di là della guerra civile in cui ci troviamo, quando amici e vicini che erano vissuti assieme per secoli cominciarono ad ammazzarsi gli uni gli altri. Appena poche settimane or sono a Oaxaca si fu sul punto di una rissa spaventosa. Lavoratori semischiavi delle mafie del trasporto urbano presero dei tubi metallici per scontrarsi con lavoratori semischiavi delle mafie del mercato centrale. Accade fra loro, nelle famiglie, fra vicini, fra comunità …

L’espropriazione generale si aggrava. Parole eleganti quali ‘estrattivismo’ minerario o urbano, nascondono la rapina brutale.

La facciata democratica della quale il capitale aveva necessità per la libera azione del mercato si è trasformata in ostacolo, come pure le frontiere dello Stato nazionale, che erano state strumento privilegiato per l’espansione del capitale. La nozione di sovranità nazionale è sempre più un ricordo di tempi passati.

Nella storia vi sono stati momenti simili a questo. Però forse non ve ne è stato alcuno in cui il disastro sia tanto grande e spaventoso. Fa parte del disastro il fatto anche il fatto che si distenda uno spesso velo sopra quello che accade; si pensa perfino che le difficoltà presenti presto termineranno e torneranno i ‘bei tempi’.

I messaggi che a volte inviano coloro che protestano nelle strade, in Europa, è ambiguo: vi è qualcosa di peggiore dell’essere sfruttati, ci dicono: è il non essere sfruttati. Non c’è per caso qui attorno qualche capitalista disposto a rimetterci le catene? Si lotta per il posto di lavoro  così come si lotta per l’aumento del salario, e non vi è dubbio che siano lotte legittime e che sia necessario continuare a farle. Ma esse restano all’interno del quadro dominante, con la convinzione che è possibile vincere alcune di queste battaglie –cosa certa- ma si sta perdendo la guerra[5].

Il soggetto storico della trasformazione si è disarticolato. Gli eroi sono stanchi. Non tornerà a esistere un’organizzazione potente del proletariato industriale che per tanti anni fu per la mia generazione la promessa e la speranza del cambiamento. Quello che ne rimane  è come un vascello alla deriva.

Il regime politico creato dalla Rivoluzione Messicana[6] e che era una variante di quello configuratosi nel secolo XIX, é stato ormai smantellato. Non è solo il fatto che la Costituzione sia ormai un documento senza coerenza né sostanza, uno strumento per la manipolazione, il controllo e la rapina. Il fatto è che lo stesso ‘stato di diritto’, che mai è stato forte in questo paese,  ha cessato di esistere. Nel 2009 la Corte Suprema ha battuto gli ultimi chiodi sulla sua bara, certificando per scritto che il governo può sopprimere  le garanzie costituzionali e reprimere i movimenti sociali. Così, criminalizzando la protesta sociale e l’iniziativa cittadina, le istituzioni statali sbarrano adeguatamente l’unico cammino che ci resta per riorganizzare la società dalla base, e stabilire da lì le norme che devono regolare la nostra convivenza.

Nella confusione, per la mia fretta di distinguere il capitalismo di prima da quello di ora, mi sono azzardato a suggerire che forse non si chiamava capitalismo perché ormai non accumulava relazioni capitaliste di produzione. È una provocazione, interessante, ma la sua analisi tecnica è lunga, complessa, noiosa e poco fruttuosa. Non è utile per l’azione.

La vecchia domanda del che fare circola nuovamente fra noi e genera ansietà perché le vecchie risposte non sono più attuali. Con il secolo è morta la formula leninista che lo presidiò. Ma l’immaginazione resta paralizzata una volta che si abbandonano leader, avanguardie e partiti, come qualsiasi idea di occupare gli apparati dello Stato.

Consentitemi di affrontare di nuovo la questione in termini personali. Non ho programmato di morire nei prossimi giorni, ma sono cosciente di essere nella fase ultima della mia vita. La gente della mia età, dalle mie parti, viene giudicata persona di giudizio. Ma io credo di averlo perso, il mio, e a chi mi domanda che fare, rispondo sempre: non lo so.

Non è facile ammettere questo alla mia età. Si pensa che uno lo sappia. Ma non è così.

Come avrete notato sono una persona lenta a capire. Ma sono cocciuto. Non desisto. Voglio continuare a capire. Per questo vengo spesso in questo luogo per vedere cosa posso pescare. Si, lo so. Non devo idealizzarvi né copiarvi. Ma allora cosa … ci sono cose che molti di noi hanno portato via con sé: un mondo in cui stanno molti mondi, comandare obbedendo, camminare domandando, i sette principi … sono buone guide, indirizzano su buoni sentieri, alcuni impervi e difficili …

In verità non credo di poter offrire ciò che ci hanno chiesto. Vedo, soffro, mi addoloro, sperimento ogni giorno la tormenta che essi vedono. Ma non ho idee da proporre, orientamenti da indicare. Il massimo che posso fare è condividere quello che vedo nel mio mondo o nelle mie avventure quaggiù, quello che ascolto, e continuo a cercare di imparare.

Nel mio mondo, fra gente indigena, contadina e  emarginati urbani, vedo molta gente che si muove nel senso di organizzarsi. Alcuni hanno già recuperato le loro assemblee comunali, municipali, di quartiere. Devono impegnarsi a proteggerle continuamente dai partiti che li frazionano, dalle chiese che li dividono, dai funzionari che vogliono comprarli, dalle corporation che cercano di fregarli. Ma così fanno. Ci sono anche alcuni che vogliono spingere più avanti questa organizzazione che hanno realizzato e concordano coalizioni.

Altri non arrivano a tanto, ma hanno già un collettivo, un mezzo di comunicazione libero, una cooperativa.

Vedo che molti di questi cercano sempre più maggior autonomia. Decidono di produrre il proprio cibo, curarsi e imparare da soli, non dipendere da nulla e da nessuno.

Vedo anche fare cose che mi affascinano. Il nuovo per loro non è tanto organizzarsi ma il perché farlo: non lottano per conquistare gli apparati statali o per sedurli, per ottenerne qualcosa, perché soddisfino qualche loro richiesta. Ciò che vogliono è renderli irrilevanti, non necessari. Vi sono molti che non possono, sia perché dipendono dalla lana che perviene da essi o perché devono scontrarsi col governo per resistere a qualche puttanata.

Vedo sempre più fra loro una pratica che anni or sono chiamavamo circolazioni di lotte popolari, senza saper bene di cosa parlavamo. Oggi parlano di mutua educazione. Così come si sono lasciati educare da piante, animali e boschi, ora dedicano il tempo a educarsi gli uni gli altri, a imparare dalla lotta di ciascuno.

A volte questo assume forme affascinanti. A San Diego un mese fa mi hanno avvicinato i compagni della Sesta di Tijuana e mi hanno consegnano una maglietta con la scritta Ayotzinapa, Ferguson, Palestina. Ci hanno tolto talmente tanto che ci hanno tolto perfino la paura. Non è stato un fatto isolato. Compagni palestinesi hanno scritto a coloro i erano pieni di rabbia per il razzismo selvaggio della polizia di Ferguson. Collegare tre lotte che sembrano non avere nulla in comune spinge a pensare perché alcuni le hanno collegate. E quindi imparare a collegare quello che c’è da collegare. E mi ha sbalordito, alcuni giorni dopo, vedere che la maglietta era già emigrata al centro degli Stati Uniti e poi all’Est, e che i compagni del Movimento per la Giustizia di Quartiere, a Nuova York, che continuano imperterriti la loro solidarietà con Bachajón, avevano già la maglietta. Suppongo che da tutto ciò vi sia qualcosa da apprendere.

Il 22 marzo di quest’anno, da Amatlán, Morelos, il Congresso Nazionale Indigeno ha indicato con chiarezza che per resistere all’orrore e arrestare la guerra scatenata contro di noi “non bastano gli slogan” e “neppure lo si potrà fare affannandosi a seguire i calendari, le geografie e i modi di quelli che stanno in alto, ma abbiamo bisogno di costruire un nuovo paese, un nuovo mondo.”

Nelle loro dichiarazione, hanno rinnovato la decisione di “continuare a tessere un nuovo mondo possibile e necessario, infatti solo così potrà risplendere la pace  sui nostri popoli e aver fine la repressione.”

È questo il clamore generale. Lo ha detto brillantemente Arundati Roy: “L’altro mondo non solo è possibile ma è già in marcia; se, in un giorno tranquillo, ascoltate con attenzione, potete sentire il suo respiro”.

Com’è questo respiro?

Gli studiosi della rivoluzione, e fra loro alcuni che avevano partecipato a qualcuna di esse, già da tempo hanno enumerato le condizioni che indicano una situazione rivoluzionaria. Secondo questi, la possibilità esiste quando si combinano varie condizioni: crisi nel modo di funzionare della società, allorché le istituzioni cessano di svolgere correttamente le loro funzioni; una rapida cristallizzazione delle classi sociali e dei gruppi in conflitto; quando le loro idee e pratiche si coagulano e quando gruppi di solito dispersi, come gli studenti e i gruppi etnici, mostrano capacità di dare risposte collettive; nascita di organizzazioni e di ideologie che offrono una prospettiva alternativa a quella dominante; crisi dell’elite di governo, delle classi dominanti e degli apparati statali, e crisi morale, che mette in dubbio le strutture accettate del potere, dell’egemonia ideologica e del senso comune; tutto ciò in un contesto internazionale che facilita o almeno consente che accadano processi rivoluzionari.

Il fatto che tutte queste condizioni siano evidenti a tutti con crescente chiarezza, sollecita ovunque la tentazione rivoluzionaria, ma spesso conduce a reazioni tradizionali. Non si è generalizzata la convinzione che le vecchie forme di rivoluzione sono esauste, che ormai mancano di realismo e di senso. Questo stesso stende un velo sopra le iniziative che  sono andate gestendo e costruendo questo nuovo ordine sociale il cui respiro è udibile in un giorno tranquillo.

Per molte ragioni e motivi diversi, milioni di persone in Messico e nel mondo intero sono in movimento. Questo è il momento di valorizzare le loro iniziative e di ascoltare la gente comune.

Oggi non si tratta di fare la rivoluzione, o di programmarla e prepararla. Vi siamo dentro. Si tratta di decidere quale posizione assumiamo di fronte ad essa. Come diceva Benjamin, “non si può essere neutrali su un treno in corsa”. Il mondo si sta muovendo verso certe direzioni, alcune delle quali terrificanti. Essere neutrali davanti a questa situazione significa collaborare con tutto questo dramma.

Non abbiamo parole per descrivere quello che sta accadendo. Non siamo sull’orlo dell’abisso. Già vi siamo caduti dentro e sembra essere senza fondo. Dobbiamo agire. E la prima cosa da fare può essere quella di riscattare le infinite piccole azioni della gente comune, che è l’unica cosa che può produrre i grandi cambiamenti. Così è sempre stato. Perfino le più piccole azioni di protesta alle quali partecipiamo potrebbero trasformarsi nelle radici invisibili del cambiamento sociale.

Il mondo si è capovolto, diceva Howard Zinn, le cose vanno completamente male. Non è una questione di disobbedienza civile. Il nostro problema è l’obbedienza civile. Il nostro problema è che in tutto il mondo la gente è obbediente davanti alla povertà, alla fame, alla stoltezza, la guerra e la crudeltà. Il nostro problema è che la gente è obbediente quando le carceri sono piene di ladruncoli mentre i ladroni sono a carico del paese. Questo è il nostro problema.

Avere speranza in tempi difficili è fondato sul fatto che la storia umana non è solo crudeltà. È anche compassione, sacrificio, valore, bontà. Ricordarlo ci dà l’energia per agire, e quanto meno la possibilità di orientare questa trottola di mondo a girare in un’altra direzione[7].

E se agiamo, per piccola che sia l’azione, possiamo sperare in un grande futuro utopico. Il futuro è una successione infinita di attimi presenti, e vivere ora così come pensiamo che dovrebbero vivere gli umani, sfidando tutto il male che ci circonda, è in sé già un trionfo meraviglioso.

Il cambiamento rivoluzionario non arriva come un cataclisma improvviso ma come successione interminabile di sorprese.

Oggi regnano la violenza, il caos, il disordine, l’incertezza. Abbiamo bisogno di portare ordine e senso in questo mondo. E dobbiamo farlo adesso. Il cambiamento rivoluzionario è qualcosa di immediato, qualcosa che dobbiamo fare oggi stesso, dove ci troviamo, dove viviamo, dove lavoriamo. Implica iniziare ora stesso a disfarsi delle relazioni autoritarie e crudeli fra uomini e donne, padri e figli, fra un genere di lavoratori e un altro genere di lavoratori.

Questa azione rivoluzionaria non può essere repressa come un’insurrezione armata. Si sviluppa nella vita quotidiana, nei piccoli luoghi dove le mani potenti ma  goffe del potere statale non possono arrivare facilmente. Non è centralizzata né isolata, e pertanto non può essere distrutta dai ricchi, dalla polizia, dai militari. Si svolge in 100 mila luoghi nello stesso momento, nelle famiglie, nelle strade, nei quartieri, nei luoghi di lavoro. Repressa in un luogo, riappare fino ad essere ovunque.

Questa rivoluzione è un’arte. Richiede il valore, non la resistenza, piuttosto l’immaginazione.

………………………………………………….

Le cose cadono a pezzi, il centro non può tenere. Pura anarchia dilaga nel mondo La marea insanguinata s’innalza e dovunque La cerimonia dell’innocenza è annegata. I migliori mancano di ogni convinzione mentre i peggiori Sono pieni di intensità appassionata.

 

William Butler Yeats scrisse queste righe quasi cento anni or sono al termine della prima guerra mondiale. Fanno parte di The Second Coming, uno dei poemi più conosciuti e citati della lingua inglese. Ma nessuno vi pose attenzione. Dopo l’irresponsabilità del decennio del 1920 soffrimmo uno dei periodi più oscuri della storia umana. Oggi ci troviamo in un altro, che può essere anche peggiore. Non possiamo, non dobbiamo offrirci il lusso di alzare le spalle; chiudere gli occhi sarebbe suicida e criminale.

Si sono accese molte candele in questa oscurità ed esse brillano con intensità crescente[8]. Non c’è spazio per l’ottimismo, ma c’è spazio per la speranza, che non è la convinzione che qualcosa avverrà in un certo modo, ma la convinzione che qualcosa ha senso, indipendentemente da ciò che avverrà.

Oggi ha senso lottare.

Ha senso trasformare ogni giorno,  dovunque ci troviamo, tutte le relazioni crudeli e insensate che persistono fra di noi, e forgiare le nuove.

Ha senso far valere la nostra dignità contro tutti i sistemi.

Ha senso rendere irrilevanti quanti dominano e opprimono, forgiando l’emancipazione in ogni atto, ogni gesto, ogni parola, tutti i giorni.

Forse, lo dico timidamente e con titubanza, e mi trema la voce, ma solo questa, forse, dico, forse è arrivata la nostra ora. E si, sei un bastardo. Non so se saremo più bastardi o più porci. Però so che non staremo dormendo e non saremo codardi.

 

Traduzione a cura di Camminar domandando (www.camminardomandando.wordpress.com)

Le note sono tutte dei traduttori.

[1] Con riferimento è ai 43 studenti normalisti di questa scuola desaparecidos da fine settembre 2014, quasi certamente massacrati da esercito e polizia.

[2] Il Plan de Ayala (1911) fu un documento stilato dal leader rivoluzionario Emiliano Zapata durante la rivoluzione messicana.

[3] Un terribile terremoto sconvolse la città nel 1985. Di fronte all’inerzia delle autorità la gente reagì dando prova di notevoli capacità di autoorganizzazione.

[4] Elogio dello zapatismo Quaderni della Fondazione Neno Zanchetta, n.2, 1995 Lucca Libri ediz.

[5] Su questo tema, qui appena accennato, vedi: Dalla precarietà alla convivialità (o Buen Vivir) a partire dalla osservazione dei movimenti sociali latinoamericani di Gustavo Esteva e Irene Ragazzini – Relazione scritta per il Convegno  “Avere il coraggio dell’incertezza. Culture del precariato” , Parigi, 6-7 dicembre 2012, – comune-info.net/…/dalla-precarieta-alla-convivialita/

[6] Quella del 1910.

[7] Sul significato e valore della speranza vedi, di Esteva, La crisis como esperanza Bajo el Volcán, vol. 8, núm. 14, 2009, pp. 17-53 www.redalyc.org/pdf/286/28620136001.pdf.

[8] Ivan Illich, che certamente Esteva, suo ammiratore, ha avuto presente nel pronunciare queste parole, aveva scritto: “No. (Il consiglio) è quello di portare una candela nelle tenebre. Di essere una fiammella nelle tenebre”  (Cayley D. Conversazioni con Ivan Illich. Un profeta contro la modernità, Elèuthera, 1994, pag 101.

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Frayba

Il Centro dei Diritti Umani ritiene il governo del Messico responsabile per il suo concorso, a diversi livelli di responsabilità e partecipazione, nelle azioni di repressione manifestate nella violenza di Stato contro le Basi di Appoggio dell’EZLN.

Centro de Derechos Humanos Fray Bartolomé de Las Casas, AC

 R A P P O R T O

La Realidad, un contesto di guerra

 

Jobel, Chiapas, Messico, maggio 2015

Al Maestro Zapatista Galeano: Ad un anno dalla sua dipartita verso una Altra Realidad, il suo esempio e la sua lotta insegnano che la dignità si afferma al di là della morte.

 

Il territorio conteso

Dalla sua apparizione in pubblico nel 1994, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha dato conto della sistematica azione dello Stato messicano per frenare l’autogestione dei popoli autonomi che cercano di vivere in pienezza i loro diritti e cultura. Durante questi ultimi 21 anni ha denunciato pubblicamente una serie di azioni di vessazione, repressione e cooptazione che, come parte dei piani di contrainsurgencia, vogliono sottrarre simpatie all’alternativa politica, civile e pacifica che propone una nuova generazione di uomini e donne zapatisti.

Nel 2003 l’EZLN, nel quadro del rispetto degli Accordi di San Andrés in Chiapas, ha formalizzato l’inizio del governo civile rappresentato attraverso cinque sedi della Giunta di Buon Governo (JBG). Ogni governo autonomo ha sotto la sua giurisdizione diversi Municipi Autonomi Ribelli Zapatisti (MAREZ) il cui progetto si sviluppa attraverso varie Aree e Commissioni di lavoro.

Nella zona Selva di Confine, la JBG “Hacia la Esperanza” include quattro MAREZ ed ha sede nel Caracol 1 “Madre de los Caracoles, Mar de Nuestros Sueños”, nella comunità La Realidad, municipio ufficiale di Las Margaritas in Chiapas.

Da allora, le JBG hanno denunciato il modo in cui diverse organizzazioni e comunità sono passate, attraverso il logoramento, alla polarizzazione, come risultato prevedibile della guerra totale, portata avanti da tutti i governi di turno, fino ad ottenere lo scontro tra chi, in altre epoche, aveva condiviso la rivendicazione di istanze storiche sotto principi politici comuni.

In questo contesto è avvenuto il falso cambiamento di regime con la presunta alternanza nel potere simulato dalla classe politica, che mantiene intatta l’organizzazione, la struttura e la presenza sul territorio del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) nelle comunità del Chiapas, riproducendo vizi, corruttele e mantenendo nell’impunità le situazioni che esigono giustizia, che risultano utili per lo scontro con chi si oppone a mercanteggiare il territorio, come richiedono le attuali riforme strutturali in Messico, che approfondiscono ed accelerano il saccheggio del territorio a danno delle comunità.

L’uso della povertà come strumento di manipolazione

In Chiapas, anche i livelli di povertà estrema, emarginazione e oblio sono stati il veicolo del governo statale e federale per accelerare la cooptazione e la divisione comunitaria, come indicato nei piani militari per combattere l’insurrezione in Chiapas e così sottrarre possibili alleati al progetto politico zapatista per l’autonomia e la vita dei popoli indigeni.

La più visibile e reclamizzata di queste operazioni è stata realizzata il 21 gennaio 2013 nel municipio di Las Margaritas, uno dei territori emblematici del bastione zapatista nel 1994; in questo scenario il Presidente Enrique Peña Nieto, accanto al Governatore del Chiapas, Manuel Velasco Coello, ha lanciato il programma “Crociata Nazionale Contro la Fame”, uno dei tanti palliativi che lucrano sulla povertà ed alimentano la dipendenza delle popolazioni affinché persista il servilismo incondizionato.

Il programma ha già mostrato uno degli obiettivi politici, servendo per riposizionare le Forze Armate del Messico nella “zona grigia”(1), così definita per essere considerata un possibile territorio di espansione dell’insurrezione, e per generare cooptazione tra i popoli indigeni in resistenza.

All’interno della Crociata Nazionale Contro la Fame, con l’installazione dei Comitati Comunitari si è creata una struttura che ha impattato direttamente nella divisione comunitaria, soprattutto nelle zone di influenza zapatista, beneficiando nei fatti i soliti gruppi clientelari, cosa che non risolve minimamente le ancestrali domande di sovranità alimentare.

Così, l’obiettivo principale dei programmi di dipendenza dal governo è annullare la costruzione di alternative civili, garantendo la continuità della povertà, truccando gli standard di sviluppo nel marco del rispetto e garanzia dei diritti umani, cercando inoltre di nascondere le condizioni di milioni di vittime delle politiche governative.

Il suo obiettivo non è soddisfare né risolvere le cause di fondo, bensì persistere nelle fallimentari politiche populiste che sono utili per scopi elettorali, di manipolazione e controllo sociale.

In Chiapas i programmi governativi sono serviti come strumento di contrainsurgencia contro le comunità in resistenza, in particolare quelle che lottano per l’autonomia. A dimostrazione di ciò, basta leggere Luis H. Álvarez, ex titolare della Commissione per il Dialogo e la Pace in Chiapas nel governo di Vicente Fox (2000-2006) e Presidente della Commissione Nazionale per lo Sviluppo dei Popoli Indigeni (CDI) nel governo di Felipe Calderón (2006-2012), che nella sua autobiografia “Corazón Indígena” racconta le sue riunioni con presunte Basi di Appoggio dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (BAEZLN) in diverse comunità del Chiapas. (2)

Un’altra persona all’interno del potere municiaple coinvolta nel fomentare la contrainsurgencia è Florinda Santiz, attualmente consigliere per il Partito Azione Nazionale (PAN), incaricata dal 2004 di promuovere progetti nella zona della Realidad. È stata alleata di Luis H. Álvarez ed uno dei suoi obiettivi si inserisce nella strategia di cooptazione dei leader dell’EZLN. Come egli stesso ammette relativamente all’inadempimento degli Accordi di San Andrés “il governo federale sembrava scommettere che il semplice trascorrere del tempo portasse al logoramento dell’EZLN.” (3)

La contrainsurgencia in Chiapas

In questi ultimi 21 anni di Conflitto Armato Interno, in Chiapas attualmente le strategie sono focalizzate nella guerra a largo spettro, una guerra ad impatto psicosociale dove i governi impiegano ogni mezzo per occultare le problematiche reali che il popolo organizzato denuncia. È la guerra nascosta per un verso e, per un altro verso, aperta contro il “nemico interno”. Forma un fronte comune intergovernativo con il pretesto di combattere gruppi criminali, come il narcotraffico, permesso e fomentato con il coinvolgimento diretto di funzionari del governo messicano fin dagli anni ’80 ed oggi inseriti nelle strutture dei governi, municipali, statali e federale.

La strategia è mettere insieme tutte le problematiche apparenti e reali con le espressioni di dissenso e resistenza sociale per sconfiggere il dissenso ed avere una popolazione sottomessa agli interessi dell’élite dei poteri di fatto, politici ed economici. Lo scopo è creare le condizioni per l’implementazione di uno Stato repressivo che si costituisce come Stato criminale. Dove la struttura poliziesco-militare serve a reprimere le persone, organizzazioni, comunità, tra altri, che protestano ed esigono giustizia. L’azione repressiva serve a mantenerli al margine, in riga, controllati, in un contesto di guerra di sterminio contro l’umanità, dal centro e dalla periferia del sistema, nella logica della lotta al crimine organizzato o al terrorismo, con i conseguenti danni collaterali. Tutto questo permette di “amministrare” i conflitti, minimizzarli caratterizzandoli come “intercomunitari”, “religiosi” per saccheggiare i territori. In fondo si tratta di sconfiggere le azioni di resistenza contro le politiche e gli interessi dei poteri neoliberali.

La CIOAC e la contrainsurgencia

Lo scrittore e giornalista messicano Luis Hernández Navarro, a proposito della Central Independiente de Obreros Agrícolas y Campesinos, segnala:

Nel 1994 si verificò un profondo processo di decomposizione all’interno dell’organizzazione. La sollevazione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ne provocò la spaccatura. Molti si unirono alle file dei ribelli. Buona parte dei dirigenti diventarono funzionali al governo. L’organizzazione abbandonò i suoi antichi ideali e si trasformò in un apparato rurale clientelare e corporativo, dedito a negoziare progetti governativi e cercare posizioni politiche. (4)

In Chiapas, la CIOAC si è più volte spaccata; tra le sue fazioni si possono ricordare:

Histórica, Democrática, Independiente, Nueva Fuerza, Autónoma Región Quinta Norte Zoque-Tzotzil.

La maggioranza di questi gruppi hanno rappresentanti nei governi municipali e nel governo dello stato; la CIOAC-Histórica (H) “vinse” le amministrative a Las Margaritas nel 2001 con l’aiuto dei partiti ed ha governato per altri tre mandati.

I conflitti dovuti a interessi politici nell’ambito statale e municipale tra le diverse fazioni della CIOAC per occupare cariche politiche, hanno causato fatti violenti con l’uso di armi da fuoco ed armi bianche, sfociati in atti di: tortura, minacce, persecuzione, privazioni arbitrarie della libertà, anche contro membri di altre organizzazioni.

Il 14 febbraio 2014, la CIOAC-H annunciò in Chiapas la formazione di gruppi di autodifesa (5) con l’obiettivo di garantire la sicurezza e l’integrità della sua organizzazione e dei suoi dirigenti. Dopo questo annuncio, il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de Las Casas (Frayba) ha registrato l’azione paramilitare contro le BAEZLN della JBG della Realidad che ha avuto come conseguenza l’esecuzione extragiudiziale di José Luis Solís López (Maestro Zapatista Galeano).

La contrainsurgencia nel territorio zapatista della Realidad

Solo in questi ultimi anni nel territorio della JBG della Realidad, il Frayba ha documentato diversi eventi dove la contrainsurgencia del governo messicano, insieme ad agenti non statali, tenta di distruggere il progetto di autonomia delle comunità zapatiste. Di seguito riportiamo alcuni di questi fatti:

Agli inizi di gennaio 2014, durante l’avvio del corso della Escuelita “La libertà secondo le e gli zapatisti”, un camion viene sequestrato dagli affiliati ai partiti della comunità della Realidad, col pretesto che stava estraendo ghiaia senza il consenso dell’ejido; quindi le BAEZLN optano per lasciare la ghiaia all’entrata della comunità.

Il 3 marzo, due unità dei trasporti autonomi Las Margaritas-San Quintin, vengono sequestrate nel capoluogo dalle autorità della città con il pretesto di non aver rispettato il nuovo regolamento urbano.

Il 16 marzo, membri della CIOAC-H, fermano un camioncino Nissan appartenente alla JBG della Realidad usato in quel momento dalle BAEZLN per una campagna di salute presso le comunità zapatiste e non zapatiste nella regione.

Il 16 settembre, dopo l’esecuzione extragiudiziale del Maestro Zapatista Galeano, un BAEZLN riceve minacce di morte con una lettera infilata sotto la porta di casa nell’ejido della Realidad.

[…] no te podemos hablar pero por este medio te decimos cuidate. Ya sabemos que te estas llevando toda esta gente por mal camino para que nos peliemos mas ya no queremos mas sangre ni mas muerte pero si asi lo quieren se los damos. Cuidate ya sabemos quien te estas dando toda la pinche información con ese pinche chaparro que sale les esta llevando a la muerte ya date cuenta. Ya sabemos como familiar te estas pasando mas pendejo que como ese que ya le llevo. Por este paso te tocara igual. Ya sabemos que nos estan prohibiendo todo quieren mandar pero ni lo piensen. Ya sabemos que no nos quieren dar la luz por vos pendejo. Por eso cuidate ya sabemos donde trabajas donde caminas y que te estan protegiendo esas bolas de verga que dicen ser buen gobierno pero para nosotros nos bale berga. Ojalá que esto lo leas muchas veces para que te des cuenta. Señor Comisariado y todo tu componiente. (Sic)

Da luglio del 2014 al mese di maggio del 2015, membri delle Brigate Civili di Osservazione (6) hanno registrato azioni militari nel territorio della JBG, consistenti in incursioni di convogli di camion, hummer, jeep e squadre motorizzate e di elementi dell’Esercito messicano in unità formate da quattro a 30 persone. Inoltre, sorvoli radenti di aerei da turismo ed elicotteri dai quali fotografano e filmano persone e installazioni. Questa recrudescenza della contrainsurgencia si è resa visibile con la presenza dell’Esercito messicano; presenza che avviene nel contesto dell’esecuzione extragiudiziale del Maestro Zapatista Galeano, della solidarietà nazionale ed internazionale e dell’annuncio del Comando Generale dell’EZLN che avrebbe indagato su quanto successo il 2 maggio 2014.

Dai fatti riportati nei paragrafi precedenti, è evidente che le azioni di provocazione sono quotidiane, cercano lo scontro e sono inserite in una guerra integrale di logoramento avviata nello scenario dell’evento del 2 maggio 2014, perpetrato da membri della CIOAC-H, del Partito Verde Ecologista del Messico (PVEM), del PAN, quando hanno aggredito le BAEZLN nella comunità della Realidad uccidendo in forma extragiudiziale il Maestro Zapatista Galeano della Escuelita “La Libertà secondo le e gli zapatisti”; ferendo altre 14 persone (due da proiettili), distruggendo la scuola e la clinica autonoma e danneggiato i veicoli. Situazione che evidenzia una nuova tappa della guerra irregolare.

Atti di violenza contro altri attori nella regione

Il 1° dicembre 2013, Rosario Aguilar Pérez originario della comunità San Francisco El Naranjo, municipio ufficiale di Las Margaritas, è stato torturato e privato arbitrariamente della libertà dalle autorità dell’ejido San Carlos Veracruz, con l’accusa di aver trasportato nel suo veicolo una persona BAEZLN sulla strada che collega gli ejidos San Carlos Veracruz e San Francisco El Naranjo. Questa detenzione è avvenuta a seguito di “accordi comunitari” dell’ejido San Carlos Veracruz che proibiscono il trasporto e/o trasferimento di qualsiasi persona BAEZLN sulla strada sopracitata. Per riavere la libertà, il 2 dicembre 2013 Rosario ha pagato 30 mila pesos e le autorità hanno rubato una motocicletta di sua proprietà. A tutt’oggi il caso è impunito.

Il 10 febbraio 2014, è stato privato arbitrariamente della libertà Mauricio Aguilar García, di 19 anni, figlio di Rosario Aguilar Pérez, dalle autorità di San Francisco El Naranjo, per il divieto di passaggio dall’ejido San Carlos Veracruz. Il suo delitto, secondo le autorità, è stato guidare il veicolo in cui viaggiava suo padre Rosario.

Nei fatti sopra descritti, era coinvolto Gaudencio Jiménez Jiménez, che lavora nel Municipio di Las Margaritas come coordinatore del programma Microregiones, e la cui presenza è stata segnalata alla Realidad dalla JBG “Hacia la Esperanza” durante i fatti del 2 maggio 2014. È la persona che è stata segnalata come principale responsabile e fomentatore delle privazioni arbitrarie della libertà di abitanti degli ejidos San Carlos Veracruz e San Francisco El Naranjo, sulla base di accordi che violano i Diritti Umani. Inoltre, questo personaggio è legato alla Coordinadora de Organizaciones Democráticas del Estado de Chiapas (CODECH), come gestore ed autorizzatore dei progetti governativi nella regione di Las Margaritas, in complicità con Manuel de Jesús Culebro Gordillo, Presidente Municipale di Las Margaritas e presidente della CODECH, che beneficia direttamente la CIOAC-H delle risorse dei progetti. La CODECH si propone di rafforzare il PVEM e la fondazione Tierra Verde en Chiapas.

Il 6 novembre, Gaudencio Jiménez Jiménez ha aggredito e minacciato Marco Antonio Jiménez Pérez, abitante dell’ejido San Carlos Veracruz, per aver espresso la sua opposizione agli accordi presi nella comunità rispetto alla proibizione di libero transito per le BAEZLN.

Il 23 febbraio 2015, 50 membri della CIOAC-H dell’ejido Miguel Hidalgo, tra loro anche autorità ejidales, sono entrati a Primero de Agosto con armi di grosso calibro, hanno circondato le case ed hanno provocato lo sgombero forzato di 56 persone indigeni tojolabal che ora sono accampati a tre chilometri dalla strada Las Margaritas Nuevo Momón, alla deviazione per Monte Cristo Viejo, municipio di Las Margaritas. (7)

Sintesi dell’aggressione e dell’esecuzione extragiudiziale del Maestro Zapatista Galeano

Giovedì 1° maggio 2014 nell’ejido La Realidad, nella sede del Caracol 1, alle ore 11:00 era iniziato un incontro tra due membri della CIOAC-H, Alfredo Cruz, Segretario dei Trasporti e Roberto Alfaro, Segretario personale, e membri della JBG, alla presenza di due persone di questo Centro dei Diritti Umani in qualità di osservatori.

Scopo dell’incontro era trovare una soluzione al sequestro del veicolo Nissan appartenente alla JBG, trattenuto nella casa ejidale della Realidad dal 16 marzo, giorno in cui era stato bloccato da elementi della CIOAC-H dell’ejido della Realidad, capeggiati da Javier López Rodríguez, Commissario Ejidal; Carmelino Rodríguez Jiménez, Agente Municipale; appoggiati da militanti del PVEM e del PAN.

In questa riunione, la JBG sosteneva con la commissione della CIOAC-H che, come dirigenti dell’organizzazione, cercassero soluzioni pacifiche a questo problema. La commissione della CIOAC-H concordò che per procedere verso una soluzione, era necessario che un membro della CIOAC-H (Alfredo Cruz) andasse a parlare con le autorità ufficiali e con i membri della sua organizzazione dell’ejido della Realidad per cercare una soluzione al sequestro del veicolo. Al suo ritorno, Alfredo informò di non essere giunto a nessun accordo.

Data la complessità e riconoscendo la responsabilità della CIOAC-H, il Professor Roberto Alfaro chiese ad Alfredo Cruz di andare a parlare con Luis Hernández, dirigente della CIOAC-H, per informarlo della situazione presente nell’ejido La Realidad, ed esortarlo a giungere ad accordi con gli abitanti ed i membri della sua organizzazione che permettessero una soluzione in armonia. Per questo, si decise di proseguire in “riunione permanente” fino a risoluzione del problema, sempre con la presenza costante di due membri di questo Centro dei Diritti Umani in qualità di osservatori, e restando in comunicazione con la dirigenza della CIOAC-H e del Frayba, allo scopo di garantire trasparenza, equità e condizioni di sicurezza per il dialogo in corso.

I fatti del 2 maggio 2014 segnano un evento trascendentale nel contesto del Conflitto Armato Interno in Chiapas, che consiste nell’inclusione nella guerra del governo messicano contro l’EZLN, di altri attori che originariamente propugnavano la lotta campesina per il diritto alla terra. Ora i membri della CIOAC-H sono parte dello scenario di guerra, creano un gruppo armato di “autodifesa”, permesso, fomentato e rafforzato dalle strutture del governo municipale, con Manuel de Jesús Culebro Gordillo, sindaco e leader della CODECH, organizzazione che nel marzo del 2014 è entrata formalmente nelle file del PVEM attraverso la fondazione Tierra Verde A.C., organizzazione politica guidata dall’allora da poco Segretario di Governo dello Stato del Chiapas, Eduardo Ramírez Aguilar. Tutti loro sono diventati attori utili nella guerra contrainsurgente.

L’imboscata nel territorio della JBG della Realidad contro le BAEZLN, ha avuto come conseguenza l’esecuzione extragiudiziale del Maestro Zapatista Galeano. Durante l’aggressione sono state distrutte con accanimento la Clinica e la Scuola Autonoma, azioni che intendono minare l’autonomia zapatista nella sua costruzione di un altro sistema sociale e politico diverso dal decadente sistema neoliberale.

Bisogna segnalare che il Maestro Zapatista Galeano era già stato minacciato in precedenza dal Commissario Ejidale, Javier López Rodríguez, che militava nel PVEM; dall’Agente Municipale Carmelino Rodríguez Jiménez; dal Segretario del Commissario Ejidale, Edmundo López Moreno; e da Jaime Rodríguez Gómez, Eduardo Sántiz Sántiz e Álvaro Sántiz Rodríguez, membri della CIOAC-H.

Inoltre la CIOAC-H è parte operativa del governo municipale di Las Margaritas, controlla le risorse della federazione e del municipio e compie impunemente aggressioni, sgomberi forzati ed omicidi nella regione. (8)

Secondo le testimonianze documentate e corroborate da membri del Frayba presenti il 2 maggio del 2014, il primo fatto si è svolto all’entrata dell’ejido La Realidad, con l’imboscata da parte di un gruppo di 140 persone contro 68 BAEZLN che stavano tornando dai lavori collettivi nel Caracol 1. Qui le BAEZLN sono state ferite da colpi d’arma da fuoco, machete, pietre e bastoni; tre veicoli sono stati danneggiati: un camioncino Ford Ranger modello 2000, una Chevrolet modello 1985 ed un camion di tre tonnellate modello 2002.

Nel secondo fatto, testimoni hanno riferito che un gruppo di BAEZLN erano accorsi ad aiutare i compagni aggrediti e lì c’è stata la seconda aggressione con armi, bastoni e pietre, in questa imboscata è avvenuta la privazione arbitraria della libertà, tortura ed esecuzione extragiudiziale del Maestro Zapatista Galeano, pestato brutalmente oltre ad essere stato colpito da tre pallottole calibro .22, una alla gamba destra, una al petto ed una alla nuca, segno evidente di una esecuzione. Il corpo presentava diversi colpi di bastonate sulla schiena, in testa ed un fendente di machete in bocca.

Per l’esecuzione extragiudiziale del Maestro Zapatista Galeano, era stata avviata l’indagine preliminare N. 84/IN17/2014, inviata al Tribunale Secondo Penale Distretto Giudiziario di Tuxtla Gutiérrez, che apriva la procedura penale N. 123/2014. Il 25 maggio 2014 sono stati arrestati Carmelino Rodríguez Jiménez, Agente Municipale di La Realidad e Javier López Rodríguez, Presidente del Commissariato Ejidale della Realidad, fino ad ora gli unici due in carcere a El Amate (CERSS No. 14).

Altre sei persone coinvolte nell’indagine sono ancora latitanti.

Il 9 aprile 2015, il Giudice Sesto di Distretto con sede a Tuxtla Gutiérrez, ha respinto il Ricorso N.632/2014 presentato da Luis Hernández Cruz (alias Benito) e José Antonio Vázquez Hernández (alias el Camarón), leader della CIOAC-H, contro i mandati di cattura.

Conclusioni

Sulla base della situazione documentata, questo Centro dei Diritti Umani ritiene che il governo messicano è responsabile dell’esecuzione extragiudiziale, delle aggressioni e persecuzione della BAEZLN, e identifica come responsabili diretti i membri della CIOAC-H capeggiata da Luis Hernández Cruz e José Antonio Vázquez Hernández, autorità dell’ejido La Realidad e membri del PVEM e PAN, in complicità con Gaudencio Jiménez Jiménez, Florinda Santiz, e Manuel di Jesús Culebro Gordillo, funzionari pubblici dell’amministrazione municipale di Las Margaritas.

Denunciamo inoltre i seguenti funzionari di governo coinvolti nella politica di contrainsurgencia: Enrique Peña Nieto, titolare del governo federale, comandante in capo delle Forze Armate che perseguitano l’EZLN, che implementa progetti sociali che generano divisione, dipendenza ed atomizzano le comunità ed i popoli in Chiapas; Manuel Velasco Coello, governatore del Chiapas ed operatore politico dei programmi federali per l’azione di contrainsurgencia e protettore e finanziatore di organizzazioni come la CIOAC-H.

Di conseguenza, questo Centro dei Diritti Umani ritiene che il governo del Messico è responsabile:

Per il suo concorso, a diversi livelli di responsabilità e partecipazione, in azioni repressive manifestate nella violenza di Stato contro le BAEZLN.

Per la sua partecipazione diretta e indiretta, per azione e per omissione, nella commissione di crimini di lesa umanità, che si concretizzano nelle seguenti violazioni dei diritti umani: esecuzione extragiudiziale; sgombero forzato; privazione arbitraria della libertà, tortura, persecuzione per motivi politici ed etnici di un gruppo o collettività con identità propria, lesioni gravi all’integrità fisica e psicologica di popoli ed organizzazioni che lottano per la propria autonomia.

Per mancare al suo dovere di promuovere, rispettare, proteggere e garantire i diritti umani, prevenire, indagare, punire e riparare alle violazioni; e per mantenere una situazione di impunità strutturale.

In Chiapas il governo del Messico con le sue istituzioni violenta il diritto alla vita, alla sicurezza ed all’integrità della persona, alla Libera Determinazione espressa nell’Autonomia dei Popoli, basata e fondata su strumenti di stretta osservanza per lo Stato messicano come: gli Accordi di San Andrés, il Trattato no. 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni. Così come la Convenzione Americana sui Diritti Umani del 1969 ed i Patti: Diritti Civili e Politici; e Diritti Economici Sociali e Culturali del 1966 e rispettivi protocolli aggiuntivi.

Questa azione di contrainsurgencia è in stretta relazione con gli interessi del controllo del territorio e lede i diritti collettivi alla terra, al territorio, alle risorse naturali, all’autogoverno, all’autonomia ed alla libera determinazione.

*********

1) Bellinhausen, Herman. La actual etapa contrainsurgente inicia en Las Margaritas con la Cruzada Contra el Hambre. Jornada. http://www.jornada.unam.mx/2014/05/24/politica/016n1pol

2) H. Álvarez, Luis. Corazón indígena. Fondo de Cultura Económica. 2012. México.

3) Ibídem

4) Hernández Navarro, Luis. Hermanos en Armas. Policías Comunitarias y Autodefensa. Para leer en libertad A.C. México., p. 49

5) Declaración de la CIOAC Región III Fronteriza a las Organizaciones Indígenas. Boletín CIOAC marcha Chiapas. 14 de febrero 2014. URL disponible en: http://issuu.com/ust-mnci/docs/boletin_cioac_marcha_chiapas_14_de_

6) Frayba. Ejército mexicano hostiga a la Junta de Buen Gobierno Zapatista de la Realidad. Boletín No 7. 10 de marzo de 2015. Chiapas, México. URL disponible en: http://frayba.org.mx/archivo/boletines/150311_boletin_07_incursiones_militares.pdf

7) Frayba. Familias desplazadas del poblado Primero de Agosto en condiciones precarias. Acción urgente No. 1, 06 de abril de 2015. Chiapas, México. URL disponible en: http://frayba.org.mx/archivo/acciones_urgentes/150306_au01_actualizacion_primero_agosto.pdf

8) Frayba. Boletín 16. Agresión a Bases del EZLN en sede de la Junta de Buen Gobierno de La Realidad. 5 de mayo 2014, Chiapas, México. URL disponible en: http://www.frayba.org.mx/archivo/boletines/140505_boletin_16_agresiones_jbg.pdf

 

Testo originale

Traduzione a cura del Comitato Chiapas “Maribel” – Bergamo

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Raul ZibechiCrisi e collasso: uno scenario inedito

di Raúl Zibechi

Una delle difficoltà che affrontano i movimenti antisistemici e chi si ostina a cercare di costruire un mondo nuovo, consiste nel fatto che non riusciamo a definire quello che sta succedendo davanti ai nostri occhi. A grandi linee, coesistono due visioni non necessariamente contrapposte, ma molto diverse: chi sostiene che siamo di fronte ad una crisi, più grande delle crisi cicliche dell’economia capitalista, e chi tende a ritenere che l’umanità sta per essere portata al collasso dal sistema.

Si tratta di un dibattito teorico con forti implicazioni pratiche, poiché ci troveremmo di fronte a due situazioni molto diverse. Vale ricordare che in altri periodi della storia recente, l’ascesa del nazismo per esempio, provocò profonde divergenze tra le sinistre dell’epoca. Non pochi trascurarono l’importanza del nazismo come una vera mutazione sistemica, e pensavano che si trattasse di un regime autoritario simile ad altri conosciuti fino ad allora. Tuttavia, col passare del tempo possiamo concordare con Giorgio Agamben secondo il quale il campo di concentramento modificò radicalmente la politica, insieme a quello che definì come uno stato di eccezione permanente.

Il seminario-semenzaio Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista, organizzato dall’EZLN dal 3 al 9 maggio ad Oventic e San Cristóbal de Las Casas, è stato lo scenario di diverse visioni che ci attraversano. Da qui, in larga misura, la sua straordinaria ricchezza e fecondità. Nell’ambito anticapitalista coesistono molte analisi diverse sul mondo attuale, alcune ben fondate, altre più romantiche, alcune focalizzate sull’economia ed altre sull’etica, e molte altre sono combinazioni di queste e di altri modi di guardare e intendere. Credo che tutte abbiano la loro importanza, ma conducono a strade parzialmente diverse. O, meglio, possono contribuire a dilapidare le forze.

La cosa più complessa è che nessuno può dire di avere la verità in pugno. Questo punto mi sembra estremamente complesso, perché non consente di scartare nessuna proposta, ma nemmeno può portarci a dare per valido qualsiasi argomento.

Mi sembra necessario distinguere tra crisi e collasso, non perché siano escludenti, bensì perché incarnano due analisi distinte. Nell’ambito antisistemico, il concetto di crisi è associato alle crisi periodiche che attraversano l’economia capitalista. A questo proposito, l’opera di Karl Marx è un riferimento obbligato per gli anticapitalisti di tutti i colori. La sua analisi della crisi di sovraccumulazione del capitale si è convertita, giustamente, nel nodo per comprendere come funziona il sistema. Da qui ne deriva un insieme di considerazioni di stretta attualità.

Sebbene alcune correnti della politica economica abbiano coniato l’idea del crollo del capitalismo per le sue proprie contraddizioni interne, trascurando l’importanza degli individui collettivi nella sua caduta, è evidente che Marx non sia responsabile di questa deriva che ha avuto tenaci adepti nella prima parte del XX° secolo.

Nello stesso senso di Marx, Immanuel Wallerstein cita l’esistenza di una crisi del sistema che, dopo vari decenni di sviluppo, darà luogo ad un mondo differente dall’attuale (poiché ad un certo momento si produrrà una biforcazione) che potrà condurci ad una società migliore o peggiore dell’attuale. Ci troveremmo davanti ad un ventaglio di opportunità temporaneo, durante il quale l’attività umana può avere grande confluenza nel risultato finale. In questa analisi, la crisi si trasformerà in caos, dal quale uscirà un nuovo ordine.

L’idea di crisi è associata a periodi di cambiamenti, disordine, instabilità e turbolenze che interrompono lo svolgersi normale delle cose per poi, dopo un certo periodo di tempo, dare luogo ad una nuova normalità, ma modificata. Nelle crisi possono emergere fattori che daranno al nuovo una differente fisionomia. Dal punto di vista dei movimenti, è importante sottolineare due cose: che il concetto di crisi è troppo associato all’economia, e che appare legato a trasformazioni e cambiamenti.

Se ho capito bene, il subcomandante insurgente Moisés alla chiusura del seminario-semenzaio ha detto di non sapere se ci sarà il tempo per moltiplicare questo semenzaio, perché quello che si intravede non è una crisi, bensì qualcosa di più serio. Ha insistito: il tempo ci sta superando, ed ha detto che non basta più camminare, ma è ora di galoppare, di andare più in fretta. La notte precedente, il subcomandante insurgente Galeano ha detto che il 40% dell’umanità sarà migrante e che ci saranno spopolamenti e distruzione di intere zone per essere ristrutturate e ricostruite dal capitale. Credo che non pensasse ad una crisi, ma a qualcosa che potremmo chiamare collasso, anche se non ha usato questo termine.

Il collasso è una catastrofe su vasta scala che implica il crollo delle istituzioni, sotto forma di rottura o di definitivo declino. Nella storia ci sono state molte crisi, ma poche catastrofi/collassi. Per esempio, mi viene in mente quanto successo col Tawantinsuyu, l’impero incaico, a causa dell’arrivo dei conquistadores. Qualcosa di simile è potuto accadere all’impero romano, benché non abbia le conoscenze sufficienti per sostenerlo. In ogni caso, il collasso è la fine di qualcosa, ma non la fine della vita, perché, come è successo con i popoli indio, dopo la catastrofe si sono ricostruiti, ma come individui differenti.

Se realmente ci troviamo davanti alla prospettiva di un collasso, sarebbe la somma di guerre, crisi economiche, ambientali, sanitarie e naturali. Solo un dato: l’Organizzazione Mondiale della Salute ha avvertito che nel futuro immediato, gli antibiotici non saranno in grado di combattere i superbatteri causa di tubercolosi e polmonite, tra altre malattie. Insomma, il mondo come lo conosciamo può sparire. Se questa è la prospettiva immediata, e quelli di sopra lo sanno e si stanno preparando, la fretta di Moisés è pienamente giustificata. È ora di accelerare il passo.

Fonte: http://www.elclarin.cl/web/crisis-sistemica/15678-crisis-y-colapso-desafio-inedito.html

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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LA VISIONE DEI VINTI

Il testo che sto per leggervi è quasi tutto di un anno fa ed è quasi tutto farina del Sub Marcos. Per molto tempo è toccato a lui parlare, non delle compagne indigene zapatiste, ma della loro specifica lotta. Allora le donne zapatiste parlavano attraverso di lui, nel bene o nel male starà a loro decidere se si sono sentite rappresentate oppure no. Sta a loro giudicare. Fortunatamente ora sono le stesse compagne a parlare di loro.

Abbiamo sentito proprio adesso una specie di estratto della genealogia della lotta come donne, come indigene, come zapatiste. Tre generazioni di ribelli zapatiste non solo contro il sistema capitalista, ma anche contro di noi. Su questo tavolo, però, mancano almeno altre due generazioni. La prima generazione è quella che va tra i 12 e 15 anni ed è formata da quelle che stanno diventando promotrici di educazione o salute, o escuchas, o Tercios Compas o insurgentas, o quello che la creatività del popolo zapatista inventerà e aprirà come spazio ribelle e libertario. L’altra generazione è quella delle bambine Zapatiste che sono attorno agli 8 anni che nel ritratto sto provando a fare le sto disegnando come “Difesa Zapatista”. Una bambina irriverente che sintetizza quattro generazioni di lotta e almeno per adesso è imprevedibile.

Nel raccontarci la nostra la loro storia le compagne sono state generose perché hanno omesso una parte, o l’hanno solo menzionata.

Mmi riferisco alla nostra resistenza come uomini zapatisti. La nostra resistenza contro loro, la nostra paura nel vedere come hanno rotto i modelli e gli schemi. Uscendo senza chiedere il permesso dal ruolo che il sistema, non solo, e anche noi uomini avevamo imposto per loro costruito.

Nel rivedere la nostra storia vedo che c’è una sconfitta, che nelle vittorie che abbiamo appena menzionato non si riflette neanche pallidamente. Le difficoltà e gli ostacoli che le donne zapatiste devono affrontare tutti i giorni e tutte le ore, oltre a dover sottolineare che hanno lottato anche contro di noi e che ci hanno sconfitto.

Per questo dietro la loro storia c’è anche la nostra visione, la visione degli sconfitti.

Ma si può dire che non tutto è vero, perché anche noi come la idra capitalista siamo disposti a recuperare le nostre antiche posizione approfittandoci di qualsiasi crepa, segno di debolezza, qualsiasi sintomo che ci indica che hanno abbassato la guardia.

Io che sintetizzo meglio di qualsiasi altro il machismo e il sessismo zapatista (perché esiste esattamente come c’è il sessismo di sinistra, il sessismo libertario) mi metto a pensare alle possibilità che come genere maschile abbiamo di recuperare quello che abbiamo perso.

A ogni sconfitta che le donne ci hanno inflitto dicevo “torneremo e saremo milioni”. Ogni volta invece eravamo di meno. Sembra che i compagni Zapatisti, almeno i più giovani, vedono in modo naturale questi cambiamenti. Il resto cresce già con questa novità, che è una nuova realtà.

Penso che forse potremmo convincere la Comandanta Miriam a non partecipare più al comitato rivoluzionario indigeno comandancia generale dell’EZLN. Non so, potremmo dirle che ha già compiuto il suo dovere, che sarebbe ora di riposarsi, che i suoi figli sono già cresciuti, che ritorni a casa. Lo dubito, ma possiamo provarci.

Penso che potremmo anche provare a convincere le Comandanti Dalia e Rosalinda che sarebbe meglio che cominciassero a pensare di sposarsi, che devono smettere di andare da un posto all’altro in riunione o assistere a questi seminari, che sarebbe meglio che cercassero i loro uomini per formare la loro famiglia. Difficile, ma possiamo tentare.

Penso che possiamo rinunciare alla possibilità di convincere la generazione di Lizbeth e Selena che smettano di lottare come donne che sono, che sarebbe meglio che diventassero come le giovani partidiste e facciano un passo indietro nell’orologio delle lotte per poi diventare il contrario di quello che sono ora.

Non mi viene in mente come potremmo provare a relazionarci con la generazione della Toña, di Lupita e Stefanía, per dirle che sarebbe meglio se smettessero di studiare, che sarebbe meglio che imparassero a impastare a mano invece di imparare ad usare il cellulare, il computer, la videocamera e internet per la lotta zapatista.

Guardate sarò sincero riguardo alla bimba “Difesa Zapatista” mi viene solo in mente di compatire quello che sarà suo marito o sua marita. Se mi domandate di cosa ne sarà di questa generazione, quale sarà il modo, le sue ansie, le sue sfide, risponderei copiando il racconto del Gatto-Cane e direi “non lo sappiamo ancora”

Non mi resta che avvertire il Pedrito che le zapatiste con le quali si relazionerà negli anni futuri saranno altre e che una sua posizione sulla difensiva non potrà fargi male.

Da parte mia, per quanto mi riguarda, facendo bene i conti, tra somme e sottrazioni, intuisco che la nostra sconfitta è irreversibile. Che non solo siamo stati sconfitti, ma siamo stati vinti. E vi dico con sincerità e con il cuore in mano che davanti a questa eroica lotta mi resta solo la consolazione che la nostra stupida resistenza maschile sia stata di aiuto alle nostre compagne per obbligarle ad essere migliori come donne e come zapatiste.

Però se mi chiedete di fare uno sforzo e provare a ritornare all’inizio, all’origine di questa genealogia terribile e meravigliosa, vi direi che tutto ha avuto inizio con le insurgentas. Quelle compagne che sulle montagne ed ovunque hanno rinunciato alle loro vite in e con la famiglia, loro che hanno lottato finora per questo che è e per quello che sarà. Perché se gli domandiamo come vedono quello che si è fatto fino ad ora loro vi risponderanno: “Bene Sup, ma è chiaro che c’è ancora molto da fare”.

31 anni fa quando arrivò in montagna la prima indigena insurgenta ho sentito un brivido freddo percorrere tutto il mio bel corpo, sentii che non era per lei ma per quello che lei rappresentava. Stava arrivando una profezia: “Nessun uomo potrà mai dire che ti ha sconfitto, ma ci sarà chi lo potrà dirloe”. Per il resto, non credite, sono zapatista. Quindi mi verrà in mente qualcosa per controattacare.

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Il SubMoy vi ha già spiegato che nella nostra organizzazione ci sono indigeni e non indigeni. Questo vuol dire che ci sono compagne non indigene che sono zapatiste. Noi zapatisti e zapatiste le consideriamo parte di noi. Così come consideriamo zapatisti questo spazio il CIDECI, e chi qui insegna, studia, lavora e lotta. Il compagno Maestro Zapatista Galeano disse una volta che c’è chi è zapatista e non lo sa, finché non se ne rende conto.

Per le condizioni delle nostre lotte le compagne non indigene non possono mostrarsi neanche camuffandosi. Non sono molte, si contano appena sulle dita di un paio di mani (qu la bimba Difesa Zapatista interrompe per ricordare: “saremo certamente sempre di più”), oltre ad avere un’avversione per i palchi, a mostarsi. Preferiscono l’oscurità, l’anonimato, l’ombra. Quindi penso che neanche con il passamontagna accetterebbero di sedersi qui di fronte a voi. Loro sono nessuno, come nessuno di noi lo è.

Le parole che sto per leggervi sono collettivi anche se sembrerà come se fossero di una sola persona, di una compagna. Il mio lavoro è stato solo di raccoglierle e subire la tormenta che con queste parole si risveglia.

Userò parole un rudi e dure. Devo dire a mia discolpa che tutte queste parole provengono dalle compagne zapatiste nn indigene. Quindi se vi scandalizzate sedetevi perché manca ancora.

Parla la compagna:

Voi siete molto stupidi. Credete che se noi ci abbelliamo è per essere di vostro gradimento, oppure per provocarvi, o, come dite voi, ‘perché siamo a caccia’. E’ il momento che capiate che se noi ci agghindiamo è perchécosì ci va di fare, perché così siamo più comode oppure semplicemente perché ci piace quel paio di scarpe, quella blusa, quella gonna, quel pantalone, insomma teniamo al nostro corpo. Oppure, dobbiamo sistemarci perché il maledetto padrone o padrona ci ha detto che così dobbiamo andare a lavorare. E poi, a voi che cosa cavolo interessa del perché ci facciamo belle abbelliamo?

Voi siete come dei cacciatori schizzofrenici. Credete che la città sia un terreno di caccia e che le donne siano delle stupide prede che fanno di tutto per diventare un facile bersaglio. Qualsiasi cacciatore sa bene che non è così. Ma gli uomini “machistizzati” sono così imbecilli che pensano non solo che le donne siano un pezzo da portare a casa, così si dice nel gergo dei cacciatori, ma anche un preda che fa di tutto per essere scoperta e mettersi sotto il tiro della pallottola.

I complimenti. I complimenti, per quanto innocenti siano o possano sembrare, con ragione possono essere percepiti come una molestia. Perché non ci si può aspettare che in una società capitalista come la nostra, parlo del Messico, con il tasso di femminicidio e violenza di genere che abbiamo, non si abbia paura. È ridicolo non aspettarsi una reazione di rifiuto.

Inoltre, io penso che siete solo degli idioti”.

Ovvio, io qui ho fatto la faccia del “voi? ma cosa c’entro io…”

“Cosa credete, che se ci dite ‘mamacita, quanto sei bona’ oppure ci palpate il sedere per strada o sui mezzi pubblici, che inoltre è da vigiacchi per non far vedere che siete stati voi e fare la faccia da ‘nonsonostatoio’, noi ci butteremo nelle vostre braccia dicendovi “prendimi, fammi tua, papacito”? Che poi siete dei codardi perché se noi vi dicessimo ‘papacito che bello che sei’ e vi palpassimo il sedere, vi caghereste addosso dalla paura e non sapreste cosa fare. Voi non volete legarvi o fare sesso, voi volete dominare, comandare, violentare. E poi credete che siamo stupide come voi, quando arrivate e dite ‘ehi compagna, forte questa lotta, spiegami di più, dai prendiamoci un caffè per continuare a parlare, sai che sei proprio intelligente’. E noi stiamo lì a spiegarvi le cose ma voi pensate, da stronzi, che ci stiamo provando, e non passa molto che venite fuori con ‘dái piccola, voglio farlo con te’, ecc. ecc. Ma poi, quando vi facciamo capire che non ci interessa, che era solo per parlare, voi reagite con le solite invettive ‘stronza, lesboterrorista, quello di cui hai bisogno è una bella scopata, così la smetti di dire stronzate, e non sei nemmeno tanto bella’”.

Alcune di queste frasi le ho copiate testualmente dalla conversazione su tuiter di una donna che spiegava il femminismo ad uno dei suoi follower, un macho cibernetico. L’ho fatto vedere alla compagna che ha detto: “è proprio così, e non solo su tuiter, ma anche nella realtà”.

La compagna non la smetteva più ed io, da bravo ometto, spportavo la sua furia. Pensavo soltanto: “porca miseria, e questa da bambina non era zapatista, figuriamoci cosa diventerà labambina Difesa Zapatista quando crescerà”. Vero, sono macho ma non stupido, l’ho solo pensato, ma non l’ho detto.

Sì, hai ragione quando si dice che noi donne siamo molto più crudeli con le altre donne rispetto agli uomini, che usiamo insulti maschilisti fra di noi e così ci diamo delle “puttane”, “rovina famiglie” o come nel film di Pedro Infante “smorfiosa”, tutte parole inventate da voi. Ma non si dice che tutto è un processo? Che nelle comunità indigene le donne stanno costruendo il loro percorso senza che nessuno imponga loro come farlo, senza che nessuno dia loro degli ordini o che le impongano manuali e ricette? Bene, anche noi stiamo imparando. È la cultura che ci frega con le vostre stronzate, e ci frega anche la nostra testa. E forse è per questo che ci sono tanti femminismi, perchè ognuna di noi ha il suo modo e una sua storia, i nostri fantasmi, le nostre paure e cerchiamo come combatterli e sconfiggerli.

E voi potete accettare o no la nostra lotta, ma attenzione, ho detto la nostra lotta, voi non siete parte di questa lotta.

Per quanto sensibili e ricettivi siate, non potrete essere femministe, perchè non potrete mai mettervi davvero nei nostri panni, perchè non avrete mai il ciclo mestruale, perchè non avrete mai il desiderio o la paura della gravidanza, non saprete mai cosa vuol dire partorire e mai saprete cosa vuol dire essere in menopausa, non avrete mai paura di uscire in strada alla luce del sole e dover passare davanti ad un gruppo di uomini, non saprete mai cosa vuol dire nascere, crescere e vivere con la paura che hai dentro di essere come sei. Non è che non desideriamo essere donne, che malediciamo di essere nate donne, tantomeno che avremmo preferito essere uomini. No, quello che desideriamo e lottiamo per ottenerlo, è essere donne senza che questo sia un peccato, una mancanza, una macchia, qualcosa che ci predestina a stare sempre sulla difensiva e ad essere delle vittime. Quindi, che non mi si venga a dire che ci sono uomini femministi. Ci sono uomini più a modo, ma non femministi. Solo quando questi uomini mi porteranno un assorbente macchiato del loro sangue mestruale, allora potremmo iniziare a parlarne e forse nemmeno in quel caso.

Nel frattempo io guardavo il corpo della compagna con attenzione. No, non stavo guardandole il sedere né tanto meno le tette, stavo osservando le sue braccia e le sue gambe. Che tipo di scarpe portava. Stavo calcolando il potere d’impatto di un suo pugno o di un suo calcio. Il calcolo è stato spaventoso, quindi mi sono messo a distanza di sicurezza. Era arrabbiatissima.

La compagna aveva le lacrime agli occhi, ma non erano le lacrime di una vittima. Erano lacrime di coraggio e rabbia. Mi sono ricordato allora delle lacrime negli occhi delle compagne e dei compagni di fronte al cadavere del compagno Galeano, delle lacrime dei familiari dei ragazzi assenti di Ayotzinapa quando ci raccontano la loro storia.

“Si lo so che stai per dire che la colpa è del maledetto sistema capitalista. Ma maledetti anche voi che non fate niente, che siete inetti. Continuate a dire che è importante lottare contro il sistema quando anche voi siete un pezzo di questo maledetto sistema. Voi e anche noi. Almeno noi non ci arrendiamo e resistiamo. Voi neanche questo perché siete pigri e stronzi. Lo so che questo è un insulto maschilista, però vi brucia ed è per questo che ve lo dico.

“Guarda, ti dirò che le cose più importanti ce le hanno insegnate le nostre compagne delle comunità zapatiste. Perché anche noi siamo delle stronze, ci crediamo migliori, crediamo di saperne di più, pensiamo di non essere così messe male e vogliamo fare lezione di femminismo e insegnare a lottare per i propri diritti. Queste sono stronzate. Non abbiamo niente da insegnare alle compagne, né con i libri, né con tuiter, né con le tavole rotondo o con le riunioni. Le compagne, quando andiamo da loro o quando loro vengono da noi, non ci dicono cosa dobbiamo fare, né ci criticano, né sparlano, come dicono loro. Ci dicono che vogliono imparare! Ma noi non abbiamo niente da insegnare loro. Loro ci insegnano Con la loro lotta, con la loro storia, loro ci insegnano che ognuno e ognuna ha il suo modo di lottare. Quando ci raccontano le loro storie, ci dicono: “noi facciamo così, ma ognuno ha il suo modo”. La cosa buffa è che con la loro lotta ci fanno mettere in discussione, ci danno una scossa di quelle che ti ribaltano, altro che la sindorme premestruale!

Quello che ha fatto avvicinare me ecredo altre compagne allo zapatismo, non sono state le compagne. Verto anche le compagne zapatiste. Non perché volevamo essere come loro. ma ci sono di mezzo anche i maledetti compagni zapatisti.

Il fatto è che lo zapatismo è grande, è qualcosa che ti fa desiderare di essere migliore ma senza smettere di essere quello che sei. Non ti dice di andare a vivere in comunità o di imparare la loro lingua, di coprirti il volto, di abbandonare tutto, anche la famiglia, per salire in montagna con le insurgentas od ovunque esse siano. Ma ti dice e ti chiede “Noi siamo qui a fare questo, e tu cosa fai là?”. Lo zapatismo ignora stupidate del tipo sei grassa, magra, bassa, alta, scusa, oppure bianca, vecchia, giovane, saggia, ignorante, campagnola, cittadina.

Credimi, non c’è amore più puro di questo, che ti rispetta, che ti ama per come sei ma ti avvelena perché allo stesso tempo ti fa desiderare di essere migliore come persona, come donna. Nessuno ti obbliga, nessuno te lo chiede. Nessuno nemmeno lo pensa. Questa è la fregatura, perché questo desiderio nasce dentro di te. E non c’è nessuno contro cui reclamare o al quale rendere conto se non il maledetto specchio. E non possiamo dare la colpa agli uomini, o al sistema, o alle condizioni. È così forte che ti rovescia addosso tutto, ti obbliga ad essere responsabile di questo amore. Non ti concede nemmeno un dannato angolo in cui nasconderti. Maledetto zapatismo”.

Mi sono comprtato come un macho, ho scritto tutto senza cambiare nulla. Le parole sono tali e quali come le ho ascoltate. Sono le stesse non perché le ho registrate, ma perché, e sarete d’accordo con me, sono parole difficili da dimenticare.

Alla fine ho detto alla compagna che avrei presentato queste parole al seminario, se voleva quindi aggiungere ancora qualcosa per chiudere. Lei ci ha pensato qualche secondo e poi ha detto:

“Sì, dì a quegli stronzi degli uomini che se la prendano con i loro padri, sì con i loro padri non con le loro madri, perché le madri non hanno colpa se sono così stupidi. Poi, dì alle compagne che…. che…

La compagna zapatista che ancora non sa di esserezapatista, cerca un una parola che non riesce a trovare.

che… che… guarda, io non sono credente, ma in questo momento non trovo altra parola per dire ciò che penso, quindi di alle compagne che…. che dio le benedica, che un giorno spero di ritrovarmi non di fronte a loro, ma accanto a loro, e di non sentire la vergogna che mi brucia in petto. Che spero che arrivi il giorno in cui mi chiamino “compagna”, perché lo sono. Bene, adesso ho da fare con Los Tercios Compas e devo occuparmi della rivista e dei comunicati sulla pagina web, trascrivere la registrazione, controllare il testo, l’artigianato, andare alla riunione e al lavoro, alla lotta sempre alla lotta. Ah! Dì gatto-cane che se piscia ancora sulla sedia mi sentirà”.

La compagna se n’è andata. Io mi controllo per assicurarmi di non avere nessuna frattura o emorragia, nessuna ferita, se non avevo perso niente altro che la superbia. Vedendo che le mie belle parti del corpo erano ancora intatte, sono andato al computer a trascrivere queste parole. Certo, primo ho avvisato il gatto-cane di cercare un paese dove non ci sia il trattato di estradizione.

Con questo è dimostrato che noi uomini abbiamo sempre l’ultima parola e…..

Grazie. Grazie alle Insurgentas. Grazie alle donne zapatiste, indigene e no. Grazie alle donne della Sexta. Grazie alle donne che non sono della Sexta ma che lottano.

Subcomandante Insurgente Galeano

San Cristobal De Las Casas

6 maggio 2015

 Traduzione “Maribel” – Bergamo

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comandanta daliaComandanta Dalia

Buona sera, compagni e compagne, fratelli e sorelle.

Spiego loro un po’ quello che disse la compagna Comandante Rosalinda.

Come ha detto la Comandanta Rosalinda, ora tocca a me spiegare che dal 1994 abbiamo capito di avere i nostri diritti come donne, ci siamo svegliate, e a poco a poco abbiamo imparato.

Nei villaggi, nelle regioni, abbiamo insegnato come organizzarsi per la lotta per il bene del popolo, anche senza aver studiato sui libri.

E’ nel 1994 che, come donne, come madri e padri, abbiamo avuto il coraggio di mandare a combattere i nostri mariti, i nostri figli, le nostre figlie, ben sapendo che non era facile affrontare il nemico, perché potevi tornare sono o vivo o morto, ma non abbiamo mai pensato a questo, avevamo ben chiaro di avere la responsabilità di crescere i nostri figli, le nostre figlie. È quando ci siamo rese conto che pensiamo come i compagni uomini.

Per spiegare, prima devi lavorare, imparare la lotta, e questo di grande responsabilità; come fare riunioni nelle regioni, nei municipi e nelle zone; visitare spesso i villaggi per organizzare le compagne e compagni nei lavori collettivi per sostenere la nostra resistenza nelle terre recuperate nel 1994, terre che ci avevano tolto i proprietari terrieri, è dalla clandestinità che facciamo lavori collettivi; ed anche andare a parlare in ogni villaggio, a uomini e donne, bambini e bambine, per far capire la lotta.

Non permettiamo che i nostri figli crescano con le cattive idea del sistema capitalista.

Così è andato avanti il lavoro delle compagne e la loro partecipazione come zapatiste in qualunque tipo di attività, o qualunque carica assegnata dalla comunità. Così sono stati riconosciuti i diritti delle compagne ed abbiamo ottenuto questa libertà. La libertà di pensare, di analizzare, discutere, pianificare, su qualunque cosa, ed anche i compagni hanno capito i diritti delle donne.

Il primo valore delle compagne è quando hanno permesso che i loro mariti, le loro figlie andassero a lottare. Il secondo, si sono liberate dai mariti, perché abbiamo visto quello che fanno gli uomini, e possiamo farlo anche noi donne, ne abbiamo il coraggio.

Possiamo parlare, analizzare idee, risolvere i problemi. Certo è stato molto difficile per noi, ma l’abbiamo fatto. Una volta i compagni uomini erano dei veri cabrones, ma siamo riuscite a farlo capire, anche se ce ne sono ancora alcuni che si comportano da cabroncitos, ma non più tutti.

Ma la maggioranza l’ha ormai capito. Le compagne non demordono, non si fanno umiliare come prima, come diceva la compagna Comandanta Miriam, si rivolgono alle autorità civili, alle agenti o commissarie. In ogni villaggio ci sono agenti e commissarie, e se queste non riescono a risolvere il problema, questo passa alle autorità municipali. Il problema viene risolto perché abbiamo regolamenti per ogni villaggio, a seconda degli accordi presi in ogni villaggio.

Ma non ancora tutte le compagne si lamentano perché hanno paura del marito, ma lo veniamo a sapere attraverso altre compagne, se ne parla in riunione e investighiamo noi compagne, e poi risolviamo il problema, perché noi abbiamo molta pazienza, non come gli uomini che non hanno pazienza.

Abbiamo visto che possiamo lavorare e ci siamo prese questo spazio per partecipare e formare una nuova generazione, facciamo anche errori, ma se facciamo errori, li correggiamo. Abbiamo continuato la nostra lotta con la pazienza di noi donne, e così siamo diventate responsabili locali, responsabili regionali, candidate, supplenti fino ad entrare nel comitato clandestino rivoluzionario indigeno.

Per organizzare meglio le compagne e far capire meglio ai ragazzi e ragazze, li dobbiamo orientare, attirare, incuriosire, contagiarli, ma non come una malattia, ma dobbiamo contagiarli di buone idee. Non è una brutta idea fargli capire che non devono vivere sfruttati dal sistema capitalista, e lo stiamo facendo, i ragazzi e le ragazze sono già organizzati. Come potete vedere qui con noi ci sono le nostre giovani compagne, Selena e Lizbeth, che saranno le nostre future autorità.

Ora procediamo per gradi, non c’è fine, ed ora siamo qui come comitato, come Commissione Sexta. Grazie all’organizzazione abbiamo imparato a leggere, a scrivere, a parlare un po’ di castigliano; prima non sapevamo nemmeno una parola di castigliano. Per questo non smetteremo di organizzarci come donne contro questo sistema capitalista, perché c’è ancora tristezza, dolore, incarceramento, violazione, come per le madri dei 43 desaparecidos.

Per questo stiamo condividendo con voi come Sexta nazionale, internazionale, fratelli e sorelle. Grazie alla nostra organizzazione zapatista, ora siamo prese in considerazione come donne zapatiste, per questo ci organizziamo uomini e donne, contro il cattivo sistema capitalista.

Quello che vogliamo è un cambiamento totale. In tutto il mondo, in tutto il paese. Bisogna che ci organizziamo, se non lottiamo contro il sistema capitalista, lui continuerà così fino a distruggerci, e non ci sarà mai un cambiamento.

Dobbiamo lottare al cento percento uomini e donne. Avere una nuova società, che sia il popolo a comandare. Noi, come donne zapatiste, non smetteremo di lottare, anche se il malgoverno ci uccide, perché i malgoverni ci hanno sempre perseguitati.

Scusate, compagni e compagne, fratelli e sorelle, non so parlare molto bene lo spagnolo. Spero abbiate sentito e compreso quello che ho detto.

È tutto.

Molte grazie.

Testo originale

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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comandanta rosalindaComandanta Rosalinda

Buona sera, compagni e compagne, fratelli e sorelle.

Come ha appena spiegato la compagna Comandanta Miriam, è tutto vero. Siamo state maltrattate, umiliate, disprezzate perché noi stesse non sapevamo se avevamo il diritto di organizzarci, di partecipare, di fare tutti i tipi di lavoro, perché nessuno ci spiegava come fare per organizzarci per uscire da quello sfruttamento.

Perché a quei tempi vivevamo nell’oscurità perché non sapevamo niente, ma è arrivato un giorno in cui alcune compagne furono reclutate nella clandestinità, e quelle reclutate ne reclutatono altre villaggio per villaggio.

Poi arrivò il momento di nominare una compagna responsabile localmente di ogni villaggio. Io fui nominata responsabile locale del mio villaggio. È lì dove ho cominciato ad organizzare le riunioni per portare informazioni al villaggio, poi a fare riunioni con le compagne del villaggio per spiegare loro come organizzarsi nei lavori collettivi, e spiegare anche che era necessario che ci fossero compagne miliziane, insurgentas.

I padri e le madri capivano e mandavano le loro figlie a fare le miliziane, ad essere insurgentas. E quelle compagne svolgevano il loro compito con entusiasmo perché capivamo cosa è lo sfruttamento del cattivo sistema. Così è cominciata la partecipazione delle compagne.

Indubbiamente non è stato per niente facile, ma a poco a poco abbiamo imparato e siamo andate avanti fino ad arrivare al ’94, quando siamo usciti alla luce pubblica, quando non abbiamo più sopportato il maltrattamento dei dannati capitalisti. Lì abbiamo capito che era vero che avevamo lo stesso valore e forza degli uomini, perché abbiamo affrontato il nemico senza paura. Per questo siamo pronte a tutto contro il sistema capitalista.

Poi sono diventata responsabile regionale, ed il responsabile regionale è fare riunioni nelle regioni con le compagne responsabili locali, per portare informazioni al villaggio ed alle compagne per organizzarsi meglio. Andiamo anche nei villaggi per organizzare altri responsabili locali, per far capire alle altre compagne che la partecipazione delle donne è necessaria.

A poco a poco abbiamo perso la paura e la vergogna, perché abbiamo capito di avere il diritto di partecipare a tutte aree di lavoro. Poi ci siamo rese conto che per fare una rivoluzione non bastano solo gli uomini, la devono fare uomini e donne insieme.

È tutto, compagne, compagni.

Testo originale

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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miriamComandanta Miriam, 6 maggio

Buona sera, compagne e compagni.

Anche a me tocca parlarvi di come era la situazione delle donne prima del 1994.

Soffrivamo la triste condizione di essere donne fin dall’arrivo dei conquistatori. Ci hanno spogliato delle nostre terre, ci hanno tolto la nostra lingua, la nostra cultura. E qui si è inserito il dominio dei cacicchi, dei proprietari terrieri con triplo sfruttamento, umiliazione, discriminazione, emarginazione, maltrattamento, disuguaglianza.

I padroni ci consideravano roba loro, ci mandavano a lavorare tenute senza tenere conto se avevamo dei figli piccoli o se eravamo malate. Non domandavano certo se fossimo malate, se non riuscivamo ad andare a lavorare, mandavano i loro schiavi che lasciavano la farina fuori dalla porta di casa perché preparassimo le tortillas per loro.

E così è passato molto tempo a lavorare nella casa dei padroni. Macinavamo il sale, perché il sale non era come adesso, così fine, prima il sale era a grossi blocchi che noi donne dovevamo macinare anche per il bestiame, e poi dovevamo sgusciare il caffè quando era la stagione della raccolta. Si cominciava alle 6 del mattino e si finiva alle 5 del pomeriggio. Per tutto il giorno le donne dovevano pulire i chicchi di caffè.

Così lavoravano le donne, con maltrattamenti, trasportando acqua e miseria, cioè con una paga miserabile, solo un pugno di sale o un pugno di caffè macinato era la paga per le donne.

E così passavano gli anni mentre le donne soffrivano, e quando a volte i nostri figli piangevano e li allattavamo, ci sgridavano, ci prendevano in giro, i insultavano dicendoci che eravamo ignoranti, inutili, solo un disturbo per loro. Non ci rispettavano, ci usavano come oggetti.

Loro fanno quello che vogliono di una donna, se ne scelgono una carina e la fanno diventare loro amante e lasciano figli ovunque, tanto a loro non importa se poi la donna soffre, la trattano come un animale con i suoi figli che crescono senza padre.

Ci vendevano come fossimo una merce al tempo dell’acasillamiento, non c’era mai riposo per noi.

Vi spiego cosa era l’acasillamiento. Acasillamiento significa che si arrivava con tutta la famiglia nella tenuta o nel rancho del padrone e l’uomo lavorava solo per il padrone, a seminare caffè, pulire il caffè, raccogliere il caffè, pulire il pascolo, seminare, fare la milpa, piantare i fagioli, ma solo per il padrone.

Nella condizione di acasillamiento c’erano anche servi e schiavi, donne e uomini. E quegli uomini o donne servi o schiavi molte volte erano senza famiglia. Succedeva che nella tenuta arrivava a lavorare una famigli e che poi il papà e la mamma si ammalavano e morivano, lasciando i figli orfani, e allora il padrone prendeva questi bambini e li teneva nella tenuta. E che cosa ne faceva di quei bambini? Non li adottava come dei figli, ma come schiavi. Quei bambini crescevano lavorando e se il padrone aveva una sua mascotte, cioè un cane, una scimmia, qualunque tipo di animale, erano questi bambini a prendersene cura. Dovevano seguire la scimmietta, curarla, lavarla, pulire dove dormiva, ecc.

Quando il padrone faceva delle feste, come quando venivano i preti nella tenuta per battezzare i figli, o per qualche compleanno o matrimonio delle figlie, questi servi dovevano restare di guardia sulla porta della tenuta per non fare entrare nessuno mentre il padrone faceva festa con i suoi invitati. E dovevano restare lì di guardia fino a che la festa non era finita.

E le schiave cucinavano, lavavano i piatti, si occupavano dei figli del padrone e dei figli dei suoi amici.

Così si viveva nelle tenute, e non si mangiava quello che mangiavano il padrone ed i suoi invitati, ma si beveva pozol, quando c’era, si mangiavano fagioli, se ce n’erano, mentre solo il padrone ed i suoi amici mangiavano cose buone.

E se capitava che il padrone dovesse uscire dalla tenuta per andare in città che distava 6 ore a piedi, ci doveva andare il servo, e se il padrone aveva dei figli malati, il servo doveva trasportarli in città. E poi tornava ma se doveva riportarlo in città, doveva trasportarlo un’altra volta.

E quando si raccoglieva il caffè, il servo doveva occuparsi dei muli, dei cavalli, non so se conoscete i cavalli, devono sellare e dissellare il cavallo del padrone, mungere le mucche e portare il raccolto fino in città dove viveva il padrone. Se viveva a Comitán, doveva andare a Comitán attraverso le mulattiere. Molti uomini e donne hanno sofferto la condizione di schivi a quei tempi.

Se nella tenuta c’erano alberi da frutta, non si poteva salire a prendere i frutti, e se lo facevi ti tiravano giù a frustate, perché non era permesso raccogliere la frutta senza il permesso del padrone, perché tutto il raccolto il padrone lo portava in città. Così pativano gli uomini e le donne.

Dopo tanta sofferenza delle donne o lo sfruttamento dell’acasillamiento, gli uomini si resero conto dei maltrattamenti alle loro donne. Alcuni pensarono che era meglio andarsene dalla tenuta di acasillamiento. Uno alla volta fuggirono e si rifugiarono sulle montagne perché erano rimaste accessibili solo le alture, cioè i latifondisti non si erano accaparrati delle terre di montagna, e lì andarono a rifugiarsi. Decisero che era meglio fuggire dalle tenute per non far soffrire più le donne.

Dopo molto tempo trascorso sulle montagne, si resero conto che era meglio unirsi e formare una comunità. Si riunirono, ne parlarono e formarono una comunità dove poter vivere. Così formarono la comunità.

Ma nelle comunità, come il padrone, gli uomini si comportavano da padroncini in casa. Le donne non furono liberate e gli uomini si comportavano da padroncini della casa.

Ed ancora una volta le donne dovevano restare rinchiuse in casa come in prigione.

Quando nascevano le bambine, queste non erano benvenute in questo mondo, perché siamo donne, cioè non ci vogliono. Ma se nasceva un maschio, gli uomini festeggiavano, erano contenti di avere un maschio. Cioè, avevano preso la brutta abitudine dei padroni. Così passò molto tempo. Se nasceva una femmina, era come un essere inutile, ma se nasceva un maschio era come se solo un uomo potesse fare tutto il lavoro.

Ma la cosa buona, è che mantenevano l’idea di comunità, cominciarono a nominare i propri rappresentanti, a fare riunioni, a vivere insieme. La cosa buona è che quell’idea non gliel’hanno tolta. I padroni e la conquista volevano far sparire la loro cultura, ma si sbagliavano perché loro erano riusciti a formare la loro comunità.

Ma in casa erano gli uomini a comandare e le donne dovevano obbedire. E se ti dicevano che ti dovevi sposare, ti sposavi, non ti chiedevano se ti volevi sposare con l’uomo che loro avevano scelto per te, magari il padre era ubriaco e ti obbligava a sposarti con l’uomo che tu non volevi.

E così pativano un’altra volta coi mariti, perché ci dicevano che le donne sono buone solo per la cucina, per soddisfare il marito, per curare i figli, e gli uomini non prendevano in braccio i figli, cioè non aiutavano le donne, ma ti facevano fare i figli e poi non gli importava come li crescevi. E questo è andato avanti per anni, e le donne partorivano un figlio all’anno, ogni anno e mezzo, cioè come statuine, uno dietro l’altro. Ma al papà non importava se la donna stava male perché doveva andare a far legna, fare milpa, pulire la casa, curare gli animali, fare il bucato, cambiare i pannolini ai bambini; la donna faceva tutto questo lavoro.

Per questo parliamo del triplice sfruttamento della donna, perché la donna doveva alzarsi alle 3 o alle 4 del mattino, in base a quanto era distante il posto dove il marito andava a lavorare, per preparare il pozol, il caffè ed il pranzo che il marito si portava via. Poi il marito tornava a casa e doveva trovare l’acqua pronta per lavarsi e poi se ne andava a passeggio e a giocare, e la donna restava ancora una volta a casa. (…).

Abbiamo sofferto molto. Al marito non importava se eri malata, non ti chiedeva ‘come sta’. Era così che vivevano le donne, Non sono bugie, perché l’abbiamo vissuto.

E se andavi in Chiesa o a qualche cerimonia o festa, le donne dovevano andarci con il capo coperto, Cioè, dovevano tenere la testa bassa e non guardarsi in giro, dovevano nascondersi il viso con lo scialle.

Così è passato molto tempo quando l’uomo aveva in testa queste brutte idee, questi brutti insegnamenti. Era così, compagni. Come se fossimo niente. Come se solo gli uomini possano essere autorità, possano uscire per strade e possano parlare.

Non c’erano scuole. In alcune comunità poi sono arrivate alcune scuole ma non ci potevamo andare perché eravamo donne, non ci permettevano di andare a scuola perché dicevano che era solo per andare a cercare marito e che era meglio che imparassimo a cucinare perché poi ci saremmo sposate e dovevamo imparare a come accudire un marito.

Se una donna veniva picchiata dal marito, non poteva reclamare. Se chiedeva aiuto alle istituzioni del malgoverno era anche peggio, perché appoggiavano il marito e gli davano ragione, e noi restavamo zittite, umiliate e ci vergognavamo di essere donne.

Non avevamo il diritto di parlare nelle riunioni, perché dicevano che eravamo tonte, inutili, che non servivamo a niente. Ci tenevano in casa. Non eravamo libere.

E non c’era assistenza medica, anche se c’erano cliniche e ospedali del mal governo, ma non erano per noi perché non sapevamo parlare castilla, e molte volte donne e bambini morivano di malattie curabili perché per loro noi non siamo niente, ci discriminano perché siamo indigeni, ci dicono che siamo indios zampa storta, non possiamo entrare nelle cliniche, negli ospedali, danno assistenza solo alla gente con i soldi.

Tutto questo l’abbiamo subito sulla nostra pelle. Non abbiamo avuto l’opportunità di dire quello che sentivamo per molti anni, a causa del cattivo esempio dei conquistadores e dei malgoverni.

È tutto, compagni. Ora continuerà l’altra compagna.

Testo originale

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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LizbethCompagna base d’apoggio Lizbeth. 6 maggio

Buonanotte, compagni e compagne, fratelli e sorelle.

Noi spiegheremo un po’ come stiamo vivendo e facendo i lavori nell’autonomia dopo la sollevazione armata del 1994.

Noi giovani zapatiste e zapatisti di oggi, non sappiamo nemmeno come sia un capoccia, un proprietario terriero o padrone, e tantomeno sappiamo com’è El Amate, né come andare dai presidenti dei municipi officiali perché risolvano i nostri problemi. Perché grazie all’organizzazione dell’EZLN abbiamo le nostre autorità in ogni villaggio, abbiamo le nostre autorità municipali e la nostra giunta di buon governo per risolvere qualsiasi tipo di problema di qualsiasi compagna e compagno, zapatista o no, in ogni villaggio.

Noi abbiamo ora la libertà e il diritto, come donne, di avere opinioni, discutere, analizzare, e non come prima, come ha già detto la compagna.

Il problema che abbiamo ancora è che abbiamo timore a partecipare o spiegare come stiamo lavorando, ma comunque stiamo facendo i lavori come compagne.

Anche noi donne stiamo partecipando in qualsiasi tipo di lavoro, nella salute: ultrasuoni, laboratorio, Pap test, colposcopia, otontologia, infermeria; e anche in tre aree, ovvero, ostetriche, osteopate e piante medicinali.

Stiamo anche lavorando nell’educazione, come formatrici e coordinatrici, promotrici di educazione.

Abbiamo speaker, tercios compas.

Partecipiamo ai collettivi di compagne, a incontri di donne, e di giovani.

Stiamo partecipando anche come autorità municipali, e lì c’è qualsiasi tipo di compito che possiamo fare come donne. Stiamo lavorando anche nelle giunte di buon governo, come responsabili locali, e vendita di prodotti fatti dalle compagne.

In diverse aree di lavori dell’autonomia, stiamo partecipando insieme ai compagni, anche se noi come giovani non sappiamo come governare, ma ci nominano per essere autorità per il popolo, perché vedono che sappiamo qualcosa sul leggere e scrivere, e lavorando stiamo apprendendo.

La maggior parte dei lavori che stiamo realizzando è di sole donne, ma va detto chiaro che fare questi lavori costa, non è facile, ma se abbiamo il valore della lotta possiamo fare questi lavori, in cui il popolo comanda e il governo obbedisce.

Ora noi uomini e donne pratichiamo ogni giorno questo modo di lottare e governare. Per noi fa già parte della nostra cultura.

E’ tutto ciò che intendevo dire, compagni e compagne.

Testo originale

Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano

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SelenaCompagna ascolta Selena. 6 maggio

Buonanotte, compagni e compagne della Sexta.

Buonanotte, fratelli e sorelle.

Buonanotte a tutti in generale.

Il tema di cui vi parlerò, ossia che leggerò, è lo stesso tema che stava leggendo la compagna, ma dice di più sui giovani come zapatisti e non zapatisti.

Anche noi come giovani zapatisti stiamo affrontando la guerra a bassa intensità che ci fa il malgoverno e i capitalisti. Ci mettono in testa idee di modernità, come i cellulari, i vestiti, le scarpe, ci mettono in testa cattive idee attraverso la televisione, come le telenovelas, le partite di calcio e anche la pubblicità, affinché noi giovani siamo distratti e non pensiamo a come organizzare la nostra lotta.

Ma noi, come giovani zapatisti, non ci siamo cascati molto, perché nonostante tutto questo, i vestiti li compriamo, ma non compriamo quelli di moda, compriamo vestiti che sono quelli che usano i poveri, che è come ci vedete vestiti. Allo stesso modo compriamo le scarpe, ma sono scarpe qualsiasi, come usano i poveri; non compriamo quel genere di scarpette con quei tacchi, perché dove viviamo noi c’è molto fango, e se noi giovani camminiamo restiamo impantanate e dobbiamo tirar fuori le scarpe con le mani; ugualmente, non compriamo gli stivali di pelle, perché allo stesso modo si possono scollare nel fango perché non sono resistenti… sì, certo, compriamo degli stivali ma sono per lavorare, resistono al fango, non compriamo le scarpe che non resistono.

E compriamo anche i cellulari ma li sappiamo usare come zapatisti, che ci servano a qualcosa. Abbiamo anche la televisione, ma la usiamo per ascoltare notizie, non per distrarci.

Insomma compriamo tutto questo ma prima dobbiamo versare sudore, lavorare la madre terra per poter comprare quel che vogliamo.

Ma in cambio i giovani che non sono zapatisti sono quelli che sono caduti maggiormente in questa trappola dei malgoverni, perché anche se non ci credete questi giovani sono poveri-poveri, abbandonano la loro famiglia, il loro villaggio, se ne vanno a stare negli Stati Uniti, a Playa del Carmen o in altri paesi, solo per poter avere un cellulare, dei pantaloni, una camicia, scarpe alla moda. Se ne vanno perché non vogliono lavorare la terra, perché sono sfaticati, ma perché diciamo che sono poveri-poveri? Perché sono poveri come noi, ma sono poveri nel pensare perché quando vanno via dai loro villaggi e poi ritornano portano altre brutte idee, e altre usanze, perché vengono con l’idea di assaltare, di rubare, consumare e seminare marihuana, e tornando a casa dicono che non vogliono più lavorare con il machete, ed è perché non sono più abituati, ed è meglio che tornino dov’erano, perché non vogliono nemmeno più bere pozol, nemmeno sanno più cosa sia il pozol, sebbene siano cresciuti con il pozol, con i fagioli. Ma dove sono andati credono che non si conosca il cibo dei poveri, credono di essere figli di ricchi, ma è menzogna, sono poveri come noi.

Ma in cambio, noi come zapatisti siamo poveri ma ricchi nel pensare, e perché? Perché sebbene ci mettiamo scarpe e vestiti, e i cellulari, non cambiamo il nostro modo di pensare e di vivere, perché a noi giovani zapatisti non importa come siamo vestiti, o come siano le cose che usiamo, l’importante è che i lavori che facciamo siano per il bene del popolo, che è ciò che vogliamo noi zapatisti; che è ciò che vuole tutto il mondo, che non ci siano capi, che non ci siano sfruttatori, che non siamo sfruttati come indigeni.

Non so se avete capito quel che ho letto.

Era tutta la mia parola e chissà che vi possa servire.

Testo originale

Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano

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Subcomandante MoisesParole del Subcomandante Insurgente Moisés. 6 maggio 2015

6 maggio 2015

Buonasera, compagni, compagne, fratelli e sorelle.

Vi parlerò di come noi usiamo a resistenza e la ribellione come armi.

Prima di iniziare su come facciamo la resistenza e la ribellione, voglio ricordarvi che noi siamo armati. Abbiamo le nostre armi, come un attrezzo tra gli altri nella lotta, così diciamo ora. Le nostre armi sono un attrezzo di lotta, come il machete, l’ascia, il martello, il piccone, la pala, la zappa, eccetera; perché ogni attrezzo ha la sua funzione, ma l’arma, se la usi, ha la funzione di uccidere.

Perciò all’inizio, quando uscimmo all’alba dell’anno 1994, venne fuori il movimento di migliaia di messicani e messicane, da tutte le parti, fino ad arrivare a milioni, a far pressioni al governo, al pelatone, come diciamo noi, al pelatone Salinas, che dovette sedersi a dialogare con noi; e anche a noi stavano dicendo che dovevamo dialogare e negoziare.

Bene, capimmo la voce del popolo del Messico. Allora si diede l’ordine di ripiegare dalla lotta violenta; scoprimmo quindi, poiché avevamo avuto i nostri morti in combattimento, che da parte delle compagne stava prendendo forma un altro modo di combattere, diciamo così. Perché allora il governo, mesi, uno o due anni dopo, tentò di comprarci, come diciamo noi, tentò di farci accettare perché dimenticassimo la lotta.

Allora molte compagne parlarono e dissero: perché e a che scopo i compagni sono morti all’alba del ’94? Così come le e i combattenti uscirono a combattere contro il nemico, allora dobbiamo vedere come nemico anche chi ci vuole comprare, ovvero non dobbiamo accettare ciò che ci vogliono dare.

Così iniziò. Ci costò molto perché non riuscivamo a tenere i contatti tra le zone perché si riempirono di militari, ma poco a poco ricostituimmo i contatti con i compagni delle varie zone per iniziare a far girare la voce di ciò che stavano dicendo le compagne, che non si doveva accettare quel che dava il malgoverno, che così come i combattenti erano usciti a combattere contro il nemico che ci sfrutta, allo stesso modo bisognava fare come basi d’appoggio e non accettarlo. Così, poco a poco, andò estendendosi in tutte le zone.

E ora possiamo intendere in vari sensi cosa siano la ribellione e la resistenza per noi, perché lo scoprimmo man mano all’atto pratico, nei fatti, cioè possiamo ormai teorizzare, come si dice. Per noi resistenza vuol dire farsi forti e duri per dare risposta a tutto, a qualsiasi attacco del nemico, del sistema; e ribelle è essere coraggiosi e coraggiose per rispondere allo stesso modo o per fare le azioni, secondo la necessità, essere coraggiose e coraggiosi per le azioni o per quel che c’è da fare.

Perciò scoprimmo che la resistenza non è che resistere al tuo nemico, non accettare quel che dà, elemosine o avanzi. Scoprimmo che la resistenza è resistere alle minacce o provocazioni del nemico, perfino, ad esempio, al chiasso degli elicotteri; basta solo il chiasso degli elicotteri per iniziare ad aver paura, perché la testa ti avvisa che ti uccideranno, e allora esci di corsa allo scoperto ed è così che ti vedono, è così che ti mitragliano. Quindi possedere resistenza è non avere paura, cioè farsi forti e non correre al sentire il chiasso. Il casino dell’elicottero fa paura in sé, ti spaventa, e non c’è che da non averne paura, restare quieto, quieta.

Scoprimmo che non è soltanto non accettare. Dobbiamo resistere anche alla nostra rabbia contro il sistema, e la cosa difficile o buona, difficile e buona al tempo stesso, è che la resistenza e la ribellione vanno organizzate. E qual è il lato difficile? E’ che siamo migliaia a usare l’arma della resistenza e siamo migliaia a poter far esplodere la rabbia, e allora come controllarla, come usarla allo stesso tempo per lottare, sono due cose difficili da fare, e perciò ho iniziato dicendo che abbiamo le nostre armi.

Ma quel che abbiamo visto è che la resistenza bisogna saperla organizzare e anzitutto avere organizzazione, naturalmente non si può avere resistenza e ribellione senza organizzazione, perciò organizzare quelle due armi di lotta ci ha aiutato molto ad avere la mente, diciamo, più aperta nel modo di vedere le cose.

Ricordo in proposito, perché si fa con il lavoro politico, ideologico, con molta discussione, e molto orientamento dei villaggi sulla resistenza e la ribellione, di un’assemblea di compagni e compagne. Ricordo che i compagni e le compagne misero sulla bilancia quella che si dice la lotta politica pacifica e la lotta violenta. Alcuni dei nostri compagni e compagne dicono: cos’è accaduto ai nostri fratelli del Guatemala? – ci chiediamo – 30 anni di lotta violenta e cos’hanno in mano ora i nostri fratelli?

A che scopo dobbiamo organizzare bene la resistenza nella lotta politica pacifica? A che scopo dobbiamo preparare la nostra resistenza militare? Quale ci conviene?

Ci rendemmo conto che quel che vogliamo è la vita, come dicevamo prima a proposito della società civile messicana, che fece quella mobilitazione del 12 gennaio ’94 perché voleva la nostra vita, che non morissimo. E allora come dobbiamo fare? Che cos’altro dobbiamo fare per fare la resistenza e la ribellione?

Ecco dove scoprimmo che bisogna resistere allo scherno della gente sul nostro governare, la nostra autonomia. Bisogna resistere alle provocazioni dell’esercito e alla polizia. Bisogna resistere ai problemi che possono causare le organizzazioni sociali. Bisogna resistere a tutte le informazioni che escono nei media, di quelle che dicono che gli zapatisti ormai sono finiti, ormai non hanno forza, in questo caso che il defunto Marcos sta negoziando sottobanco con Calderón, o che gli sta dando soldi per la sua salute il Calderón perché ormai sta morendo, va be’, in effetti è già morto, morto (inascoltabile), ma non perché se ne sia andato a (inascoltabile) a Calderón, ma per dar vita a un altro compagno.

Ebbene, tutto questo bombardamento psicologico, si può dire, è affinché si demoralizzino le nostre basi: un mucchio di cose a cui resistere.

Poi scoprimmo la resistenza in tutti noi, perché iniziammo ad avere vari lavori, responsabilità, da noi poi ci sono problemi sul piano della casa, non so, magari per voi no, e allora sorgono i problemi e la resistenza si inizia ad applicare individualmente, e allo stesso tempo la resistenza si applica collettivamente.

Quando la facciamo individualmente è quando mio papà, mia mamma o mia moglie dicono: dove sei? Che stai facendo? Con chi vai?, eccetera, no? E allora uno deve resistere al fatto che non farebbe nulla che affligga la moglie o non abbandonerebbe mai il suo lavoro, perché poi ci sono i reclami, che non c’è mais, non ci sono fagioli, non c’è la legna, e ci sono problemi con i figli. Ecco dove si individualizza la resistenza.

Quando si fa in collettivo la resistenza si fa con disciplina, cioè con accordo. Ci mettiamo d’accordo su come affrontare alcuni problemi. Vi farò un esempio recente. All’incirca… credo nel mese di febbraio, un gruppo di persone ebbe a che fare con un altro gruppo in un terreno recuperato, dove appunto vive questa gente non zapatista, cui non stiamo dicendo nulla: questo gruppo si mette in testa di diventare padrone della terra, e si mette a gestire la terra per legalizzarla.

Si vede che il signor Velasco gli ha detto che c’è bisogno di una certa quantità di persone, e allora queste persone iniziano a cercare dappertutto altri membri del villaggio, e allora questi membri iniziano ad arrivare armati. Arrivano a essere 58 persone, e a invadere il terreno dei compas, la terra recuperata. Come compagni non possiamo permetterglielo.

“Quanti sono?”
“Circa 60″.
“Basta che portiamo 600 armi e li facciamo fuori, perché ce ne hanno fatte fin troppe”.

Nel recinto dei cavalli dei compagni misero il liquido per bruciarlo, con il liquido uccisero un semenzaio, distrussero prima case dei compagni. E allora i compagni erano così ribelli e infuriati da non volere più tutto il male che gli facevano.Ecco che i compagni intervengono così:
“Ricordatevi, compas, noi siamo un collettivo”
E dicono ai compagni, i 600 riuniti:
“Ricordatevi dell’arancia. Cos’abbiamo detto che succede a un frutto beccato? Che succede?”
“Ah, sì. Sì, ma se quei bastardi magari non la vedono allo stesso modo?”
“Quei bastardi non ci imporranno i loro tempi, sta a noi”.

Che succede a un’arancia o un lime se lo becchiamo? Succede che va a male, e in questo caso che vuol dire? Che colpiremo il resto della nostra organizzazione. Dobbiamo chiedere alla base se dare risposte violente, che sappiano che entreremo in un altro modo. Come già stavamo pensando nel fatto stesso di realizzare quel che stiamo facendo ora, in questo momento, le nostre basi non permettono che si faccia così.

Quindi, ciò che si disse ai compagni più presi dalla ribellione, infuriati, incazzati, è di non andare, di far sapere attraverso i loro rappresentanti soltanto che non vanno perché se ci vanno sarà per uccidere, e quindi è meglio che non vadano: lo dicano al loro responsabile e che si sappia, e per chi non recepisce è un problema suo. E non vadano nemmeno quelli che hanno molta paura. Solo quelli che capiscono devono andare, non bisogna andare a provocare, bensì a lavorare la terra, ovvero lavorare il campo, la casa e quel che si deve costruire. All’alba, i 600 se ne andarono, lasciarono da parte le armi. Si coordinarono su chi dovesse controllare.

Così si controllano entrambe le cose, la rabbia come anche la paura. Si cerca di spegare, si discute, si fa capire, perché è la verità, che la gran maggioranza dei compagni non lo permetterà.

Questa resistenza su cui abbiamo lavorato per 20 anni, all’inizio ci costò molto perché sono situazioni che affrontiamo e dobbiamo saper risolvere. Vi farò un esempio: in che modo ci costa cambiarlo? Quando era al governo Salinas, elargivano progetti, elargivano progetti effettivi, cioè davano credito: i compagni ricevevano, ma immaginatevi che fossero miliziani, caporali, sergenti, cioè zapatisti. Quel che elargiva quel bastardo se ne andava per metà i munizioni, armi ed equipaggiamenti, e l’altra metà nel comprare una vacca, cioè si recuperò una vacca da quel che dava il governo, perciò il governo smise di dare, diede solo ai fratelli affiliati ai partiti.

I compagni avevano questa idea, perciò lo sto dicendo, quando venne fuori questo iniziammo a pianificare questo fatto di non ricevere. Ci costò molto, ma i compagni lo capirono. Dissero i compagni, bene, lo faremo, faremo questa resistenza. Perciò il negativo che ne risulta è che quando ci riuniamo dicono ‘io non sono potuto venire perché io sono in resistenza, non ho i soldi per muovermi’, questo è il pretesto, non è che per nascondersi, è un pretesto.

Ma non appena afferrammo sul serio questa cosa di non accettare niente dal sistema, scoprimmo di dover lavorare duro la madre terra, come vi ho già raccontato negli altri giorni che siamo stati qua. Fu allora che i compagni iniziarono ad avere i loro prodotti e a rendersi conto che val meglio lavorare la terra, e così ci scordammo di quel che dà il governo.

Perciò nella resistenza e nella ribellione iniziammo a renderci conto della sicurezza dell’organizzazione nella quale stiamo. Si iniziò a scoprire un mucchio di cose, per esempio ciò che vi dico sul fatto che non parliamo con il governo, neppure le nostre basi, nemmeno in caso di omicidi. Scoprimmo che con la resistenza e la ribellione possiamo governarci, e con la resistenza e la ribellione possiamo sviluppare le nostre proprie iniziative.

La nostra resistenza nel fare le cose, che sia sul terreno economico, che sia sul terreno ideologico, politico, qualsiasi organizzi la zona. Alcuni hanno più possibilità, altri hanno meno possibilità, perciò sperimentiamo. Ad esempio, i compagni di Los Altos nel corso della loro vita comprano il mais, seminano molto poco, la maggior parte la devono comprare; e da altre zone allora portano il mais; invece che comprare nel magazzino, nel negozio del governo, e che il denaro dei compagni de Los Altos vada al governo, è meglio che vada a un altro caracol. Alcune volte ci è riuscito bene, altre volte ci è riuscito male, ma è un male prodotto da noi stessi, perché il fatto è che si trasporta a tonnellate, e quindi i compagni incaricati di mettere insieme il mais non lo controllano e i compagni basi d’appoggio, così da stupidi, mettono in mezzo il (inascoltabile) del mais, e nemmeno gli altri compagni lo controllano, e quindi passa, va. E quando arriva a destinazione dove si consumerà, lì viene controllato bene, e da lì viene fuori che stanno vendendo mais (inascoltabile) tra compagni, ai compagni insomma.

Allora lo correggiamo, perché il problema non è quello. Se siamo in resistenza, è organizzarla bene. Lo scambio, come si dice, o il baratto, non ha funzionato per noi, perché dagli Altos non possiamo esportare tonnellate di pere o mele, non si vendono nella selva queste cose che producono molto i compagni, la verdura. No, stiamo vedendo come fare, stiamo discutendo la cosa, e siamo quasi a metà strada su come organizzarci.

Vi farò una serie di esempi. Nel ’98, cioè quando smantellarono i nostri municipi autonomi, quando c’era ancora il Croquetas, il governatore Albores, a Tierra y Libertad, nel Caracol I, a La Realidad, entrò la polizia giudiziaria, distrusse la casa del municipio autonomo e allora i compagni, soprattutto miliziani, chiedevano di andargliele a dare a questi della polizia giudiziaria, che in realtà erano soldati camuffati da polizia giudiziaria, eppure gli si disse di no. Interpellammo le basi d’appoggio, perché gli arrabbiati erano i compagni miliziani, sul perché e il percome ci stessero distruggendo la nostra casa dell’autonomia.

Interpelliamo quindi i villaggi, e i villaggi dicono: che la distruggano, l’autonomia la teniamo qui e qui, la casa non è casa. Quindi ricevemmo sostegno e a maggior ragione si diede l’ordine ai miliziani di non fare nulla, e noi pagammo il costo della rabbia, infatti i nostri miliziani dicevano ‘fottuti comandanti’. Da queste cose iniziammo a scoprire che a volte la rabbia della base non ci è d’aiuto rispetto a quel che si deve fare, e a volte ne fa le spese il comitato clandestino, a volte il regionale, o chi ha la responsabilità.

Un altro esempio è di quando l’esercito ci distrusse il nostro primo Aguascalientes. E’ lo stesso: noi insorgenti e miliziani eravamo pronti, perché sapevamo che se ti tolgono una parte ti senti ormai sconfitto, e il fatto è che pensammo in maniera molto militare. Perché militarmente se perdi una battaglia sei fottuto e ti viene voglia di recuperare, ma devi fare il doppio per recuperare. E allora di nuovo fu questo a orientarci.
“Cosa vogliamo, la morte o la vita?”
“La vita”.
“E allora che entrino questi bastardi, non li uccideremo ma nemmeno ci faremo uccidere”.
“Ma come lo faremo, se sono già tese le imboscate?”
“Bisogna mandare la comunicazione”.

Così dovemmo fare ed evitammo molte morti, dalla nostra parte e anche dalla parte del nemico. In una delle imboscate in effetti si diede la (inascoltabile), e fu lì che cadde, poi lo (inascoltabile), il generale che cadde a Momón, il generale Monterola, che a quel tempo credo fosse colonnello.

Così avvenne anche nel Caracol de la Garrucha quando vennero smantellati i municipi autonomi, sul municipio autonomo Ricardo Flores Magón. Allo stesso modo, si comandò di dire di non rispondere alla violenza voluta dal nemico e dal governo. E così abbiamo superato tante provocazioni cercate da quelli che si lasciano manipolare, in questo caso gli affiliati ai partiti.

Questo è accaduto ai compagni che hanno ricevuto molti colpi e tentativi di provocazione: sono i compagni dei caracol di Morelia, Oventik, Garrucha e Roberto Barrios. Dove i militari hanno agito in maniera molto crudele, è a Roberto Barrios, Garrucha, Morelia, Oventik.

Ad esempio, a San Marcos Avilés, dove ci sono le nostre basi, ci hanno molestato molte volte. Ciò che fanno i paramilitari è obbligarti a cadere nella provocazione, e si vede che sono ben addestrati da parte dell’esercito e del governo, perché ti infastidiscono; stai coltivando caffè, fagioli, mais, e loro ti strappano le piante che semini, abbattono il bananeto, si portano via le ananas che coltivi, cioè ti infastidiscono. Finché un giorno le nostre basi d’appoggio dissero basta, e va bene che questa ribellione e questa resistenza sono organizzate in collettivo, allora i compagni e compagne basi di San Marcos Avilés interpellano la Giunta di Buon Governo dicendo: veniamo a dire che non ce la facciamo più, non ci importa di morire, li trascineremo con noi.

A quel punto la Giunta di Buon Governo e il Comitato Clandestino chiamano i compagni e gli spiegano: noi non diremo di no, in primo luogo siamo un’organizzazione; in secondo luogo, se tra voi resteranno dei sopravvissuti non potranno stare nel vosto villaggio, vi dovrete nascondere perché non vi lasceranno vivi e vive quei bastardi, perché ciò che vogliono è far fuori tutte le basi. Ciò che bisogna fare è produrre uno scritto, una registrazione e noi faremo in modo di farli arrivare al fottuto governo, che sappia che moriranno quelli che stanno lì e anche noi, e che accada quel che accada.

Perciò quel che cercammo fu un modo diverso. I compagni e le compagne produssero una registrazione, e trovammo il modo di farla arrivare al governo, e fino a ora questo sistema è vigente. Allora il governo, lo sappiamo, io credo che diede dei soldi agli aderenti ai partiti di quelle parti, ed essi si calmarono, perché così li calma il governo. In tutto ciò che fanno il metodo del governo è dargli un progetto o un po’ di soldi da dividere, il governo ha sempre fatto così. Chissà cosa succederà ora che il governo non avrà i soldi.

Solo per menzionare questo, come resistere, perché ci abbiamo provato, perché ci rendiamo conto dell’assurdità di uccidere un altro indigeno. Questo ci dà rabbia, se io lo dicessi tale e quale a come ne parliamo nella nostra assemblea sarebbe orribile, perché iniziamo a rivolgere ogni tipo di insulto al governo. Perché la rabbia che ci dà sta nel fatto che sono così bastardi a manipolarli; e poi perché, scusate la parola, perché ci sono gli scemi, le sceme che lasciano che la loro stessa razza venga manipolata.

Per esempio, quelli della ORCAO. Una parte della ORCAO si sta ormai rendendo conto che quel che stanno facendo è del tutto sbagliato, ma c’è un’altra parte che se ne frega di tutti, per i soldi, e continua con le minacce. Un mese fa i compagni di Morelia hanno resistito a un mucchio di azioni fatte da quelli della ORCAO. La CIOAC? Non se ne parli, c’è questo fatto del compagno Galeano e c’è quel che è accaduto a Morelia, sono la stessa roba della CIOAC-Histórica.

Perciò, siccome vogliamo la vita e grazie alla resistenza che applichiamo, non abbiamo più pensato di ucciderci tra noi a causa delle manipolazioni del governo.

Abbiamo anche resistito ad alcune visite dal Messico, di gente che ci viene a dire, a noi e ai nostri villaggi, perché non proseguiamo nella lotta armata, perché siamo dei riformisti, o altri che dicono che siamo degli estremisti, e allora a chi credere? No, bisogna resistere a questi discorsi, perché le cose si dicono, ma la nostra risposta è che un conto è ciò che si dice e un conto ciò che si fa, perché parlare è molto facile, si può anche gridare e tutto il resto, ma quando ci sei dentro la cosa è diversa, cambia.

Grazie alla resistenza, compagni, compagne, sorelle e fratelli, non diciamo che non siano necessarie le armi, ma abbiamo visto che, come si è detto, la disobbedienza, non è che una disobbedienza organizzata, ed è la verità, qui il malgoverno non entra più grazie ai compagni, alle compagne, e allora vediamo che possiamo migliorare, rendere più organizzata la resistenza e la ribellione nel dimostrare che non chiediamo permesso a nessuno.

Quel che ci anima è metterci d’accordo su ciò che dobbiamo fare, e in più la generazione che è ora dei nostri, cioè quella dei ventenni, i giovani e le giovani, dice: noi ci siamo, ma insegnateci come si fa a governarci. E ora le zone, con l’organizzazione della resistenza e della ribellione stanno formando la nuova generazione di giovani perché si possa realmente realizzare quanto abbiamo detto, la parola che è per i secoli dei secoli e per sempre, sembra un discorso religioso, ma in realtà è ribelle; perché è per sempre, e c’è bisogno che si preparino le generazioni affinché non tornino il nipote di Absalón Castellanos Domínguez, o di Javier Solórzano, o di qualcuno dei grandi proprietari terrieri insomma.

Abbiamo da fare un gran lavoro per migliorare in questo. Non vuol dire, compagni e compagne, fratelli e sorelle, non vuol dire che stiamo rinunciando alle nostre armi, ma che è questa comprensione politica, ideologica, ribelle, che ci fa vedere come bisogna realmente convertire in arma di lotta questa resistenza. I compagni delle Giunte di Buon Governo ci stanno dicendo che c’è bisogno di un’altra istanza, e noi chiedevamo ai compagni del CCRI: perché dite questo, compagni, compagne? E loro: ‘il fatto è che abbiamo compreso il motivo per cui dovette nascere la Giunta di Buon Governo’.

Ci parlarono, ci dissero, ci spiegarono. Quando i MAREZ, i municipi autonomi ribelli zapatisti, vennero sciolti, alcuni avevano progetti, altri no, nulla, e allora quando si formò la Giunta di Buon Governo iniziò a controllare i municipi perché i progetti andassero avanti ugualmente per tutti. Ora come Giunta di Buon Governo si stanno nuovamente rendendo conto che non è uguale per tutti. Alcuni hanno più progetti perché sono più a portata di mano, lungo la strada, e altri stanno molto lontani, e quindi no, ma noi come Giunta di Buon Governo non possiamo che porre le questioni all’assemblea e alla condivisione delle zone: lì si deve discutere se è il caso di dare vita ad altre istanze, perché stiamo organizzando questa resistenza e ribellione contro la tormenta che viene. E ora i compagni dicono: è giunta l’ora per far questo che ci dite, oppure è l’ora di fare un’altra cosa, perché dobbiamo iniziare ad agire nella resistenza e ribellione, e bisogna organizzarsi. Ma questo terreno di lotta, di resistenza e ribellione è ciò che ci ha aiutato, ci ha orientato sul da farsi. E se per noi, che non chiederemo permesso a nessuno, è ormai chiusa la storia del non averci riconosciuto la Legge sui Diritti e Cultura Indigena, andremo avanti; dato che non la vogliono rispettare, ecco gli strumenti.

Testo originale

Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano

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Caracol de Resistencia Hacia un Nuevo Amanecer.

Junta de Buen Gobierno El Camino del Futuro La Garrucha Chiapas México, 11 maggio dell’anno 2015

DENUNCIA PUBBLICA

All’opinione pubblica:

Ai media alternativi, autonomi o come si chiamino:

Alle/Agli aderenti alla Sexta nazionale e internazionale:

Alle organizzazioni oneste per i diritti umani:

Fratelli e sorelle del Messico e del mondo: Denunciamo energicamente quello che stanno facendoci i gruppi paramilitari della comunità Rosario composti da 21 persone paramilitari e da 28 paramilitari del barrio Chikinival appartenente all’ejido Pojkol municipio di Chilón, Chiapas.

A Rosario vivono i nostri compagni basi di appoggio, perché è terra recuperata, appartenente al municipio autonomo di San Manuel del caracol III La Garrucha.

A Rosario vivono 21 paramilitari che sono appoggiati dai 28 paramilitari del barrio Chikinival e che stanno invadendo la nostra terra recuperata.

È lo stesso problema che si era presentato ad agosto del 2014, quando ci hanno ammazzato un toro riproduttore, hanno distrutto le case e la nostra cooperativa collettiva, hanno rubato i nostri beni ed hanno sparso erbicidi su un ettaro di pascolo, hanno sparato ed hanno scritto a fuoco sul terreno: “territorio Pojkol”

I FATTI.

Alle 9:35 della mattina del 10 maggio del presente anno, 28 persone del barrio Chikinival dell’ejido Pojkol, Municipio ufficiale di Chilón, che si trova a 40 minuti di macchina dal villaggio di Rosario, sono arrivate a bordo di otto motociclette nel villaggio recuperato di ROSARIO dove vivono i compas basi di appoggio, perché ci vogliono sottrarre con la forza la nostra terra.

Questi paramilitari di Rosario accompagnati dai paramilitari del barrio Chikinival dell’ejido Pojkol, hanno cominciato a fare delle misurazioni sui luoghi dove già vivono i compagni basi di appoggio, mentre questi ultimi erano fuori a lavorare.

Alle 15:15 pm, un gruppo di loro se n’è andato, un altro gruppo è rimasto sul posto e 5 minuti dopo tre di questi si sono diretti verso la casa di un compagno base di appoggio, mentre la maggioranza restava a 30 metri dalla casa del compagno.  Nella casa del compagno base di appoggio si trovava solo sua figlia di tredici anni che stava pulendo casa, il padre non c’era e la madre si trovava sul retro della casa, di questi aggressori paramilitari, 2 sono del barrio Chikinival dell’ejido Pojkol, e 1 è del villaggio stesso di Rosario, ed il suo nome è ANDRES LOPEZ VAZQUEZ. Questi 2 di Chikinival sono entrati in casa, mentre Andrés, paramilitare di Rosario, è rimasto di guardia sulla porta e quando la figlia del compa base di appoggio è uscita correndo di casa, Andrés le ha sparato 4 colpi con una pistola calibro 22 mentre stava sopraggiungendo il padre che, per difendere la figlia, ha scagliato un sasso colpendo alla testa lo sparatore. Fortunatamente gli spari non hanno raggiungo la bambina. Poi il ferito è stato portato via dai suoi compagni che si trovavano a 30 metri dalla casa.

Ieri sera, 11 maggio, l’aggressore ferito è tornato alla casa del compagno base di appoggio, che ha una moglie e 3 figli, pretendendo di avere 7 mila pesos per curare la ferita.

Ovviamente il compagno non pagherà nulla, perché non è stato lui a provocare l’accaduto.

Alle 18:50 pm dello stesso 10 maggio, nel villaggio Nuevo Paraíso dal municipio autonomo Francisco Villa, sono arrivate a bordo di 8 motociclette 16 persone, tre loro erano armati di 2 pistole calibro 22 e di un’arma a canna lunga calibro 22. Queste persone del barrio Chikinival dell’ejido Pojkol, hanno lanciato per strada una lettera in cui accusano i compagni basi di appoggio di provocare questi problemi.

In realtà noi non siamo causa di alcun problema, perché stiamo cercando alternative per vie pacifiche per risolvere questa questione, ma loro non vogliono capire anche se abbiamo perfino consegnsato un ettaro di terra ad ognuna delle 21 persone che stanno facendo queste provocazioni, e ciò nonostante ci minacciano. Da febbraio fino ad oggi 11 maggio, ci minacciano ogni giorni quelli di Chikinibal dell’ejido Pojkol, per far sì che quelli di Rosario chiediamo a quelli di Pjkol di pattugliare armati, sempre armati tutti i giorni.

Per questo smentiamo tutto quello di cui ci accusano. È evidente chi sono i provocatori.

Abbiamo interpellato le autorità dell’ejido Pojkol ma ci hanno detto che non possono fare niente, perché quel gruppo è sconosciuto all’ejido e sono dei malviventi, non rispettano nulla e non obbediscono all’ejido. Di questo è stato avvertito anche l’ente statale di Manuel Velasco Coello che però non fa nulla, perché questi sono i suoi paramilitari.

Compagni e compagne, fratelli e sorelle di tutto il mondo, queste sono le strategie con le quali i tre livelli del malgoverno federale, statale e municipale ci provocano, usando la gente che non capisce la nostra giusta causa affinché così cadiamo nelle sue trappole, ma siamo ben consapevoli di quello che sta facendo questo malgoverno che organizza, prepara e finanzia organizzazioni e persone che si lasciano comprare.

Noi diciamo a quelli senza cervello là in alto: non smetteremo mai di resistere né cadremo nelle loro trappole, noi continueremo a resistere lavorando le nostre terre e costruendo la nostra autonomia.

Riterremo responsabile diretto il governo federale, statale, municipale ed i paramilitari del barrio Chikinival dell’ejido Pojko e di Rosario, di qualsiasi cosa possa succedere.

Sorelle e fratelli, continueremo ad informarvi sugli sviluppi degli eventi e vi chiediamo di vigilare su quanto potrebbe accadere.

DINSTINTAMENTE Giunta di Buon Governo

         Jacobo Silvano Hernández                                                  Lucio Ruiz Pérez

Testo originale

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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Parole del Subcomandante Insurgente Moisés

7 maggio 2015

Compagni, compagne, fratelli, sorelle.

Quello che abbiamo visto ed ascoltato ci preoccupa, e pensiamo una serie di cose. Si tratta di come vediamo il capitalismo, se parlassi con le compagne, i compagni basi di appoggio, conosco il modo, la forma per farlo. I compagni, le compagne vengono avvisati in anticipo dell’argomento che tratteremo, così ognuno porta il suo pensiero, come adesso che abbiamo anticipato pubblicamente l’argomento da trattare.

Non sappiamo se tutte le persone sanno leggere e scrivere, altrimenti esiste il dizionario dove andare a cercare le parole, come, la parola seminario. Ma, a volte ci sono problemi con il dizionario perché vai, cerchi la parola seminario, e poi ti rimanda ad un’altra parola e così ti perdi, e questo è un problema.

Un’altra cosa che raccomandiamo come zapatisti quando si va a discutere dell’argomento, è che ci sono due modi di considerarlo. Uno è la critica del capitalismo, che sono dei cabrones, come diciamo qua. Altro è come consideriamo il male che vediamo.

Cioè, non si tratta solo di saper criticare il male che fa il capitalismo, ma di cosa dobbiamo fare, quale è il cambiamento che dobbiamo fare. Questo è quello che ci preoccupa, per questo abbiamo dovuto cambiare, perché pensiamo che questa riflessione si debba moltiplicare. L’abbiamo detto all’inizio del seminario, i poveri sono milioni, mentre sono pochi quelli che ci tengono così; allora, perché succede questo?

E’ necessario che dove ci si incontri, ci si riunisce, si parli del male, della ferocia, della sofferenza, della tristezza, dell’amarezza e di cosa si è fatto rispetto a queste parole, sofferenza, tristezza, amarezze se non c’è stata soluzione. Pensiamo che questo ci possa portare a che cosa fare, o da lì si arrivi poco a poco a che cosa fare, come fare, la scommessa è arrivarci.

Ma dobbiamo aiutarci a capirlo, a conoscere.

Ed un’altra cosa, sta bene che pensiamo ai mali del capitalismo, ma anche noi, donne e uomini che lottiamo, dobbiamo sapere anche come lottare tutti insieme. Ve lo dico perché abbiamo bisogno uno dell’altro, cioè quelli che qui ci hanno spiegato in teoria di come stanno le cose, ci hanno detto anche cifre e numeri per aiutarci a capire, ma ci sono altre cose che si devono imparare, si deve fare.

Dobbiamo sentirci come un solo popolo. Per esempio, guardate, io sono qui, ma non mi piace essere qui così, non mi piace stare qui a questo tavolo, ma i compagni, le compagne dicono che è necessario che io trasmetta quello che stiamo facendo, e quello che sto dicendo non è il mio pensiero. Allora, come dicono i compagni, le compagne: compagni e compagne che capite, perché avete studiato, avete avuto l’opportunità di capire, di conoscere, non potete distruggere il capitalismo solamente con tutta la teoria, c’è bisogno d’altro.

Noi possiamo essere bravi, ottimi strateghi, tattici eccellenti, ma a cosa serve se non abbiamo il popolo con noi. Si deve aiutare il nostro popolo a conoscere, a sapere come stanno le cose ed allora ci accompagnerà nella lotta. Cioè abbiamo bisogno gli uni degli altri, cioè, nessuno è più in gamba di un altro; tutti siamo in gamba ma bisogna lavorarci su. Bisogna discutere, bisogna pensarci.

E’ questo che ci preoccupa, perché quello che vorremmo è che davvero aiutassimo i nostri popoli, facessimo nascere una buona discussione, un buon modo di pensare e vedere, cioè un buon modo di fare analisi. Forse ci metteremo meno tempo ad analizzare, oppure no, ma la situazione in cui viviamo ci obbliga a farlo.

Ci resta poco tempo per capire come affrontare il capitalismo. Quindi, avanti tutti noi che pensiamo così del capitalismo, aiutiamoci a capire cosa fare contro il sistema capitalista. (…) Bisogna lavorare insieme per trovare il modo comune di fare [sintesi della traduttrice].

Volevamo che lo sapeste, perché noi abbiamo già percorso questo cammino in questi 20 anni, pubblicamente; abbiamo fatto molti incontri per discutere e chiarire vari temi ed abbiamo visto che ne escono mille idee ma dalle mille idee non ne esce una che dica cosa fare, come fare, perché non si sanno vedere i vantaggi e gli svantaggi di ogni idea; è questo che manca; e manca l’unità, perché tutti crediamo che la propria idea, la propria proposta siano le migliori. Quindi, ci manca di capire questo, che è la cosa principale per farci arrivare a cosa è meglio fare di tutte le nostre idee.

In questo caso il tema è che sta arrivando il peggio del capitalismo, non rispetterà nessuno, nelle campagne e nelle città, allora, che cosa facciamo? È qui che noi diciamo che quelli che hanno studiato sui libri, hanno studiato la storia, hanno le idee più chiare sull’argomento, che vi aiutino a capire, perché quello che manca è che lo capiamo bene, e molto bene altrimenti, come diciamo da queste parti, finisce come i compas che vanno alla milpa e trovano il topo che dorme e questo non si accorge che lo ammazzano perché stava dormendo. È quello che succederà a noi, che stiamo qui a dirci tante cose solo tra di noi fino allo sfinimento, poi stanchi torniamo a casa ed il capitalismo ci coglie nel sonno.

Allora noi diciamo che non importa se siamo stanchi, ma sapremo che arriverà la tormenta, stanchi da tanto cercare e lavorare, i suoi colpi ci sveglieranno ma sapremo che cosa fare, ma solo quelli che si saranno organizzati sapranno cosa fare.

Allora lasciamo da parte le nostre differenze, perché molte volte si arriva perfino a male parole per la divergenza di idee, ma tutti noi che siamo qua, non siamo capitalisti, non siamo noi quelli che sfruttano il popolo, allora prima di tutto pensiamo a quelli che ci sfruttano, e dopo aver sconfitto il capitalismo, vedremo se ci resterà ancora la voglia di regolare le nostre divergenze, o per allora forse ci saremo capiti.

Abbiamo voluto dirvi tutto questo perché vi sia chiaro, tornate nei vostri luoghi e diffondete questi semi, ma in questo modo, con queste idee di cui abbiamo parlato direttamente con voi in questo seminario. E si saprà chi lavorerà bene, si saprà chi si addormenterà, e chi parlerà bene o male, del bene e del male si saprà tutto. Rispetto al nemico, al capitalismo, pensiamo che dobbiamo aiutarci a capire, a trovare i modi per organizzarci, perché vogliamo tanti semenzai da tutte le parti.

Questo è quello che vogliamo dirvi, compagni, compagne, fratelli e sorelle.

Testo originale

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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Parole del Subcomandante Insurgente Moisés (5 maggio 2015)

Buonasera a tutti, compagne, compagni, fratelli e sorelle.

Visto quanto stiamo spiegando da ieri e dall’altro ieri, stavamo discutendo con la commissione di compagni e compagne del CCRI, sul fatto che ci sembra che vada verso quel che vogliamo fare, e sulla domanda in merito, perché tutti noi che eravamo qua, a meno che non stessimo sognando o dormendo, abbiamo in testa ciò che si è detto, o che hanno stabilito e discusso i compagni, i fratelli. Ci hanno detto molte cose su cosa sia l’idra: cosa dobbiamo fare contro di essa?

Organizzarci. Se rispondiamo questo, organizzarci, vogliamo dire che il nostro cervello ci sta già dicendo cosa bisogna fare in primo luogo, poi in secondo, poi in terzo, quarto e così via. Perciò c’è l’idea: se sta nel cervello è in forma d’idea. Ora, se muovi la lingua è in forma di parola. Manca l’azione, ossia organizzarsi. E quando sei in fase organizzativa, attento, perché non verrà fuori tale e quale a com’era nell’idea, nella parola. A quel punto inizierai a incontrare molti intoppi, molte difficoltà.

Perché altrimenti arriveremo al 2100, almeno quelli che ci arriveranno, e saremo ancora al punto di dire idee, parole, pensieri, e intanto ci sarà ancora il capitalismo: allora dove eravamo noi che abbiamo parlato tanto male del capitalismo? Che avremo combinato se continueranno a stare così le cose?

Ebbene, questa è una riflessione che stavamo facendo con i compagni del CCRI, della Commissione Sesta dell’EZLN. Continueremo con il tema di ieri, o su com’è l’economia nella lotta, nella resistenza delle e degli zapatisti, ma in pratica, non in teoria. Dalla pratica traiamo quel poco di teoria che abbiamo condiviso al momento.

Per esempio, perché da noi va così, sul fatto che non riceviamo nulla dal governo, eaddirittura nemmeno ci parliamo col governo, nessuna base d’appoggio lo fa. A costo di essere ammazzati, non parliamo col malgoverno, perciò: come facciamo a far sapere qualcosa al malgoverno? Da una parte ci sono le denunce pubbliche della Giunta di Buon Governo perché si sappia dei malgoverni. Altrimenti, dalle radio comunitarie zapatiste, perché come stavamo dicendo ieri, il governo ha le sue spie, le sue orecchie, qualcuno che registra i messaggi delle radio comunitarie zapatiste, ed ecco come lo otteniamo. Poi c’è un altro modo, ma di questo parleremo a suo tempo.

Raramente maneggiamo soldi. Ad esempio, nel mobilitarci, perché bisogna pagare la benzina in pesos, non sono accettati kili di mais o fagioli. Su questo terreno lottiamo, combattiamo. Tutto ciò che vi spiegherò in forma di esempi, si fa con il lavoro politico, ideologico, con molta analisi, molta discussione di ciò che è importante, necessario secondo ciò che vogliamo fare.

Per esempio, l’educazione. L’educazione della scuola zapatista, vi racconterò come ce la inventiamo. Un compagno che è formatore nell’educazione della zona, è stato sei mesi nel caracol a preparare i promotori e le promotrici di educazione dei villaggi, dove arrivano centinaia di alunni, alunni-maestri in formazione.

A un certo punto questo compagno formatore nell’educazione se ne andò a trovare la sua famiglia. Arrivando a casa di suo papà disse: “Sono tornato, papà”. E il papà di questo compagno formatore dice: “Hai portato il mais? Hai portato i fagioli? Perché qui non c’è nulla per te”. E il compagno formatore dice:

“Come?”

“Come? Se non stai lavorando!”

“Come non sto lavorando, papà, se sto lavorando là con i compagni?”

“E che ti hanno dato i tuoi compagni, o i compagni? Se va anche a beneficio nostro, perché non pensano che anche qua devi poter avere qualcosa per vivere?”

“Ma no, è che siamo in lotta”, dice il compagno.

“Sì, ma dobbiamo anche avere di che sopravvivere per lottare”.

“Sì”, dice il compagno formatore.

“Sai cosa, figlio”, dice il padre, “figlio, devi tornarci. Parla con le autorità autonome perché sarà sempre così, senza organizzazione”.

Il compagno dovette tornare. Parla con la Giunta di Buon Governo, e la Giunta di Buon Governo si organizza con i compagni che stanno dentro alla commissione, che noi chiamiamo la commissione di vigilanza e la commissione di informazione, cioè compagni e compagne del CCRI. Si organizzarono e cominciarono a discutere del problema, perché ormai era un problema.

E la Giunta e il CCRI dicono che di sicuro questa è una questione che si protrarrà nei secoli dei secoli, perciò bisogna metterci mano. Allora inizia la discussione, ora sì, sul da farsi.

“No, è che dobbiamo tirar fuori quel poco che abbiamo”.

“Sì, ma quanto durerà quel poco che abbiamo?”

“No, ecco, appena per un anno”.

Allora iniziano a pensarci su, ed ecco quel che ne viene fuori: per esempio, la zona lavora collettivamente, e così il villaggio, cioè il villaggio del promotore o del formatore di educazione, che partecipa con le basi d’appoggio nel lavoro collettivo; dunque la proposta della giunta è che i membri basi d’appoggio del villaggio del formatore non vadano a fare il lavoro collettivo, ma che lavorino nel campo di mais e fagioli, nel campo di caffè, nell’allevamento della famiglia del compagno formatore. Allora avrà mais, avrà fagioli, avrà caffè, avrà degli animali, ma sono i compagni di base che provvederanno a questo lavoro, in modo che possa avere un po’ di paga. Perciò non gli si dà un aiuto economico, non gli si dà un salario ai compagni e compagne formatori di educazione, e lo stesso a quelli che preparano i compagni e compagne promotori di salute.

Altri compagni e compagne di altre zone vivono situazioni differenti, ad esempio nella zona Selva Fronteriza o la zona Selva Tzeltal la situazione non è come quella dei compagni de Los Altos, è differente. Ci sono zone che lavorano collettivamente nell’allevamento, perciò quando i compagni cercano di organizzarsi nei loro primi passi, si rendono conto immediatamente.

Per esempio, questo sto dicendo, nel realizzare il lavoro collettivo di zona ci sono comunità che si trovano in punti molto lontani, e quindi i compagni spendono molto per recarsi al punto di lavoro collettivo. È costoso, perciò quel che fanno i compagni è distribuire i lavori, ma in collettivo. Vale a dire: immaginiamo che l’interno di questa costruzione sia una zona, ma che ci siano alcuni lontanissimi, alcuni a 10 ore di macchina, e quindi si giunge a un accordo, magari trattandosi di differenti lavori collettivi, di qua la panetteria, lì nell’altro angolo la calzoleria, lì la fattoria e qui un altro lavoro collettivo della zona. In questo caso tra tutti i villaggi e le basi vanno solo i più vicini ai luoghi di lavoro, per evitare ulteriori spese, e poi si riuniranno solo i rappresentanti per informare su come vanno le cose.

Il succo è che non ci sia nessuno che non lavori collettivamente. E prima che ne dubitiate o che un giorno chiediate “che ne è di quelli che non vogliono fare il lavoro collettivo?” diciamo: non li obblighiamo. Non li obblighiamo, semplicemente gli diciamo “va bene compagno, compagna, che tu non voglia, ma come zapatista quando ci sarà da raccogliere per la cooperazione dovrai tirar fuori dal tuo borsello.

Nei fatti e nella pratica i compagni stanno vedendo che è così che sono potuti sopravvivere e come hanno fatto il proprio movimento i compagni. E ci sono alcuni che non volevano fare i lavori collettivi che si integrano.

Quindi è uguale anche per le zone che lavorano collettivamente nell’allevamento, tutti i lavori che si fanno sono per il movimento di lotta o per il movimento dell’autonomia. Qui quel che si è scoperto nella pratica è che non si può fare quel che facevamo prima, che ci siamo sbagliati, equivocati, quando il lavoro collettivo era il 100%. Vedemmo che non stava funzionando perché c’erano lamentele, molti problemi.

Lamentele dovute al non avere sale, al non avere sapone. Lamentele nel senso che non si scandiscono per tempo le semine di ciò che si raccoglie. Lamentele nel senso che ci sono compagni che hanno molti figli, mentre la divisione prevede uguali quantità per i compagni che hanno pochi figli. Tutte queste cose ci hanno fatto riflettere sul fatto che sia meglio che i villaggi, le regioni, i municipi autonomi e la zona si mettano d’accordo su come vogliono lavorare.

La sostanza è che ci sia tempo per la famiglia e tempo per i lavori collettivi. Così lavorano i compagni. Ad esempio nel campo dell’allevamento. Quando parlo di allevamento non indico una sola forma. Ci sono per esempio collettivi di allevamento di vacche riproduttrici; altri nei quali si tratta semplicemente di comprare i torelli, tenerli alcuni mesi e poi venderli, tirarli fuori e tornare a comprarne, come fossero generi alimentari. Ci sono zone che lavorano anche nella calzoleria, i compagni fabbricano da sé le scarpe. C’è una forte critica e un richiamo all’attenzione che si sono dati i compagni, parlando di allevamenti: le pelli del bestiame che viene mangiato o che muore, vanno a male, siano di cavalli, di asini, di muli, vanno a male perché non c’è chi sappia scuoiare. I compagni hanno tentato di cercare qualcuno, ma nessuno glielo vuole insegnare, perché quando hanno cercato chi glielo insegnasse non hanno trovato che lo stesso che compra il cuoio. Be’, chissà se da queste parti c’è qualcuno in grado di insegnarcelo.

Un’altra forma di economia zapatista è quella delle cosiddette, e vai a sapere perché i compagni hanno messo questo nome, quella delle banche autonome. Le cosiddette BANPAZ, BANAMAZ; ora risulta che si dicono BAC, che vuol dire Banca Autonoma Comunitaria. In gioco ci sono due idee. Una riguarda le necessità, il sapone, il sale, lo zucchero e cose così. I soldi che ricavano i compagni dalla vendita dei fagioli, del mais, del maiale o di quel che c’è, oltre che nei generi alimentari, vanno alla cooperativa collettiva e quel denaro, quel po’ di guadagno va al movimento dell’autonomia o della lotta, perché non vada agli affiliati ai partiti.

Così fanno anche nel BAC o nelle banche autonome, perché chi contraeva prestiti con altre persone, fosse zapatista o no, si ritrovava a pagare fino al 15% di interesse mensile, cioè se ne approfittavano. Perciò i compagni hanno creato questo fondo, questa Banca autonoma, per la salute e per il commercio. Hanno avuto problemi i compagni, non crediate che vada tutto bene, hanno avuto problemi. Su questi problemi miglioreranno, ma ci sono per così dire anche cose buone, e sono decisione dei villaggi,  uomini e donne.

Per esempio, se per delle cure io prendo in prestito 10.000 pesos dalla Banca autonoma, se sarò riuscito a curare mio figlio o mia moglie pagherò il 2% di interesse; se invece non sarò riuscito a curarlo, e mio figlio o mia moglie saranno morti, ebbene anche il prestito si sarà perso, non dovrò restituirlo. È un accordo che hanno stabilito nella zona: così come si è persa la vita della famiglia, allo stesso modo se ne va anche il denaro.

Dove trovano i fondi per le banche autonome? Ci sono vari sistemi messi in atto dai compagni della zona. Uno è stabilire un accordo che non gravi troppo sui compagni, le basi, come un accordo che preveda un peso al mese, per ogni base d’appoggio. Ovvero questo mese di maggio devo depositare un peso, e poi a giugno un altro peso, vuol dire che sono 12 pesos che apporto io come base d’appoggio all’anno, ed essendo migliaia allora ce ne saranno 12000,15000, e così via. Ecco quanto va al fondo, ovvero alla banca autonoma.

Un’altra cosa riguarda le donazioni che danno i nostri fratelli e sorelle, compagni e compagne solidali. Una parte di esse va nel fondo, nella banca autonoma, e altre parti se ne vanno nei lavori collettivi della zona. Un’altra maniera di ottenere risorse è che le zone si mettano d’accordo. Al tempo di vendere i raccolti, caffè o mais che sia, si mettono d’accordo, e allora ad esempio ogni base d’appoggio deve apportare 80 chili di mais, 50 chili di fagioli, poi si vende a tonnellate e il ricavato entra in un fondo. Poi decidono se quel fondo andrà alla banca autonoma o sarà investito in altro.

Un’altra maniera di agire per zone è che i compagni facciano un lavoro collettivo nel campo, nella coltivazione di caffè, e quando si raccoglie si ottiene un’altra entrata.

Bene, c’è una cosa che vorremmo condividere qui, perché, se un giorno vi dovesse capitare durante la lotta, sappiate che funziona così. Ieri stavamo discutendo di ONG, e dicevamo che i progetti sono diminuiti, ma questo non avviene perché non ci siano ONG o perché ormai le ONG non gestiscano progetti, che invece proseguono. È che c’è qualcosa che non gli è piaciuto. Vari anni fa una ONG arrivò dai compagni della Giunta di Buon Governo e disse loro di un progetto di salute, e i compagni lo accettarono, un progetto da 400.000 pesos. Poi torna un altro membro della ONG, a spiegare come si farà programma del progetto di salute, e allora la Giunta di Buon Governo gli chiede dov’è il foglio del progetto e con l’ammontare totale del progetto.

“Ah, non lo avete ancora?”, dice.

“No, perciò lo stiamo chiedendo”.

“Ah, allora con molto piacere”.

Lo tirano fuori e lo consegnano, e il progetto dice 1.400.000 pesos. Da lì abbiamo visto che quella ONG ci stava dando 400.000 pesos e le stavano rimanendo 1 milione di pesos. Ovvio, era per pagare la luce, ecco cosa dissero dopo, che era per pagare l’affitto o chissà che altro. Da allora noi abbiamo iniziato a fare esperienza di quel che realmente significa, non so come dirvi, ma insomma ONG sta per  Organizzazioni Non Governative, no?

A partire da questo episodio venne comunicato ai compagni delle giunte delle zone di fare attenzione. Perciò adesso ogni ONG che presenti i suoi progetti è richiesta di mostrare il bilancio totale. “Sì, ve lo porto”, ma in anni non sono potuti tornare, si vede che non trovano la macchina.

Ecco quel che accadde. Alcuni sono rimasti, e stanno accompagnando i compagni delle Giunte di Buon Governo. Ma non vuol dire che le ONG non stiano cercando progetti. Sì, vanno in giro, a volte anche dicendo che stanno lavorando con i municipi autonomi ribelli zapatisti, ma va bene, lo vedranno.

Un modo di risparmiare usato dai compagni, ad esempio, riguarda la salute, perché i compagni delle giunte si mettono d’accordo con alcuni medici che aiutano. I medici ci dicono che ci sono due interventi chirurgici, il minore e il maggiore, e che il minore costa 20 o 25.000 pesos, e il maggiore molto di più. Quel che fanno i medici che aiutano i compagni è andare negli ospedali autonomi e realizzare l’intervento chirurgico.

È davvero un grande appoggio perché tagliano ed estraggono quel che devono estrarre e basta, i compagni non pagano. I compagni si incaricano soltanto dell’antibiotico, perché non ci sia infezione, ed è roba da 1000 o 2000 pesos. Cioè è un bel risparmio.

Un altro sistema è che corra la voce di ciò di cui vi ho già raccontato. Corre nelle comunità, e infatti ieri stavamo parlando del fatto che gli affiliati dei partiti vanno e non trovano un dottore, non trovano un chirurgo o una chirurga, e correndo la voce di come si organizzano i compagni, anche tutti gli affiliati ai partiti vanno all’ospedale in cui arrivano i medici solidali. Perciò quel che fanno i compagni dell’assemblea della zona è mettersi d’accordo sul fatto che devono incassare qualcosa, ma non troppo.

Ad esempio, se medico dice che un intervento costa 6000 pesos, il paziente affiliato a un partito dovrà pagare 3000 pesos. E se dice che un altro intervento costa 8000, l’affiliato a un partito deve pagarne 4000. Ma anche così, l’affiliato al partito sta risparmiando perché altrove costa dai 20 ai 25.000 pesos.

Sono tutte maniere di cercare di avere entrate. Ci sono zone che possiedono lavori collettivi di artigianato. Ci sono compagne nelle zone che lavorano in collettivo nell’allevamento o nella vendita di cibo, che sono temporanei perché non funzionano tutto il tempo, ma ogni volta che ci sono le nostre feste funziona il collettivo della mensa.

In questi lavori collettivi delle zone, i compagni autorità dei Municipi Autonomi Ribelli Zapatisti e delle Giunte di Buon Governo sono quelli che si incaricano di promuovere e di animare, e cercano sostegno e orientamento nei compagni del Comitato Clandestino.

Ora c’è la partecipazione dei compagni basi d’appoggio, che fanno proposte anche in assemblea su quale lavoro collettivo si può fare. Questi lavori collettivi di cui parliamo ci sono serviti molto per capire cosa significa veramente vigilare sul governo, su quelli che amministrano, e che sono governo, cioè la Giunta di Buon Governo e i MAREZ. Ed essendo lavoro e sudore del popolo i compagni esigono che le loro autorità debbano rendere conto, quante sono state le entrate totali, quante le spese totali, in cosa si è speso e quanto resta. Perciò non lasciano in pace le proprie autorità, che devono rendere conto e immaginatevi se viene fuori un inghippo, perché ora invece di andare in carcere si va al lavoro collettivo, perché bisogna pagare con il lavoro collettivo quel che si ruba o si spreca.

Nel lavoro collettivo che si fa, perché stiamo parlando di centinaia di uomini che ci lavorano, escono fuori problemini che poi si convertono in problemoni. Per esempio, magari io so che ci sarà un lavoro di preparazione del campo, e quindi voglio un machete (incomprensibile), e dunque il tale compagno porta un machetone. Qual è il problema? Il problema è che nello stesso tempo che ci metto io a fare un lavoro con il mio machete che ha un raggio d’azione limitato, lui che ha un machete grande ha un raggio d’azione più grande, cioè io faccio il furbo per lavorare meno. Quando succede questo, l’autorità, cioè l’incaricato del lavoro collettivo, stabilisce che a ciascuno tocchino 2 metri, e così resta fregato chi porta un attrezzo grande, piccolo, perché a chi tocca prima tocca.

Perché sono queste le cose che tolgono l’entusiasmo, demoralizzano, causano problemi, e cose tipo “il dirigente perché lo permette, sarà perché è suo cognato, suo suocero”, no? Si cerca la soluzione su come fare. Ah, sì, c’è chi fuma la sigaretta, e chi lima molto il proprio machete, per passare il tempo, cioè non c’è bisogno di fare i furbi. Che non gli succeda altrimenti non ci sarà da ridere.

E quindi il senso è che non ci lasciamo soli. Siamo molto testardi e cocciuti. Non li abbandoniamo. Cerchiamo la via d’uscita, consigliando, dando chiarimenti e spiegazioni, e così via.

I lavori collettivi di cui stiamo parlando ci hanno aiutato molto, secondo il sistema che il mese si divide in 10 giorni di lavoro collettivo e 20 giorni per il lavoro familiare. Ciascuno si mette d’accordo. Un altro dice no, cinque giorni per il lavoro collettivo e 25 per quello familiare. Ciascuno si mette d’accordo, che si tratti di villaggio ovvero comunità, o di regione, oppure di municipi autonomi o cdi zona. Questi sono i quattro livelli di assemblee, possiamo dir così, cioè di come si mettono d’accordo.

Ciò di cui stiamo parlando, compagni, è che ciò che ci dà la forza e il fatto di essere organizzati. E siamo organizzati in tutto e sotto un unico modo di vedere, perché teniamo presenti tutti noi, perché siamo noi a dover risolvere le cose. Non avremo bisogno di pensare a nessun altro, né al governo né a nessun altro. Perciò, compagni e compagne, dobbiamo risolvere questo problema, dobbiamo fare questo lavoro. Si deve pensare, si deve discutere, si deve analizzare, si deve spronare, si deve consultare le basi. I compagni hanno veramente approfondito molto questo e trovato il meccanismo da utilizzare, perché è laborioso.

Rendetevi conto che noi magari siamo qua e arriva una proposta della giunta di buon governo, e noi autorità che siamo qua comprendiamo la grande importanza e necessità che ha, ma le nostre basi non lo sanno, perciò dobbiamo tornare. Quindi la cosa ci porta via 10,15 giorni, e poi c’è da ritornare un’altra volta in assemblea e vedere il risultato. Ovvero, è laborioso il processo che porta a una decisione, ma ciò che permette che otteniamo quel che otteniamo, è il fatto che siamo organizzati.

L’organizzazione è ciò che ci unisce. Perciò è così importante dire organizzarsi. Nel momento stesso in cui siamo qui inizia tutto questo e iniziano i che faremo e come lo faremo, e tutte le montagne di problemi, vedrete, ora ve lo stiamo giusto dicendo, affinché i rappresentanti abbiano il fegato, perché lo vedranno, perché può essere che sarai tu il primo ad abbandonare. E quando dico abbandonare è per un mucchio di cose, perché ruberai quel che c’è, o perché sei buono solo a gridare e non lavori, cioè esigi soltanto, gridi ma non fai. O al contrario, tu ti sbatti e vedi che la tua gente non ti segue, e allora “cosa mi sto sbattendo a fare?”.

Lo vedrete, lo vedrete, perciò ve lo stiamo dicendo, ma è così, non c’è un’altra possibilità, anche volendo cercarla non c’è. C’è l’idea che dicono della disobbedienza, cioè che bisogna disobbedire al sistema, ma come? I compagni basi d’appoggio lo stanno facendo, stanno disobbedendo, e il governo ormai non ha un ruolo, né sul piano politico, né ideologico, né economico, eppure andiamo avanti più o meno allo stesso modo, perché noi non paghiamo i milioni di imposte, che sono milioni di pesos, ma nemmeno riceviamo i milioni che dice di dare, ed ecco perché diciamo che siamo messi più o meno uguale. Ma non ha un ruolo sul piano culturale, né sociale.

Ma vedo che avete ormai gli occhi che sembrano occhietti da armadillo. Domani continueremo e (inascoltabile).

Testo originale

Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano

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Parole del Subcomandante Insurgente Moisés (4 maggio 2015)

Buon pomeriggio compagni, compagne.

Quello di cui vi parlerò, non lo leggerò, ma vi parlerò, riguarda come era e come è l’economia nelle comunità, quindi del capitalismo. Vi parlerò di 30 anni fa e di 20 anni fa e di qualche anno fa. Ve ne parlerò in tre parti: come vivevano le comunità 30 anni fa; come vivono ora quelle che non sono organizzate come zapatisti e poi come viviamo noi zapatista adesso.

Non vuol dire che non sappiamo niente dei secoli passati, lo sappiamo. Quello che vogliamo è marcare questi 30 anni, dal 1983, quando il gruppo di compagni arriva qui, da allora sono passati 30 anni.

Quando ancora non c’era l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, per il sistema capitalista noi indigeni del Chiapas semplicemente non esistevamo, non eravamo persone, nemmeno esseri umani. Per loro non servivamo neppure come spazzatura. E così per gli altri fratelli indigeni nel resto del nostro paese. E così immaginiamo fosse anche in tutti i paesi dove c’erano indigeni.

Sulle montagne, nelle valli, dove loro vivevano, venivavano tenuti come nelle riserve. Non sapevano se ci fossero indigeni, come la chiamano, nella Biosfera dei Montes Azules. Quindi nessuno teneva il conto del numero di bambini che nascevano. Cioè, il capitalismo non sapeva niente, non teneva il conto perché per lui non esistevamo.

Dunque, come abbiamo fatto a sopravvivere? Grazie alla madre terra. La madre terra ci ha dato la vita, anche senza governo, governatori o presidenti che si ricordino di noi. Eravamo dimenticati. Nei nostri villaggi, sulle terre migliori, con qualche uomo e qualche donna, c’erano i proprietari terrieri, i finqueros, i latifondisti.

Loro sì che avevano migliaia di ettari di terre buone, buona acqua, buoni fiume. Per questo ci hanno cacciato sulle montagne, perché per loro le montagne non sono utili, non danno niente, e lì hanno gettato noi..

A cosa gli servono quelle migliaia e migliaia di ettari di buone terre? È per avere migliaia e migliaia di capi di bestiame, mucche. Come hanno potuto restare lì per così tanti anni? Perché avevano buoni pistoleros che noi chiamiamo guardias blancas che non ci lasciavano passare sui loro terreni, sulla terra che dicevano che era loro.

Quindi, come possiamo parlare di economia nelle comunità se eravamo lì dimenticati. L’unica cosa che facevano era sfruttare nelle loro proprietà il lavoro dei nostri nonni e bisnonni. Allora, abbiamo dovuto inventare, abbiamo dovuto immaginare come vivere, come sopravvivere nella nostra madre terra, resistendo a tutte le malvagità del proprietario terriero o del latifondista.

Non c’erano strade, non si sapeva nemmeno di nome cosa fossero cliniche od ospedali, tanto meno le scuole. Non c’erano campagne di salute, non c’erano programmi di aiuti, non c’erano borse di studio, non c’era niente, eravamo dimenticati.

Parlo di tutti i fratelli ed i compagni con i quali ora siamo organizzati, non parlo per me solo, dell’economia capitalista di 20 anni nelle comunità, come iniziarono ad interessarsi alle comunità, non tanto alle comunità stesse, ma a dove vivevano, dove viviamo, e dove molti  fratelli e compagni sono morti.

Ma non gli  bastava avere le migliori terre. Ora si accorgono che anche nelle montagne c’è un’altra merce molto redditizia per loro, come si è detto molte volte qui, che sono le risorse naturali. Allora si organizzano per tornare a cacciarci anche da lì. Cioè fanno depredazioni, sgomberi, perché vogliono quella ricchezza.

E quella ricchezza sta lì perché come noi coi nostri trisavoli l’abbiamo presevata, ma i capitalisti se la vogliono prendere ed in pochi anni distruggeranno quello che era lì da milioni di anni nella nostra madre terra.

Com’è potuo avvenire? Lo sapete, vi ricordo solo quale fu il trucco, la trappola del sistema capitalista, quando modificarono l’articolo 27 [della Costituzione – n.d.t.] affinché si potessero privatizzare gli ejidos, ed ora vogliono che la madre terra si possa vendere o affittare.

Vi devo chiedere di fare un eesercizio di immaginazione perché stiamo parlando di 20 anni fa, cioè quando siamo venuti fuori pubblicamente.

Allora il governo si accorse di noi e, mascherato in varie maniere, il malgoverno dice che sta soddisfando le nostre richeste e comincia a costruire strade, ma non è per risolvere le nostre domande, ma per andare incontro all’articolo 27 che privatizza gli ejidos. Allora, si accorge che ci siamo ribellati e ne approfitta dicendo che sta compiendo le richieste, costruisce strade, distribuisce progetti di sostegno; ed i progetti sono roba di un milione o due milioni di pesos, e sono cento, duecento, trecento progetti, da lì tirano fuori quel miserabile denaro che neanche arriva nelle comunità, ma resta tutto ai malgoverni; ma quello è ciò che annunciano, quello che ci dicono.

Se vi raccontassi tutto quello che dicono i compas ed i fratelli! Raccontano che ci sono perfino progetti che si chiamano “pececito“, ma vai a sapere che cosa diavolo vuol dire pececito. (…)

Ed iniziano ad esserci alcune scuole, qualche clinica. Gli alunni non sanno nemmeno leggere e gli danno la borsa di studio. E riguardo alle cliniche dicono che danno l’assicurazione popolare affinché con quella credenziale sei ben assistito, ma nel momento che hai bisogno di assistenza, vai alla clinica e ti dicono che non c’è il medico o la dottoressa, e ci sono le medicine, ma sono scadute. Ma siccome non sappiamo leggere, il dottore, dottoressa, ti dà la medicina scaduta, o ti dicono di prendere qualcosa che però non cura la tua malattia. La barzelletta è che ti danno una medicina che non si sa nemmeno se serve per la tua malattia.

Quindi hanno distribuito molti progetti e tutte quelle cose di cui vi ho parlato, e così sono trascorsi gli anni. Una delle cose che hanno fatto con tutti quei progetti del malgoverno, è stato distribuire un po’ di denaro ma esercitare il controllo; è proprio per controllare che il malgoverno fa questo, per infiltrarsi tra gli zapatisti. Si chiama credo campagna di contrainsurgencia o guerra di bassa intensità, non so come si chiami esattamente, ma questo è il controllo per farti smettere di lottare, per comprarti. Inoltre se vuoi andare con gli zapatisti, ti dicono: guarda il mio esercito, è molto più preparato, vai solo verso la morte. Dunque, questa è tutta una campagna controllarli.

Vi sto raccontando questo perché ora, in quelle comunità che hanno permesso di privatizzare i loro ejidos, perché c’è chi ha accettato di farlo, possiamo dire che vivono come nelle città, dove ci sono vagabondi, gente per strada che non ha casa, drogati e cose così. Uguale è ormai nelle comunità che hanno venduto la loro terra, hanno ricevuto i loro bei documenti di proprietà, sono diventati racheros, piccoli proprietari, allora hanno venduto quello che già era loro e sono rimasti per strada, non hanno più dove seminare il mais e i fagioli.

Altri, quelli che hanno accettato i progetti di vario tipo, stanno pagando gli interessi al capitalismo. Nel caracol della Realidad c’è una comunità che si chiama Agua Perla, dove scorre il fiume Jataté. In quel villaggio hanno accettato i progetti, ora è arrivato un gruppo di, come li chiamiamo, caxlanes, meticci, che gli dicono: sapete una cosa, signori, qui c’è quello che dovete pagare; quella terra non è più vostra, e se non volete problemi, andate ad Escárcega – cioè in Campeche, credo che  Escárcega sia in Campeche – o andatevene in Oaxaca – dove il governo del Chiapas e quello di Oaxaca si stanno combattendo per i confini de Las Chimalapas -.

E’ lì che stanno dicendo di andare a quelle comunità legate ai partiti, perchè una volta erano i priisti a fregarti, ed ora ti fregano tutti i partiti.

Un’altra comunità a Roberto Barrios, si chiama Chulum Juárez, ha accettato progetti. Hanno offerto una strada e la comunità ha accettato. Sono arrivati ed hanno fatto una bella strada asfaltata.  Dopo la strada hanno ricevuto i tetti di lamiera. Poi siccome c’era la strada hanno portato la sabbia ed altre cose, e quando è stato tutto sistemato hanno detto alla comunità: sapete una cosa, signori? Ve ne dovete andare perché in questa montagna c’è l’uranio che il governo vuole estrarre, se volete vivere andate in Oaxaca, se volete, o alla peggio dovrete andarvene.

Questo è quello che avevano preparato 20 anni fa, e che ora stanno applicando. Più ancora adesso che hanno cambiato le leggi, il sistema capitalista c’è riuscito a fare quello che diceva, è quello che dicono le carte. È quello che diciamo noi: le carte dicono che c’è l’autorizzazione, ma devi scontrarti con la gente, devi vedere se davvero la gente lo permette, e devono vedersela con noi, gli zapatisti.

Allora, abbiamo studiato la nostra storia passata e ci siamo chiesti, se il capitalismo cambia il suo modo di dominare per avere più di quello che già ha, perché noi, sfruttati e sfruttate, non facciamo la stessa cosa?

Così lo abbiamo chiesto ai fratelli e sorelle dei partiti, e anche qui facciamo delle distinzioni. Noi chiamiamo fratelli, sorelle, quelli che stanno coi partiti, quelli che non ci fanno del male. Non chiamiamo fratelli e sorelle i fottuti paramilitari, quelli sono figli di puttana.

Quando siamo venuti fuori pubblcamente, come dice la compagna Vilma, noi zapatisti abbiamo detto che bisognava recuperare la madre terra. È come se ci avessero tolto nostra madre e dovevamo andare a cercarla e recuperarla (…).

E’ successo  qualcosa  del genere, ci avevano tolto nostra mamma e cominciammo ad organizzarci perché è la prima cosa da fare. Per prima cosa bisogna organizzarsi, ed è quello che abbiamo fatto. Ci siamo organizzati donne e uomini per andare a recuperare le terre, non c’è altro modo di dirlo.

Perché dalla madre terra viene tutto, allora dovevamo recuperare la madre terra e ci siamo organizzati per lavorarla. Il malgoverno e i padroni, i proprietari terrieri, dicono che per colpa degli zapatisti quelle terre, quelle migliaia di ettari di terra sono improduttive. E noi zapatiste e zapatisti, diciamo che è vero, non sono produttive per i proprietari terrieri o per il capitalismo, sono produttive per noi, perché lì non ci sono più le migliaia di capi di bestiame; lì ora ci sono migliaia e migliaia di pannocchie di mais, come questa.

La madre terra ha ricominciato a dare i suoi frutti, piccoli, piccoli, perché era stata così maltrattata che riusciva a dare solo piccoli frutti. Siccome i nostri nonni sapevano come lavorarla, a poco a poco ci siamo  ritrovati con la nostra madre terra.

Lavoriamo collettivamente le terre recuperate. Quando diciamo collettivamente, c’è bisogno di molta pratica per fare queste cose. Per esempio, all’inizio lavoravamo la terra tutti insieme, cioè, nessuno faceva il suo pezzo di milpa, ma lo facevamo tutti insieme. Poi succedeva che cadeva molta pioggia, o molta siccità, o arrivava una tempesta, e quindi il raccolto andava perso. Allora i compagni hanno capito che così non andava bene, era meglio organizzarci e ci siamo accordati sui giorni per lavorare nella milpa collettiva e sui giorni per lavorare nella nostra milpa.

Ma soprattutto sono le compagne quelle che portano l’idea, perché sono loro che seminano i prodotti per il cibo, come le cipolle ed altre vedure che le compagne usano in cucina, ma siccome si fa collettivamente, le compagne mandavano le figlie o i figli a raccoglierle nella milpa, ma se qualcuno raccoglieva tutto, poi non restava niente, perchè è di tutti, e bisognava trovare un accordo.

Allora si comincia a vedere un problema, ed è così che i compas scoprono molte cose. Poi altri vogliono elote, e siccome la milpa è collettiva, se uno li raccoglie tutti, poi non ne restano più, e questo non va, quindi bisogna trovare un accordo. Quindi i compas si mettono d’accordo, tanti giorni facciamo il lavoro collettivo, e tanti giorni lavoriamoper noi.

Il lavoro collettivo si fa nel villaggio, a livello locale, in comunità; si fa a livello regionale, una regione comprende 40, 50 o 60 villaggi; il lavoro collettivo si fa anche a livello municipale, un municipio raggruppa 3, 4 o 5 regioni, questo è il municipio autonomo ribelle zapatista. E quando diciamo lavoro collettivo di zona, intendiamo in tutti i municipi che sono nella zona della Realidad, o di Morelia o della Garrucha, delle cinque zone.

Quando parliamo di zone, sono centinaia di villaggi, quando si parla di municipi sono decine di villaggi. Il lavoro collettivo si fa sulla madre terra.

Vi ricordo solo, come aveva detto il defunto Sup Marcos, che a quei tempi ci dicevano che non eravamo anticapitalisti perché bevevamo coca cola, non so se qualcuno si ricorda. Ci idealizzano e basta. No, compagni e compagne, fratelli e sorelle. Il fatto è che noi siamo organizzati.

Vi farò un esempio più chiaro. Ricordo che una compagna della città si era arrabbiata moltissimo perché aveva visto un compa zapatista che stava sgridando la sua compagna, perché era ubriaco. Allora abbiamo detto alla compagna: tranquilla, compagna, perché quella compagna lo denuncerà all’autorità domani, e quel compa sarà punito. Il fatto è che si pensa che se diciamo una cosa, è solo quella. No, questo vuol dire idealizzare. Ma la compagna si rivolge alle autorità e poi c’è la sanzione.

La cosa importante è essere organizzati. Perché prima, quante ce n’erano di donne picchiate, non c’era sindaco, non c’era consigliere comunale, non c’era presidente municipale che risolvesse il problema delle compagne, perché era ancora peggio il sindaco, il consigliere comunale o il presidente municipale.

Bene, stavamo parlando del lavoro collettivo. Si fanno altri lavori collettivi, per esempio la vendita di questi prodotti, non è perché ci piace, perché per noi, zapatiste e zapatisti, per distruggere il capitalismo dobbiamo abolirla. Ed una maniera di abolirla è prederci i mezzi di produzione e gestirci da noi la produzione. Allora se vendiamo delle cose, per esempio qui c’è questo, la terra, ma quello che c’è lì?, i fiori?, è prodotto del capitalismo?, quegli occhiali?, e tutto quello che avete addosso?

Così lo intendiamo, perché è una maniera di graffiare il capitalismo. Così intaccheremo i suoi profitti, è la verità. Non è una bugia, lo capiamo. Poi una cosa è dire, ed altra fare. Per esempio, ricordo qua molte ONG che dicevano non permetteremo la costruzione del Chedrahui, non compreremo mai lì dentro. Non passarono nemmeno due settimane. Quindi, una cosa è dire, e un’altra cosa fare.

Vi dirò delle tante cose che abbiamo scoperto con il lavoro collettivo, che non riguardano solo la madre terra, ma scoprimmo la resistenza.

Incominciò la resistenza dei nostri compagni e compagne dei nostri villaggi, voglio dirvi come è nata l’idea dalla resistenza. Ai tempi della sollevazione, il malgoverno cominciò ad usare, ad utilizzare, non so come si dice, le spie per sapere come si muovevano gli zapatisti. I compagni e le compagne scopriono spie tra i maestri e le maestre, e li cacciarono.

Allora è sorto un problema, perché non c’erano più maestri nelle comunità.Bene, abbiamo dovuto inventare, immaginare, creare. Allora, come dicevo, il governo faceva vedere che distribuiva molti progetti, come per farci invidia, ma poco a poco abbiamo capito che dava quello che dava perché non voleva che ci fosse un governo zapatista, dato e fatto da noi stessi. Ah, bene, abbiamo detto.

Poi le compagne cominciano a dire no, perché nel ’94 sono morti compagni insurgentes ribelli. Quelle compagne sono quelle che hanno cominciato a dire: se noi ci siamo armati ed i nostri compagni sono morti, non dobbiamo accettare quello che avanza, le elemosine, le briciole del malgoverno che vuole comprare quelli che non sono zapatisti perchè non diventino zapatisti.

Quest’idea ha iniziato a diffondersi e non accettare niente dal malgoverno è come andare a combattere – così è cominciata. Poi abbiamo scoperto che non è niente male non accettare niente dal malgoverno. Ve lo dico perchè è stato proprio mentre il governo distribuiva progetti e aiuti a quelli dei partiti, mentre noi dicevamo che dovevamo coltivare la madre terra. E quando abbiamo cominciato a dire così, i compagni e le compagne dicevano: sì,  perché quando c’erano i nostri bisnonni e trisavoli, per caso gli davano fagioli, riso, olio, latte? No, al contrario, tutta la forza lavoro dei nostri bisnonni era per il padrone. E allora perché ora il governo ti dà il tuo chilo di farina, miscela, fagioli? Inoltre è pure transgenico, come si dice, chimico che neanche il latte è latte vero.

Allora abbiamo detto che dovevamo lavorare la madre terra, allora abbiamo dato forza a quella resistenza e quelli che l’hanno capito, i compas, presto hanno avuto fagioli, mais, caffè, maiali, tacchini, animali. E quando quelli che stanno con i partiti ricevono le lastre di lamiera, il cemento, la sabbia, quelle cose, hanno bisogno poi della carriola, ma siccome non lavorano la terra non hanno soldi per comprarla. Mentre i compas possono comperare gli attrezzi perchè lavorano la terra.

Allora i compas hanno visto che funzionava, noi indigeni siamo pratici. Quindi abbiamo detto, facciamo tutti così, e così i compas hanno coltivato la terra ancora con più entusiasmo.

Allora il governo comincia a dire che sta distribuendo molti progetti e che tutte quelle case con i tetti di lamiera sono grazie ai suoi progetti. Ma non è vero. Sono case costruite dai compas. Così il governo si è accorto che doveva controllare chi costruiva la sua casa autonomamente, e quando dà le case a quelli che stanno con i partiti, questi devono dimostrare che sono case di un progetto governativo, altrimenti sono accusati di essere zapatisti.

A noi zapatisti dispiace vedere come vivono i fratelli che stanno con i partiti, perché molti dei loro ragazzi e ragazze li abbiamo conosciuti e non sono più in comunità, sono andati via ad inseguire il sogno americano, alla ricerca del biglietto verde, del dollaro. Molti non sono più tornati, altri sono ormai un pugno di cenere, altri che sono tornati sono drogati, fumano marijuana. E quelli che non fumano marijuana hanno cambiato cultura, dicono che non vogliono bere pozol, che non lo conoscono più, e questo è ancora peggio.

E quando un figlio o una figlia ritorna, trovano i genitori che non fanno niente perché il governo li ha abituati a non fare niente ma solo a ricevere aiuti. Cioè, i fratelli dei partiti sono diventati inutili, non lavorano più la terra. La parola che li definisce, credo sia, sottomessi.

Per lo meno all’epoca dello schiavismo eri cosciente che era il tuo padrone a schiavizzarti, ma in questo caso no, perché ti vizia, ti abitua, ti programma nel tuo chip, cioè nella tua testa, nel tuo cervello. Allora non capisci più e quindi non riesci a vedere la vera faccia di Peña Nieto, né di Velasco, né di altri che ti inganneranno.

Perché lo fanno? Perché è uno dei modi per ottenere quello che vogliono, cioè la madre terra per sfruttarne le risorse. Non è il solo modo per strapparci con la forza la madre terra, quando non riescono così, allora mandano l’esercito e la polizia ad ucciderci, ma arriva il giorno in cui il popolo non lo permette più. Uno si abitua a ricevere aiuti dal governo e così non lavora più la terra, ed è ancora peggio se ti danno i documenti di proprietà della terra, perché finisci col venderla.

Questo è quello che succede ai fratelli che stanno con i partiti. Questo è quello che vuole il capitalismo, quello che c’è nella madre terra.

Vi faccio un esempio di come è triste la situazione delle comunità affiliate ai partiti, e se per caso qui ci sono fratelli e sorelle di queste comunità, lo potranno confermare. C’è una comunità nella zona della Realidad, si chiama Miguel Hidalgo, vicina al villaggio di Nuevo Momón. Lì quei fratelli erano, fino a pochi mesi fa, della CIOAC-Histórica ed erano d’accordo con quanto fatto al nostro compagno maestro Galeano. Settimane dopo quello che fecero del compa maestro Galeano, quei fratelli, ora ex cioaquistas, non vogliono più essere della CIOAC per divergenze politiche di partito, ideologiche riguardo ai progetti, ed hanno dovuto farsi da parte per non essere ammazzati. Sono quindi scappati e si sono rifugiati su una terra recuperata nel ’94 quando sono stati cacciati violentemente dalla loro comunità.

Non c’è rispetto, i leader delle organizzazioni sociali sono responsabili di tutto questo perché si arrendono, si vendono, e così uomini e donne di quell’organizzazione è necessario che si organizzino.

Per questo diciamo che è un disastro. Ora quelle comunità dei partiti, circa un mese e mezzo fa, si sono viste tagliare gli aiuti del governo, e nelle comunità davano borse di studio anche senza saper leggere né scrivere, per ogni alunno davano mille o milleduecento pesos. I genitori che magari avevano quattro figli a scuola, si prendevano i loro cinquemila pesos, così si erano abituati.

Adesso, per quattro figli a scuola quelle famiglie prendono 800 peso per tutti e quattro, e sono fregati. Già, siete stati fregati, fratelli. Cosa possiamo dirvi? Tra gli indigeni la comunicazione è veloce, come con un cellulare; se succede qualcosa a qualcuno, la comunità viene subito a saperlo; se qualcuno è malato, la comunità ne viene subito a conoscenza. Come per telefono.

Con i compas dei villaggi, con le basi, facciamo riunioni dove spieghiamo che la situazione peggiorerà e non solo per noi indigeni, ma per tutto il Messico, campagne e città, e non solo in Messico. Noi zapatisti abbiamo parenti che non sono zapatisti, ci sono alcuni che sono brave persone; ce ne sono altri che non vogliono avere niente a che vedere con noi. Noi parliamo con le basi che capiscono la situazione e la voce si diffonde. (…).

Questa è la parte che abbiamo letto ieri, domandandoci che cosa possono fare quei fratelli. Quello che diciamo loro è: organizzatevi, fratelli.

Che cosa fare nell’organizzazione? Pensateci.

Ma come facciamo? Pensate a come vivete.

Riguardo alla vita di quelli dei partiti, vediamo che i bambini, le bambine, non hanno nessuna colpa per come stanno le cose. Nonostante quello che fa il malgoverno, i bambini sono lo stesso abbandonati. Cosa ne sarà di loro? Si sveglieranno quando si renderanno conto di quello che succede, ma per questo pensiamo che devono succedere  molte cose. Diventeranno ladruncoli, banditi, ruberanno mais, fagioli, di tutto, peggio se saranno drogati. Ci sono comunità dove i giovani fumano solo marijuana, davvero, non mento. Per questo dico che lì i bambini, le bambine, sono come galline abbandonate.

Questo che vi raccontiamo è come viviamo noi. Voi sapete come vivete voi dove vivete. L’unica cosa che diciamo è che si deve passare a mettere in pratica le nostre idee, altrimenti è solo parlare, e parlare. (…).

Compagne, compagni, fratelli, sorelle, non vi stiamo dicendo di sollevarvi in armi, né di copiare paro paro il nostro esempio. No. Ognuno veda cosa può fare sul  suo terreno, ma ora è necessario passare alla pratica.

Quello che vogliamo costruire è per i secoli , per sempre, allora, come facciamo? Se gli attivisti, vecchi zapatisti non preparano i loro figli, cioè la nuova generazione, quelli che adesso hanno 19 o 20 anni, da qui a 50, 60 anni, ritornerà il nipoe del generale Absalón Castellanos Domínguez, l’ex generale, l’ex governatore del Chiapas, ritornerà e comanderà un’altra volta nelle comunità se non si prepareranno le nuove generazioni. E così si deve preparare la generazione successiva, affinché quello che diciamo duri secoli e secoli e per sempre.

Una delle basi della nostra resistenza economica, è la madre terra. Non abbiamo le case che dà il malgoverno, ma abbiamo sistemi di salute, abbiamo scuole, abbiamo i governi che obbediscono al popolo.

Poi, una cosa è l’economia, e un’altra cosa è come governiamo. Mi è molto difficile spiegarlo, perchè i compas non lo fanno in un unico modo.

Per esempio: alcuni collettivi di compas si organizzano collettivamente per vendere mais, fagioli, bestiame, diciamo che fanno i coyote per competere col coyote. Per esempio, se io sono zapatista ed il compratore del caffè, del bestiame, del mais, è compa, il caffè dovrebbe essere intorno ai 23 pesos al kilo, allora io zapatista indago per sapere quanto costa dove compera il coyote, se là si vende a 40 pesos e qui il coyote lo compera a 23, allora ci sta guadagnando. Io faccio il conto di quanto spendo per il trasporto e di quanto posso aumentarlo al chilo, se lui paga 23 pesos al kilo io ne devo pagare 24. Quindi arrivano a comprare i compas zapatisti e perfino quelli dei partiti, così il coyote non ha più clienti. Quando il coyote sente che io pago 24 pesos e lui 23, torna a competere con me e paga 24 pesos. Allora lo zapatista rifà i conti e può pagare 25 pesos al kilo. E’ concorrenza tipo da coyote a coyote, mi capite? Questa è la lotta.

Quelli dei partiti dicono: gli zapatisti pagano di più. Questa è la vita nelle comunità. Per questo vi dicevo che non esiste un unico modo di fare le cose, si cercano atlri modi. E questo ha a che vedere con l’economia nell’essere autorità autonoma.

Per esempio, nell’ambito dell’autonomia tutto andava bene nel settore della salute, dell’educazione,  dell’agroecología, o delle tre aree, come dicono i compas, hueseras, levatrici e piante medicinali; ma quando sono diminuiti i progetti o le donazioni dei compagni e compagne solidali e delle ONG, allora la costruzione dell’autonomia ne ha risentito in questi ambiti.

Allora abbiamo pensato che avevamo sbagliato un’altra volta, perché avevamo solo speso e nient’altro, perché non era risultato del nostro sudore, come dicono i compas. Perché quando è il risultato del proprio sudore, te ne prendi ben cura, non lo butti via. Abbiamo deciso che così non va bene e che dovevamo correggerlo.

Nel momento in cui abbiamo cercato di correggere questo aspetto, sono cominciati i problemi. Molte delle cose che facciamo, come ci stiamo organizzando, non credete siano frutto della nostra bella immaginazione, perché siamo dei superman. No, compagni, compagne, fratelli, sorelle. Continuiamo ad inventare, continuiamo a creare. Di fronte ai problemi cerchiamo di risolverli, non ci arrendiamo. Il vantaggio di questo è che siamo noi stessi a risolvere i problemi, non dipendiamo più da nessuna istanza del governo. Se va male,va male per tutti. Se va bene, va bene per tutti.

Vi stavo dicendo dei progetti e delle donazioni ched ovevamo correggere la modalità e quando abbiamo trovato la soluzione, questa non è piaciuta a chi ci presentava i progetti. Perché abbiamo detto: non si tratta solo di spendere soldi, dobbiamo pensare bene a quello che realizzeremo, perché un giorno quando non ci sarà più il sostegno al progetto dei compagni solidali, dobbiamo essere in grado di andare avanti e resistere da soli.

Quell’errore, quella falla in ambito economico, ci ha fatto ricordare i tempi trascorsi in clandestinità, perché in clandestinità siamo riusciti a costruire cliniche, e non sapevamo che avremmo visto compagni e compagne del continente asiatico, dei cinque continenti perché, non ce lo sognavamo proprio, tuttavia siamo riusciti a farlo. Non era della solidarietà, era dal sudore. Allora abbiamo detto ai compagni, ora ci rimettiamo a lavorare, ed è quello che facciamo adesso.

Per questo diciamo che ci stiamo rieducando, riorganizzando per la tormenta che verrà. Davvero, compagni e compagne, le cose non sono facili, ma la scommessa è non arrendersi.

Il lavoro collettivo, è cosa di due o tre mesi fa, perché ci stiamo riorganizzando, ci stiamo  rieducando, allora dobbiamo lavorare duro collettivamente affinché sappiamo come dovremo muoverci, o lottare.

Se in occasione di assemblee dei compas nei villaggi, regioni, municipi e zone, un compa zapatista dice, compagni, compagne, io non voglio lavorare collettivamente perché non me ne viene niente, ma non è perché non voglio restare nella lotta, io continuo ad essere zapatista e se c’è bisogno di cooperare per la lotta, io sono d’accordo.

I compas gi dicono, compa è male quello che dici, devi ricordare quello che sei, sei zapatista, perché qui non si tratta solo del lavoro collettivo, qui si tratta di essere zapatista. Lo zapatista deve affrontare tutto. Allora se tu dici che non vuoi andare a lavorare nel collettivo perché ci vogliono quattro, tre, cinque giorni, allora ti toccherà essere municipio autonomo ribelle zapatista, e dovrai svolgere quel servizio per tre anni , e solo tre, quattro giorni per andare a fare lavoro collettivo. Pensa bene a quello che stai dicendo.

(…)

Vi ho raccontato tutto questo, compas, perchè capiate che la scommessa è non mollare, è fare, non solo parlare. Affrontatelo, fatelo, cercatelo, inventatelo, credeteci. È questo.

Perché potevate immaginare quello che dicevamo sul fatto di lavorare la madre terra, e poi l’avete visto, vi ci hanno portato i vostri guardiani, le vostre guardiane a vedere se non lavorano gli zapatisti! Gli zapatisti non emigrano! Pensate a quello che vi ho detto del compa base di appoggio che non vuole fare il lavoro collettivo, perché è così che nascono i problemi. Uno esce, o si autoespelle, perché qua l’essere zapatista è che devi affrontare tutto, ma qualcuno non ci riesce e se  ne va. Quelli che se ne vanno è perché non vogliono più lottare, hanno abbandonato l’organizzazione.

Noi non paghiamo luce, acqua, possesso della terra, niente. Ma non riceviamo niente dal sistema. E come abbiamo già detto, lo confermiamo qui col nostro lavoro collettivo, zona, regione, municipi o villaggi, noi andiamo avanti e se dobbiamo fare mobilitazioni per appoggiare altri fratelli, sorelle, compagni, compagne,lo facciamo, ma non per chiedere al governo di mantenere le sue promesse, non ci spendiamo per questo.

Riguardo a come siamo, quello che vogliamo fare e quello che pensiamo di fare, sono i compas, le comunità che autorizzano, sono loro che comandano, sono loro che decidono. Non dipendiamo dal governo. E continueremo con questo nostro modo di essere, lavorando, lottando, e moriremo così se è necessario, per difendere quello che ora siamo.

Testo originale

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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miriam

Sub Galeano: È un onore ascoltare tre generazioni di donne dell’EZLN.

“È un rivoluzione quotidiana che vede le donne in prima linea”.

San Cristóbal de las Casas, Chiapas. 6 maggio. “Se una donna veniva picchiata dal marito, non poteva reclamare. Se chiedeva aiuto alle autorità, queste non facevano giustizia. Eravamo umiliate, ci vergognavamo di essere donne”, ricorda la comandante Miriam, nel Seminario il Pensiero Critico di fronte all’Idra Capitalista, esponendo la difficile strada che hanno dovuto e che devono percorrere le donne indigene affinché i loro diritti siano rispettati.

La comandanta zapatista ha ricordato che al tempo dei cacicchi, vivevano acasilladas con le loro famiglie all’interno delle tenute, dove non erano rispettati e venivano trattati come oggetti. È per questo che molte famiglie decisero di andare in montagna e formare una comunità per vivere fuori dalla tenuta. Purtroppo, una volta nel nuovo villaggio, anche se non c’era più il padrone, c’erano pero i “padroncini”, ovvero gli uomini di casa, “le donne vivevano rinchiuse come in una prigione”, ha raccontato Miriam.

“le donne le obbligano a sposare qualcuno contro la loro volontà. Poi ogni anno c’è una gravidanza, al marito non importa se la donna soffre. La donna si alza presto per preparare il pranzo che il marito si porterà al lavoro, poi quando il marito torna a casa, se ne va a passeggio o a giocare e la donna resta sola, e quando a notte fonda torna il marito, questo non le chiede come stai o se hai bisogno di qualcosa”, ha spiegato la ribelle zapatista. “quando si va a qualche festa, vogliono che le donne restino con il capo chino e coperte con lo scialle, come se non fossimo niente”, ha aggiunto.

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Da parte sua la comandanta Rosalinda, seconda generazione di donne zapatiste, ha detto che a poco a poco, lavorando nelle diverse commissioni assegnatele, ha perso la paura e la vergogna. “La partecipazione delle donne è necessaria, abbiamo lo stesso coraggio e la stessa forza degli uomini”, ha aggiunto. La comandanta Dalia ha poi esternato: “gli uomini una volta erano degli stronzi, ed alcuni ancora lo sono, ma non tutti perché adesso le donne si fanno rispettare”. “È necessario partecipare all’organizzazione e formare altre generazioni”, ha aggiunto.

Le giovani zapatiste Lisbeth e Selena, Terza generazione di donne zapatiste, hanno detto che loro “non sanno come funziona con le autorità del malgoverno”, perché sono cresciute con le proprie autorità autonome. Loro possono scegliere quello che vogliono essere, sia nell’area dell’educazione, salute, mezzi di comunicazione o come autorità, ci sono diversi compiti che come donne possono svolgere”, hanno aggiunto. Nello stesso tempo hanno affermato di essere coscienti dell’influenza che hanno sui giovani i grandi mezzi di comunicazione riguardo il modo di vestire, di comperare ed il modo di fare. Inoltre si rammaricano che i giovani che non sonno nell’organizzazione emigrino in altri stati e cambino completamente i loro usi e costumi.

Nel suo intervento il subcomandante Galeano ha dichiarato che le donne non solo devono lottare contro il sistema, “ma contro di noi, gli uomini”.

Dal Kurdistan è arrivato quindi il messaggio di resistenza della gente della montagna e del fuoco, in particolare delle donne. Rivendicando il diritto di continuare ad esistere, che cosa è la vita senza libertà? si chiede Havin Güneser, del Kurdish Freedom Movement. Le prime unità guerrigliere formate solo da donne in grado di prendere le proprie decisioni sono nate agli inizi degli anni ’90. “La donna è la prima linea, per questo è necessario abbattere il muro che ci schiaccia. Siamo le crepe nel mondo, e queste crepe si devono incontrare e diventare sempre più profonde”, afferma l’attivista sociale.

Karla Quiñones, di New York, racconta la difficile situazione delle donne immigrate negli Stati Uniti che in maggioranza non sanno leggere né scrivere e quindi restano isolate. I governi di Stati Uniti e Messico usano le deportazioni secondo convenienza in modo che le lavoratrici non si organizzino e non abbiano diritti. Di fronte a questa situazione, Quiñones si pronuncia per la decentralizzazione e per comunità di immigranti con governi autonomi.

Mariana Favela, appartenente al Movimento #Yosoy132, riprendendo quanto detto da Havin Güneser, segnala che se la donna è la prima linea, è anche la prima resistenza. (…).

Silvia Federici, dall’Argentina, invia il suo contributo scritto “nell’economia globale capitalista, una delle caratteristiche dello sfruttamento delle donne è la difesa delle terre comunitarie proprio da parte delle donne, perché gli uomini sono emigrati. “È una rivoluzione quotidiana che vede le donne in prima linea”, afferma.

Márgara Millán si chiede: che cosa possiamo proporre, non solo per opporsi, ma per costruire qualcosa di diverso? Silvia Marcos nella sua relazione riprende il filosofo Luis Villoro, segnalando che “l’utopia è già qui, vive nello zapatismo”. Rispetto alla relazione tra donne e uomini, concorda con il motto zapatista: siamo uguali perché siamo differenti. Sottolinea inoltre il lavoro delle donne nelle Giunte di Buon Governo zapatiste dove svolgono un ruolo importante nelle decisioni, accordi e soluzioni che si prendono.

Nella pagina di Radio Zapatista tutti gli audio della seduta del Seminario: AUDIO RADIO ZAPATISTA

Comandanta zapatista Miriam

Havin Güneser, Movimiento de Liberación Kurdo

Karla Quiñonez

Silvia Federici

Márgara Millán

Sylvia Marcos

Comandanta Rosalinda

Comandanta Dalia

Compañera base de apoyo Lisbet

Subcomandante Insurgente Galeano

 

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SULLE ELEZIONI. ORGANIZZARSI

Aprile 2015.

Ai compagni della Sexta:

A quelli che stanno leggendo perché gli interessa sebbene non siano della Sexta:

In questi giorni, come ogni volta che avviene questa cosa che chiamano “processo elettorale”, sentiamo e vediamo che se ne escono col fatto che l’EZLN chiama all’astensione, cioè che l’EZLN dice che non si deve votare. Dicono questa e altre stupidaggini, poiché hanno la testa grande per niente, visto che non studiano la storia e neppure ci provano. E questo seppure scrivano libri di storia e biografie e prendano i soldi per tali libri. Ovvero, guadagnano per dir bugie. Come i politici.

Chiaro che voi sapete che a noi non interessano le cose che fanno quelli di sopra per cercare di convincere la gente di sotto del fatto che la tengano in considerazione.

Come zapatisti che siamo non chiamiamo a non votare e nemmeno a votare. Come zapatisti che siamo ciò che facciamo, ogni volta che è possibile, è dire alla gente che si organizzi per resistere, per lottare, per ottenere ciò di cui si ha bisogno.

Noi, come molti altri tra i popoli originari di queste terre, ormai conosciamo il modo di fare dei partiti politici, e si tratta di una brutta storia di brutta gente.

Una storia che per noi come zapatisti che siamo ormai storia passata.

Credo che fu il defunto Tata Juan Chávez Alonso a dire che i partiti politici dividono i popoli, li mettono gli uni contro gli altri, li fanno litigare perfino tra parenti.

E di quando in quando, lo vediamo accadere in queste terre.

Voi sapete che in varie comunità nelle quali stiamo, c’è gente che non è zapatista, che vivacchia senza organizzarsi e aspettando che il malgoverno gli passi la sua elemosina per farsi qualche foto per dimostrare che il governo è buono.

Allora vediamo che, ogni volta che ci sono elezioni, alcuni si vestono di rosso, altri di azzurro, altri di verde, altri di giallo, altri trasparenti, e così combattono tra di loro, a volte tra gli stessi familiari. Perché combattono? Ebbene, per vedere chi li comanderà, a chi obbediranno, che gli darà ordini. E pensano che se vince il tale colore, chi ha appoggiato quel colore riceverà più elemosina. E allora li vediamo dire che sono ben decisi e consapevoli nell’aderire a un partito, e a volte arrivano ad ammazzarsi per un fottuto colore. Perché sono quelli che già comandano a volere l’incarico, a volte vestendosi di rosso, o di azzurro, o di verde, o di giallo, o mettendosi un nuovo colore. E dicendo che fanno parte del popolo e che bisogna appoggiarli. Ma non fanno parte del popolo, sono gli stessi governanti che un giorno sono deputati locali, un altro sono sindaci, un altro sono funzionari di partito, poi sono presidenti municipali e così via, saltando da un incarico all’altro, e anche da un colore all’altro. Sono gli stessi, gli stessi cognomi, sono i parenti, i figli, i nipoti, gli zii, i cugini, i parenti, i cognati, i fidanzati, gli amanti, gli amici degli stessi bastardi e bastarde di sempre. E dicono sempre la stessa roba: dicono che salveranno il popolo, che ora si comporteranno bene, che non ruberanno più così tanto, che aiuteranno i poveracci, che li tireranno fuori dalla miseria.

Ebbene, si spendono i loro soldi, che ovviamente non sono loro bensì sono presi dalle imposte. Però queste bastarde e bastardi non spendono i soldi per aiutare o sostenere i poveracci. No. Li spendono per mettere i loro nomi e le loro foto nella propaganda elettorale, negli annunci delle radio e televisioni commerciali, nei loro giornali e riviste a pagamento, e compaiono perfino al cinema.

Ebbene, quelli che nelle comunità sono sostenitori sfegatati di un partito al momento delle elezioni e molto consapevoli del loro colore, quando alla fine viene fuori chi ha vinto passano tutti a quel colore, perché pensano che così gli verrà dato il loro regalino.

Per esempio, che ora gli daranno un televisore. Ebbene, come zapatisti che siamo noi diciamo che gli stanno dando una pattumiera, perché attraverso la televisione gli manderanno un mucchio di spazzatura. Ma se prima il problema era che gli dessero tutto o no, ora non gli danno e non gli daranno più nulla.

Se glielo davano, era perché diventassero scansafatiche. Si sono perfino dimenticati come si lavora la terra. Se ne stanno lì, aspettando che arrivino i soldi del governo per spenderseli in bevute. E se ne stanno lì nelle loro case, sfottendoci perché noi andiamo al campo di lavoro mentre loro non fanno che aspettare che ritorni la moglie, la figlia, mandate a raccattare il sussidio, il sostegno del governo.

E così via, finché non arriva più. Senza preavviso, non esce nei media prezzolati, nessuno viene a dirgli di essere i loro salvatori. Semplicemente, cessa il sostegno. E quel fratello o sorella si rende conto di non aver più nulla, né per le bevute, né tanto meno per il mais, i fagioli, il sapone, i pantaloni. E allora deve tornare al campo di lavoro ormai in abbandono, inselvatichito che nemmeno ci si può camminare. E siccome si è ormai dimenticato come si lavora, gli si gonfiano le mani tanto che nemmeno può impugnare il machete. Lo hanno fatto diventare un essere inutile che vive solo di elemosine e non di lavoro.

Ecco ciò che già sta succedendo. Non viene fuori nelle notizie dei malgoverni. Al contrario, viene fuori che vengono dati molti fondi. Ma nei villaggi non arriva più nulla. Dove va a finire il denaro che il malgoverno dice di stare dando per la campagna di elemosine sulla fame? Ebbene, già lo sappiamo che là sopra hanno detto che ci sarà meno denaro o che semplicemente non ce ne sarà più. Voi credete che, mentre il contadino ormai campa di elemosina si dimentica di lavorare, quello che sta sopra e che gli passava il sussidio lavori? No, anche quello di sopra è abituato a ricevere gratis. Non sa vivere onestamente lavorando, sa solo vivere occupando incarichi di governo.

Quindi succede che essendoci meno soldi non arriva più nulla. Resta tutto di sopra. Un po’ lo arraffa il governatore, un altro po’ il giudice, un altro po’ il poliziotto, il deputato, il presidente municipale, il sindaco, il leader contadino e a quel punto alla famiglia del sostenitore di partito non arriva più nulla.

Prima sì che arrivava, ma ora non più. “Che succede?”, chiede il sostenitore di partito. E pensa che il problema sia che il tal colore non serve più, e prova a passare a un altro colore. Il risultato è lo stesso. Nelle assemblee i sostenitori di partito si incazzano, si urlano addosso, si accusano l’un l’altro, si chiamano traditori, venduti, corrotti. È in effetti sì, sia quelli che gridano che quelli che subiscono le urla sono traditori, venduti e corrotti.

E allora, la base di questi partiti si dispera, si angustia, è presa dalla pena. È svelato l’inganno perché nelle nostre case zapatiste c’è il mais, ci sono i fagioli, c’è la verdura, c’è quel minimo di soldi per le medicine e i vestiti. E dal lavoro collettivo viene fuori quel che serve per sostenerci tra di noi in caso di necessità. C’è la scuola, c’è la clinica. Non è il governo che ci viene ad aiutare. È che noi stessi ci aiutiamo tra compagni zapatisti e con le compagne e i compagni della Sexta.

Allora viene il fratello affiliato al partito e ci chiede che fare, perché è messo male.

Ebbene, sappiate cosa rispondiamo noi:

Non gli diciamo di cambiare il partito per un altro meno peggio.

Non gli diciamo di votare.

Nemmeno gli diciamo di non votare.

Non gli diciamo di farsi zapatista, perché lo sappiamo bene, per la nostra storia, che non tutti hanno la forza d’animo di essere zapatisti.

Non lo prendiamo in giro.

Semplicemente gli diciamo di organizzarsi.

“E allora cosa faccio?”, ci chiede.

E allora gli diciamo: “Veditela da solo sul da farsi, secondo quel che ti dice il tuo cuore, la tua testa, e non che venga qualcun altro a dirti cosa devi fare”.

E lui ci dice: “E’ che la situazione è veramente incasinata”.

E noi non gli diciamo bugie, non gli facciamo chissà che grandi discorsi. Noi gli diciamo soltanto la verità:

“Non farà che peggiorare”.

-*-

Sappiamo bene che così vanno le cose.

Ma come zapatisti abbiamo anche ben chiaro che c’è ancora gente che da altre parti della città e della campagna, cade nella trappola di mettersi con i partiti.

Sembra molto vantaggioso mettersi coi partiti, perché si guadagnano soldi senza lavorare, senza sbattersi per guadagnare pochi centesimi e avere il minimo per mangiare, vestirsi e curarsi.

Ciò che fanno quelli di sopra è ingannare la gente. Questo è il loro lavoro, vivono di questo.

Lo vediamo che c’è gente che ci crede, crede che la situazione migliorerà, che il tal dirigente risolverà il problema, che si comporterà bene, che non ruberà molto, che intrallazzerà solo un po’, che bisogna provare.

Quindi noi diciamo che sono pezzi di piccole storie che devono passare. Che devono constatare con i propri occhi che non ci sarà nessuno che risolverà il problema, ma che dobbiamo risolverlo noi stessi, stesse, come collettivi organizzati.

Le soluzioni le dà il popolo, non il leader, non i sostenitori dei partiti.

E non lo diciamo solo perché suona bene. È perché lo abbiamo visto accadere realmente, è perché già lo facciamo.

-*-

Può darsi che molto tempo fa, alcuni aderenti ai partiti di sinistra, prima di istituzionalizzarsi, cercassero di creare coscienza tra il popolo. Non cercavano il potere attraverso le elezioni, ma di smuovere il popolo perché si organizzasse, e lottasse, e cambiasse il sistema. Non solo il governo. Tutto, tutto il sistema.

Perché dico aderenti ai partiti di sinistra istituzionale? Be’, perché sappiamo che ci sono partiti di sinistra che non sono coinvolti negli intrallazzi di sopra, che hanno le loro modalità, ma non si vendono, né si arrendono, né cambiano il loro pensiero sul fatto che bisogna finirla con il sistema capitalistico. Perché lo sappiamo, e noi come zapatisti non lo dimentichiamo, che la storia della lotta di sotto è scritta anche con il loro sangue.

Ma la grana è la grana e il sopra è il sopra. E gli aderenti ai partiti di sinistra istituzionale hanno cambiato il loro modo di pensare che è diventato la ricerca di un posto, per i soldi. Semplicemente: i soldi. Cioè la grana.

O pensate che creare coscienza si faccia disprezzando, umiliando, criticando la gente di sotto? Dicendogli che sono dei mangiapanini che non pensano? Che sono ignoranti?

Pensate che creino coscienza se, quando gli si dice: “senti tu, uomo di partito di sinistra, quel capretto o capra, che tu dici essere la speranza, è già stato di altri colori e non è che un ratto”, ti rispondono che sei venduto a Peña Nieto?

Pensate che creino coscienza se dicono alla gente la menzogna che noi zapatisti diciamo di non votare; magari perché stanno vedendo che forse non otterranno l’elezione, ossia più grana, e stanno cercando un pretesto per incolpare qualcuno?

Pensate che creino coscienza se stanno dicendo di non votare chi non ha studiato ed è povero perché sono ignoranti che votano soltanto il PRI?

Se il Velasco del Chiapas dà ceffoni con la mano, questi uomini di partito danno ceffoni con il loro razzismo mal nascosto.

Guardate che l’unica coscienza che stanno creando questi uomini di partito è che, oltre a essere orgogliosi, sono degli imbecilli.

Cosa si credono?

Che dopo aver ricevuto i loro insulti, le loro menzogne e i loro rimbrotti, la gente di sotto accorrerà a inginocchiarsi dinanzi al loro colore, a votare per loro e a pregarli di salvarla?

Ecco cosa diciamo come zapatisti: ecco la prova che per essere un politico di partito di sopra bisogna essere bavoso o svergognato o criminale, o le tre cose insieme.

-*-

Noi zapatisti diciamo che non bisogna aver paura che il popolo comandi. È la cosa più sana e giudiziosa. Perché il popolo stesso cambierà le cose come ha veramente bisogno. E solo così esisterà un nuovo modo di governare.

Non è che non capiamo che significhi eleggere o elezione. Noi zapatisti abbiamo un altro calendario e un’altra geografia su come fare le elezioni in territorio ribelle, resistendo.

I nostri villaggi eleggono già per conto proprio, e non si spendono milionate né si consumano tonnellate di immondizie plastiche, di teloni con le loro fotografie di ladruncoli e criminali.

Certo, abbiamo appena 20 anni di cammino nell’elezione delle nostre autorità autonome, secondo la vera democrazia. Così abbiamo camminato, con la Libertà che con cui stiamo e con l’altra Giustizia del popolo organizzato. Dove si coinvolgono migliaia di donne e di uomini per scegliere. Dove tutte e tutti sono d’accordo e si organizzano nella vigilanza affinché mantengano il mandato dei villaggi. Dove i villaggi si organizzano per vedere quali saranno i lavori spettanti alle autorità.

Cioè come il popolo comanda il suo governo.

I villaggi si organizzano in assemblee, dove si iniziano a esprimere pareri e di conseguenza a venire fuori le proposte che vengono studiate, nei loro pro e contro, e si analizza qual è la migliore. E prima di decidere le portano a tutti i villaggi per l’approvazione e tornano in assemblea per la presa di decisione secondo la maggioranza della decisione dei villaggi.

Questa è già la vita zapatista nei villaggi. È già una cultura di verità.

Vi sembra che sia molto lento? Perciò noi diciamo che è in base al nostro calendario.

Vi sembra che avvenga perché siamo popoli originari? Perciò diciamo che è secondo la nostra geografia.

È chiaro che abbiamo commesso molti errori, molti sbagli. Certo che ne faremo altri.

Ma sono i nostri sbagli.

Noi li commettiamo. Noi li paghiamo.

Non come nei partiti nei quali i dirigenti sbagliano e per di più incassano, e quelli di sotto sono quelli che la pagano.

Perciò la storia delle elezioni nel mese di giugno non ci fa né caldo né freddo.

Non facciamo una chiamata né a votare né a non votare. Non ci interessa.

C’è di più: nemmeno ci preoccupa.

Quel che interessa a noi zapatisti è sapere di più su come resistiamo e affrontiamo le molte teste del sistema capitalista che ci sfrutta, ci reprime, ci disprezza e ci ruba.

Perché non è solo da un lato e in un modo che il capitalismo opprime. Opprime se donna. Opprime se impiegato. Opprime se operaio. Opprime se contadino. Opprime se giovane. Opprime se bambina o bambino. Opprime se maestro. Opprime se studente. Opprime se artista. Opprime se pensi. Opprime se sei umano, o pianta, o acqua, o terra, o aria, o animale.

Non importa che lo profumino o lavino, il sistema capitalista “gronda sangue e fango, da tutti i pori, dalla testa ai piedi” (andatevi a vedere chi lo ha scritto e dove).

Pertanto la nostra idea non è di promuovere il voto.

Tanto meno di promuovere l’astensione o il voto in bianco.

Il nostro pensiero non è di fornire ricette su come far fronte al problema del capitalismo. Non è nemmeno per imporre il nostro pensiero ad altri.

Il seminario serve a vedere le varie teste del sistema capitalista, a cercare di capire se ha nuovi metodi per attaccarci o sono gli stessi di prima.

Se ci interessano i pensieri altrui è per vedere se è vero ciò che vediamo arrivare, ovvero una crisi economica tremenda che si congiungerà ad altri mali e farà molti danni a tutte e tutti da tutte le parti, in tutto il mondo.

Perciò se è vero che sta per accadere questo, o che sta già accadendo, bisogna pensare se ha senso agire allo stesso modo di prima.

Pensiamo che dobbiamo obbligarci a pensare, ad analizzare, a riflettere, a criticare, a cercare il nostro proprio passo, il nostro proprio modo, nei nostri luoghi e nei nostri tempi.

Ora chiedo a voi che state leggendo queste righe: che votiate o no, vi danneggia pensare come va il mondo nel quale viviamo, analizzarlo, capirlo? Pensare criticamente vi impedisce di votare o di astenervi? Vi aiuta o no a organizzarvi?

-*-

Finendola sulle elezioni:

Soltanto perché resti ben chiaro e non vi facciate ingannare sul fatto che diciamo ciò che non diciamo.

Noi capiamo che ci sono quelli che credono di poter cambiare il sistema votando alle elezioni.

Noi diciamo che è una cazzata perché è chi comanda a organizzare le elezioni, a dire chi è candidato, a dire come si vota e quando e dove, a dire chi vince, ad annunciarlo e a dire se tutto si è svolto in maniera legale o no.

Ma va bene, c’è gente che pensa di sì. Va bene, noi non diciamo di no, ma nemmeno di sì.

Quindi, che votino per un colore o trasparente, o non votino, quel che noi diciamo è che bisogna organizzarsi e prendere nelle nostre mani il governo e obbligarlo a obbedire al popolo.

Se avete già pensato di non votare, noi non diciamo che va bene, e nemmeno diciamo che va male. Vi diciamo solo che pensiamo che non basti, che bisogna organizzarsi. E ovviamente di prepararvi perché vi daranno la colpa delle miserie della sinistra partitica istituzionale.

Se avete pensato di votare e già sapete chi voterete, è uguale, non discutiamo se va bene o va male. Quel che vi diciamo chiaramente è di prepararvi perché resterete molto arrabbiati per gli inganni e le frodi che subirete. Perché a ingannare sono esperti quelli che stanno al Potere. Perché quel che succederà è già deciso da quelli di sopra.

Sappiamo anche che ci sono leader che ingannano la gente. Le dicono che ci sono solo due strade per cambiare il sistema: o la lotta elettorale o la lotta armata.

Ecco ciò che dicono per ignoranza o per assenza di vergogna, o per entrambe.

In primo luogo, essi non stanno lottando per cambiare il sistema, né per prendere il potere, bensì per diventare governo. Non è la stessa cosa. Dicono che una volta al governo faranno cose buone, ma hanno cura di mettere in chiaro che non cambieranno il sistema, bensì che ne rimuoveranno gli aspetti negativi.

Converrebbe che studiassero un po’ e capissero che essere governo non è detenere il Potere.

Si vede come non sappiano nemmeno che rimuovendo gli aspetti negativi del capitalismo non c’è più capitalismo. E vi dirò perché: perché il capitalismo è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dei molti da parte di pochi. Se ci aggiungete anche le donne, la faccenda non cambia. Se ci aggiungete anche gli altrei, la faccenda non cambia. Continua ad essere il sistema nel quale alcunei si arricchiscono a spese del lavoro di altrei. E sono pochi gli altrei di sopra, e sono molti gli altrei di sotto. Se gli affiliati ai partiti dicono che ciò va bene e che bisogna solo stare attenti che non passino il segno, che lo dicano pure.

Ma per arrivare a essere governo non ci sono solo due vie come dicono loro (la via armata e la via elettorale). Dimenticano che anche il governo si può comprare (o hanno già dimenticato com’è arrivato al governo Peña Nieto?). E non solo questo, forse non lo sanno ma si può comandare senza essere governo.

Se questa gente dice che si può fare solo con le armi o con le elezioni, l’unica cosa che dicono è che non conoscono la storia, che non studiano bene, che non hanno immaginazione, che sono degli svergognati.

Basterebbe che guardassero un po’ di sotto. Ma ormai gli si è torto il collo dal tanto guardare di sopra.

Perciò noi zapatisti non ci stanchiamo di dire: organizzatevi, organizziamoci, ciascuno nei suoi luoghi, lottiamo per organizzarci, lavoriamo per organizzarci, pensiamo a iniziare a organizzarci e incontriamoci per unire le nostre organizzazioni per un Mondo in cui i popoli comandano e il governo obbedisce.

Riassumendo: come abbiamo detto prima, come diciamo ora: che tu voti o no, organizzati.

E quindi noi zapatisti pensiamo che bisogna avere un pensiero adeguato per organizzarsi. Cioè si necessita la teoria, il pensiero critico.

Col pensiero critico analizziamo le modalità del nemico, di chi ci opprime, ci sfrutta, ci reprime, ci disprezza, ci deruba, ma andiamo verificando anche com’è la nostra strada, come sono i nostri passi.

Perciò stiamo chiamando tutta la Sexta a fare riunioni di pensiero, di analisi, di teoria, di come vedete il vostro mondo, la vostra lotta, la vostra storia.

Vi chiamiamo a realizzare i vostri semenzai e a condividere ciò che lì seminerete.

-*-

Noi come zapatisti continueremo ad autogovernarci secondo il principio che il popolo comanda e il governo obbedisce.

Come dicono i compagni zapatisti: Hay lum tujbil vitil ayotik. Vuol dire: va molto bene come siamo.

Un’altra: Nunca ya kikitaybajtic bitilon zapatista. Vuol dire: non smetteremo mai di essere zapatisti.

Un’altra ancora: Jatoj kalal yax chamon te yax voon sok viil zapatista. Vuol dire: Fino a quando morirò il mio nome sarà zapatista.

Dalle montagne del sudest messicano.

A nome di tutto l’EZLN, degli uomini, delle donne, dei bambini e degli anziani dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.

Subcomandante Insurgente Moisés.

Messico, aprile-maggio 2015. 

Testo originale: http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2015/05/06/sulle-elezioni-organizzarsi/

Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano

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Il Muro e la Crepa.

Primo Appunto sul Metodo Zapatista.

3 maggio 2015

Buona sera, giorno, notte a chi ci ascolta e chi ci legge, indipendentemente da calendari e geografie.

Il mio nome è Galeano, Subcomandante Insurgente Galeano. Sono nato all’alba del 25 maggio 2014, per volere collettivo e non mio, e nemmeno di altri, altre e otroas. Come il resto delle mie compagne e compagni zapatisti, mi copro il volto quando è necessario mostrarmi, e mi scopro per nascondermi. Nonostante non abbia ancora compiuto un anno di vita, il comando mi ha assegnato il compito di guardia, vedetta o sentinella in uno dei posti di osservazione di questa terra ribelle.

Siccome non sono abituato a parlare in pubblico, tantomeno di fronte a così tante e così (scusate, dev’essere il singhiozzo da panico del palcoscenico), dicevo così raffinate personalità, vi ringrazio per la comprensione per i miei balbettii ed inciampi nella difficile e complicata arte della parola.

Ho assunto il nome di Galeano, il nome di un compagno zapatista, un maestro ed organizzatore, indigeno che fu aggredito, rapito, torturato ed assassinato da paramilitari patrocinati da una presunta organizzazione sociale: la CIOAC-Histórica. L’incubo che si concluse con la vita del compagno maestro Galeano, iniziò l’alba del 2 maggio 2014. Da quell’ora, noi, zapatiste e zapatisti, abbiamo iniziato la ricostruzione della sua vita.

In quei giorni la direzione collettiva dell’EZLN decise di far morire il personaggio autonominato SupMarcos, allora portavoce degli uomini, donne, bambini ed anziani zapatisti. Da allora, l’incarico di portavoce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale è stato assunto dal Subcomandante Insurgente Moisés. Per sua voce parliamo, attraverso i suoi occhi guardiamo, nei suoi passi camminiamo, noi siamo lui.

Mesi dopo quel 2 maggio, la notte è scesa sul Messico aggiungendo un nuovo nome alla già la lunga lista del terrore: “Ayotzinapa”. Come è già avvenuto altre volte nel mondo, una geografia del basso veniva segnalata e nominata da una tragedia studiata ed eseguita, cioè, un crimine.

Abbiamo già detto, per voce del Subcomandante Insurgente Moisés, cosa ha significato Ayotzinapa per zapatiste e zapatisti. Col vostro permesso e delle mie compagne e compagni cape e capi zapatisti, riprendo le sue parole.

Ayotzinapa è dolore e rabbia, ma non solo. È anche e soprattutto l’ostinato impegno dei genitori e compagni degli assenti.

Alcuni di questi genitori che non hanno lasciato cadere la memoria, ci hanno fatto l’onore della loro condivisione e sono qui con noi in terre zapatiste.

Abbiamo ascoltato la parola di Doña Hilda e Don Mario, madre e padre di César Manuel González Hernández, ed abbiamo la presenza e la parola di Doña Bertha e Don Tomás, madre e padre di Julio César Ramírez Nava. Con loro reclamiamo i 46 assenti.

A Doña Bertha e Don Tomás chiediamo di far arrivare queste parole agli altri familiari degli assenti di Ayotzinapa. Perché è stata la loro lotta a far avviare questo semenzaio.

Credo che più di una, uno, unoa, della Sexta e dell’EZLN concorderanno con me che avremmo preferito che non fossero qui. Voglio dire che avremmo voluto che fossero qui ma non per dolore e rabbia, ma per un abbraccio tra compagni. Che non fosse successo nulla quel 26 settembre. Che il calendario avesse dato una mano amica ed avesse saltato quella data, e che la geografia si fosse persa e non si fosse fermata ad Iguala, Guerrero, Messico.

Ma se dopo quella notte di terrore la geografia ha raggiunto gli angoli più remoti del pianeta, e se il calendario resta fisso su quella data, è stato per il vostro impegno, per la grandezza della vostra semplicità, per la vostra dedizione incondizionata.

Non abbiamo conosciuto i vostri figli. Ma conosciamo voi. E vorremmo che la nostra ammirazione e rispetto sia per voi una certezza, anche nei vostri momenti di dolore e solitudine.

È vero, non possiamo riempire le strade e le piazze delle grandi città. Ogni mobilitazione, per piccola che sia, per le nostre comunità rappresenta una perdita importante nella loro economia, già di per sé difficile, come quella di milioni di persone, sostenuta con difficoltà dalla ribellione e resistenza che dura da oltre due decenni. Dico nelle nostre comunità, perché i nostri aiuti non sono la somma di individualità, ma sono azione collettiva, pensata ed organizzata. Sono parte della nostra lotta.

Non possiamo emergere nelle reti sociali, né far arrivare le vostre parole oltre i nostri cuori. Non possiamo nemmeno aiutarvi economicamente, anche se sappiamo che questi mesi di lotta vi hanno segnato nella salute e nelle condizioni di vita.

Succede anche che il nostro essere ribelli ed in resistenza il più delle volte è visto con sospetto e sfiducia. Movimenti e mobilitazioni che si svolgono da diverse parti, preferiscono non rendere esplicita la nostra simpatia. Sensibili al “cosa diranno” mediatico, non vogliono che la loro causa sia associata in alcun modo “agli incappucciati del Chiapas”. Lo capiamo, non lo discutiamo. Il nostro rispetto per le ribellioni che pullulano nel mondo include il rispetto delle loro valutazioni, dei loro passi, delle loro decisioni. Rispettiamo, ma non ignoriamo. Siamo attenti ad ognuna delle mobilitazioni che affrontano il Sistema. Cerchiamo di comprenderle, cioè, di conoscerle. Sappiamo che il rispetto nasce dalla conoscenza, e che la paura e l’odio, queste due facce del disprezzo, non poche volte nascono dall’ignoranza.

La stragrande maggioranza nel mondo, non solo nel nostro paese, è come voi, sorelle e fratelli familiari degli assenti di Ayozinapa. Persone che devono combattere giorno e notte per un pezzo di vita. Gente che deve lottare per strappare alla realtà qualcosa per sopravvivere.

Chiunque in basso, uomo, donna, otroa, che conosca la storia che vi addolora, simpatizza con la vostra lotta per chiedere verità e giustizia. La condivide perché nelle vostre parole vedono la ripetizione delle loro storie, perché si riconoscono nel vostro dolore, perché si identificano con la vostra rabbia.

La maggioranza non è andata a manifestare, non ha creato temi nelle reti sociali, non ha rotto vetri, non ha incendiato auto, non ha gridato slogan, non ha usurpato palchi, non ha vi ha detto che non siete soli.

Non l’hanno fatto semplicemente perché non hanno potuto farlo.

Ma hanno ascoltato e rispettano il vostro movimento.

Non demoralizzatevi.

Non credete che, solo perché chi prima era al vostro fianco ed ora se n’è andato dopo aver fatto la sua parte o dopo aver visto che non avrebbe potuto farla, la vostra causa sia meno dolorosa, meno nobile, meno giusta.

Il cammino che avete fatto fino ad ora è stato intenso, certo. Ma voi sapete che c’è ancora molto da camminare.

Sapete? Uno degli inganni di quelli che stanno sopra è convincere quelli in basso che quello che non si ottiene rapidamente e facilmente, non si otterrà mai. Convincerci che le lotte lunghe e difficili stancano e non arrivano a niente. Truccano il calendario del basso sovrapponendo il calendario di sopra: elezioni, apparizione, riunioni, appuntamenti con la storia, date commemorative che occultano solo il dolore e la rabbia.

Il Sistema non teme le esplosioni, per quanto grandi e luminose siano. Se un governo cade, sui suoi scaffali ne ha pronti altri da porre ed imporre. Quello che lo terrorizza è la perseveranza della ribellione e la resistenza del basso.

Perché in basso il calendario è un altro. Il passo è un altro. È un’altra la storia. È un altro il dolore ed un’altra la rabbia.

Ed ora, col trascorrere dei giorni, questo basso diffuso e plurale che siamo, non solo è partecipe del vostro dolore e della vostra rabbia. Ma siamo inoltre attenti alla vostra costanza, al vostro andare avanti, al vostro non arrendervi.

Credete. La vostra lotta non dipende dal numero di manifestanti, dal numero di righe sui giornali, dal numero di citazioni nelle reti sociali, dal numero di incontri ai quali siete invitati.

La vostra lotta, la nostra lotta, le lotte del basso in generale dipendono dalla resistenza. Dal non arrendersi, dal non vendersi, dal non tentennare.

Naturalmente, questo secondo noi, zapatiste e zapatisti. Ci sarà gente che vi dirà altre cose. Vi diranno che è più importante stare con loro. Per esempio, che è più importante invitare a votare per quel tal partito politico perché così troveranno gli assenti. E che se non inviterete a votare per quel tal partito, non solo avrete perso l’opportunità di ritrovare coloro che vi mancano, ma sarete anche complici del proseguimento del terrore nel nostro paese.

Sapete bene che ci sono partiti politici che approfittano dei bisogni materiali della gente. Che offrono generi alimentari, materiale scolastico, carte prepagate, biglietti per il cinema, cappellini, panini e bibite colorate in tetra pack? Beh, c’è anche chi approfitta dei sentimenti delle persone. La speranza, amici e nemici, è il bisogno maggiormente quotato là sopra. La speranza che tutto cambi, la speranza di benessere, democrazia, giustizia, libertà. La speranza che gli illuminati di sopra emancipino dal basso i reietti, per poi rivenderla. La speranza in cui la soluzione dei bisogni dipende dal colore di uno dei prodotti sullo scaffale del sistema.

Forse è gente che ne sa più di noi zapatiste e zapatisti. Sono saggi. Inoltre, vengono pagati per sapere. La conoscenza è la loro professione, di quella vivono… o con quella defraudano.

Loro ne sanno più di noi, e riferendosi a noi dicono che siamo “persi là, sulle montagne, chissà dove”, e dicono che invitiamo all’astensione e che siamo settari, forse perché, a differenza di loro, noi rispettiamo i nostri morti.

È così comodo pronunciare e ripetere nozioni e bugie! Così a buon mercato diffamare e calunniare, e poi predicare l’unità, il nemico principale, l’infallibilità del pastore, l’incapacità del gregge.

Molti anni fa, noi zapatisti non facevamo marce, non gridavamo slogan, né inalberavamo striscioni, né alzavamo i pugni. Fino a che una volta abbiamo sfilato. La data: il 12 ottobre 1992, quando in alto celebravano i 500 anni dell’”incontro dei due mondi”. Il luogo: San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, Messico. Invece degli striscioni, portavamo archi e frecce, ed un silenzio sordo era il nostro slogan.

Senza chiasso, la statua del conquistatore cadde. Se l’hanno risollevata, non importa. Non potranno mai risollevare di nuovo la paura di quello che rappresentava.

Qualche mese dopo, tornammo nelle città. Neanche quella volta avevamo slogan né striscioni, e non portavamo archi e frecce. Quell’alba odorava di fuoco e polvere da sparo. E furono i nostri volti a sollevarsi.

Mesi dopo arrivarono alcuni dalla città. Ci raccontarono delle grandi marce, degli slogan, degli striscioni, dei pugni alzati. Naturalmente, sempre premettendo che se questi poveri indios e indias, siamo sempre attenti all’equità di genere, erano sopravvissuti, era grazie a loro che nelle città avevano fermato il genocidio dei primi giorni di quell’anno 1994. Noi zapatiste e zapatisti non domandammo se prima del 1994 non ci fosse stato genocidio, né se fosse stato fermato, né se quelli della città stavano parlando di qualcosa già successo o delle sue conseguenze. Noi zapatiste e zapatisti capimmo che c’erano altre forme di lotta.

Poi abbiamo fatto le nostre marce, i nostri slogan, i nostri striscioni ed alzato i pugni. Da allora le nostre marce sono un pallido riflesso di quella marcia che illuminò l’alba dell’anno 94. I nostri slogan hanno la rima disordinata delle canzoni negli accampamenti guerriglieri di montagna. I nostri striscioni sono tremendamente complicati per trovare l’equivalente di quello che nelle nostre lingue si descrive con una parola, mentre in altre lingue c’è bisogno dei tre tomi del Capitale. I nostri pugni alzati più che sfidare, salutano. Come se si rivolgessero al domani e non al presente.

Ma qualcosa non è cambiato: i nostri volti sono ancora sollevati.

Anni dopo, i nostri cosiddetti creditori della città ci chiesero di partecipare alle elezioni. Noi non capimmo, perché noi non avevamo mai chiesto a loro di sollevarsi in armi, né che resistessero, né che si ribellassero contro il malgoverno, né che onorassero i loro morti in lotta. Non abbiamo mai chiesto loro di coprirsi il volto, di negarsi il nome, di abbandonare famiglia, professione, amicizie, tutto. Ma i moderni conquistadores, travestiti di sinistra progressista, ci minacciarono: se non li seguivamo, ci avrebbero lasciato soli e saremmo stati i colpevoli della destra reazionaria al governo. Eravamo loro debitori, dissero, e presentarono il conto da pagare stampato su una scheda elettorale.

Noi, zapatiste e zapatisti non capivamo. Eravamo insorti per comandarci da soli, non perché qualcun altro ci comandasse. Si arrabbiarono.

Poi quelli della città hanno continuato a fare cortei, gridare slogan, alzare pugni e striscioni, ed ora aggiungono tweet, hashtag, like, trending topics, followers, nei loro partiti politici ci sono gli stessi che ieri erano nella destra reazionaria, ai loro tavoli siedono insieme gli assassini ed i familiari degli assassinati, ridono e brindano insieme per i soldi ricevuti, si lamentano e piangono insieme per le poltrone perse.

Nel frattempo noi zapatiste e zapatisti qualche volta abbiamo sfilato, gridato slogan impossibili o taciuto, a volte abbiamo sollevato striscioni e pugni, sempre lo sguardo. Diciamo che non abbiamo manifestato per sfidare il tiranno, ma per salutare chi, in altre geografie e calendari, lo affronta. Per sfidarlo, noi costruiamo. Per sfidarlo, noi creiamo. Per sfidarlo, noi immaginiamo. Per sfidarlo, noi cresciamo e ci moltiplichiamo. Per sfidarlo, noi viviamo. Per sfidarlo, noi moriamo. Invece dei tweet, facciamo scuole e cliniche, invece di trending topics, feste per celebrare la vita e sconfiggere la morte.

Nella terra dei creditori della città continua a comandare il padrone, con un’altra faccia, con un altro nome, di un altro colore.

In terra zapatista comanda il popolo ed il governo obbedisce.

Forse per questo noi zapatiste e zapatisti non capivamo che noi dovevamo essere i seguaci, ed i leader della città i capi.

E continuiamo a non capire.

Ma può essere che la verità e la giustizia che voi, noi e tutti, tutte, todoas, cerchiamo, si ottenga grazie al dono di un leader circondato da persone intelligenti come lui, un salvatore, un padrone, un capo, un modello, un pastore, un governante, e tutto solo col minimo sforzo di inserire una scheda nell’urna, un tweet, la presenza nel corteo, al meeting, nella lista degli affiliati… o tacendo di fronte alla farsa che simula interesse patriottico dove c’è solo fame di Potere.

Se è vero o no, forse ce lo diranno altre idee durante questo semenzaio.

Quello che noi, zapatiste e zapatisti, abbiamo imparato è che non è vero. Da sopra vengono solo sfruttamento, furto, repressione, disprezzo. Da sopra, viene solo dolore.

E da sopra vi chiedono, esigono che li seguiate. Che voi dovete a loro che il vostro dolore sia conosciuto a livello mondiale, che dovete a loro le piazze piene, le strade colme di colore e ingegno. Che voi dovete a loro l’opera di polizia che ha denunciato, perseguitato e demonizzato gli “anarco-inflitrati-schifosi”. Che voi dovete a loro le manifestazioni ordinate, gli articoli sui giornali, le foto a colori, le recensioni favorevoli e le interviste.

Noi, zapatiste e zapatisti, vi diciamo:

Non temete di perdere chi non è mai stato davvero con voi. Sono loro che non vi meritano. Che si avvicinano al vostro dolore come ad uno spettacolo alieno che piace o no, ma del quale non saranno mai parte reale.

Non temete di essere abbandonati da chi non vuole accompagnarvi ed appoggiarvi, ma solo gestirvi, domarvi, farvi arrendere, usarvi e poi gettarvi via.

Temete invece di dimenticare la vostra causa, di abbandonare la lotta.

Ma finché resisterete avrete il rispetto e l’ammirazione di molta gente in Messico e nel mondo.

Persone come quelle che oggi sono qui con noi.

Come Adolfo Gilly.

Quello che ora vi dirò, non era previsto. La ragione? Inizialmente sia Adolfo Gilly sia Pablo González Casanova avevano detto che forse non sarebbero stati presenti, entrambi per problemi di salute. Ma Adolfo è qui, e a lui ora chiediamo di parlare dopo Don Pablo.

Il defunto supMarcos raccontava che a volte qualcuno criticava che l’EZLN avesse tante attenzioni per Don Luis Villoro, Don Pablo González Casanova e Don Adolfo Gilly. L’accusa si basava sulle divergenze che queste tre persone avevano rispetto allo zapatismo, mentre non ci fosse la stessa deferenza verso intellettuali che erano cento percento zapatisti. Immagino che il Sup, dopo aver acceso la pipa, disse: “Per prima cosa, le loro differenze non sono su ciò che è lo zapatismo, bensì su valutazioni, analisi o posizioni che lo zapatismo assume rispetto diversi temi. In secondo luogo, personalmente ho visto queste tre persone di fronte ai miei capi compagne e compagni. Qua sono arrivati intellettuali di grande prestigio ed alcuni nemmeno tanto apprezzati. Sono venuti ed hanno detto la loro parola. Pochi, molto pochi, hanno parlato con le comandanti ed i comandanti. Solo di fronte a quelle tre persone ho visto i miei capi e cape parlare ed ascoltare da uguale a uguale, con mutua fiducia e cameratismo. Come hanno fatto? Bisognerebbe chiederlo a loro. Quello che so è che questo costa, ottenere la parola e l’ascolto delle mie compagne e compagni capi e cape, con rispetto e affetto, costa e molto. In terzo luogo, aggiunse il Sup, sbagli se pensi che noi zapatisti cerchiamo specchi, consensi ed applausi. Noi apprezziamo e stimiamo le differenze nelle idee, naturalmente se sono idee critiche ed articolate, e non quei pasticci che ora abbondano tra il progressismo istruito. Noi, zapatiste e zapatisti, non valutiamo un’idea sulla base del fatto che coincida oppure no con le nostre, ma se ci fa pensare, se ci provoca, soprattutto se rende conto esattamente della realtà. Queste tre persone naturalmente hanno mantenuto posizioni differenti e perfino contrarie alla nostra rispetto diverse situazioni.

Mai, non sono mai stati contro di noi. E, nonostante il viavai della moda, sono stati sempre al nostro fianco.

I loro argomenti critici e non poche volte contrari ai nostri, non ci hanno convinti, certo, ma ci hanno aiutato a comprendere che esistono posizioni diverse e pensieri differenti, e che è la realtà a decretare la ragione, non un tribunale auto-istituito nell’accademia o nella militanza. Provocare il pensiero, la discussione, il dibattito è qualcosa che noi zapatisti apprezziamo molto.

Per questo la nostra ammirazione va al pensiero anarchico. È chiaro che non siamo anarchici, ma i suoi concetti sono di quelli che provocano e animano, che fanno pensare. E credimi, il pensiero critico ortodosso, per definirlo in qualche modo, ha molto da imparare sotto questo aspetto, e non solo dal pensiero anarchico. Per farti un esempio, la critica allo Stato in quanto tale, è qualcosa presente nel pensiero anarchico già da molto, molto tempo.

Ma tornando ai nostri 3, disse il Sup a chi chiedeva una spiegazione zapatista, quando chiunque di voi riuscirà a sedersi di fronte ai miei compagni e compagne senza che questi temano di essere presi in giro, di essere giudicati, di essere condannati; quando riuscirà a parlare con loro da uguale e con rispetto; quando sarà visto come compagno e compagna e non come un giudice estraneo; quando gli mostrino affetto, come si dice qua; o quando il suo pensiero, coincidente o no col nostro, ci aiuti a scoprire il funzionamento dell’Idra; ci suggerisca nuove domande; ci inviti a percorre nuove strade; ci faccia pensare; o quando potrà spiegare o sollecitare l’analisi di un aspetto concreto della realtà; allora, e solo allora vedrà che avremo per lui le stesse poche attenzioni che possiamo offrire. Nel frattempo, disse il Supmarcos con quel senso dello humor acido che lo caratterizzava, abbandonate per favore queste gelosie etero-patriarcali, mondialiste, viperine e stupide.

Ho ricordato questo aneddoto che mi è stato riferito dal SupMarcos, perché alcuni mesi fa, quando è venuta in visita una delegazione dei familiari che lottano per la verità e la giustizia per Ayotzinapa, uno dei papà ci ha raccontato di una loro riunione con il malgoverno. Non ricordo se fosse la prima. Don Mario ci raccontò che i funzionari erano arrivati con le loro carte e la loro burocrazia, come se si stessero occupando di un cambiamento di targhe e non di un caso di sparizione forzata. I familiari erano impauriti ed arrabbiati e volevano parlare, ma il burocrate che avevano davanti diceva che potevano parlare solo quelli che erano autorizzati e li intimoriva. Don Mario racconta che con loro c’era un signore di mezza età, “di giudizio” direbbero le zapatiste e gli zapatisti. Quel signore, senza che nessuno se l’aspettasse, diede una manata sul tavolo ed alzò la voce chiedendo che fosse data la parola a chiunque familiare che volesse parlare. Don Mario ci disse, parola più, parola meno, “quel signore non aveva paura, e ce la tolse anche a noi e così cominciammo a parlare, e da allora non ci siamo più fermati”. Quell’uomo che spinto dalla rabbia si era imposto di fronte alla negligenza governativa, avrebbe potuto essere una donna, o unoa otroa, e sono sicuro che ognuno di voi avrebbe fatto la stessa cosa o qualcosa di simile in quelle circostanze, ma è toccato farlo a quel signore che si chiama Adolfo Gilly.

Compas familiari:

A questo ci riferiamo quando diciamo che c’è gente che sta con voi senza considerarvi una merce da comprare, vendere, scambiare o derubare.

E come lui, ce ne sono altre, altri, otroas, che non picchiano i pugni sul tavolo solo perché non ce l’hanno davanti, altrimenti vedreste.

Noi zapatisti abbiamo imparato anche che niente di quello che meritiamo e di cui abbiamo bisogno si ottiene con facilità né rapidamente.

Perché la speranza per quello che sta sopra è una merce. Ma per chi sta in basso è la lotta per una certezza: Otterremo ciò che meritiamo e di cui abbiamo bisogno perché ci stiamo organizzando e stiamo lottando per questo.

Il nostro destino non è la felicità. Il nostro destino è lottare, lottare sempre, ad ogni ora, in ogni momento, in tutti i luoghi. Non importa che il vento non sia a favore. Non importa che abbiamo tutto contro. Non importa che arrivi la tormenta.

Perché, lo crediate o no, i popoli originari sono specialista in tormente. Sono lì. E qui siamo. Noi ci chiamiamo zapatisti. E da oltre 30 anni paghiamo il costo di chiamarci così, in vita e da morti.

Tutto quello che abbiamo, cioè, la nostra sopravvivenza nonostante tutto e nonostante tutti quelli che stanno sopra e che si sono succeduti nei calendari e nelle geografie, non lo dobbiamo a singoli individui. Lo dobbiamo alla nostra lotta collettiva ed organizzata.

Se qualcuno chiede a chi devono gli zapatisti e le zapatiste la loro esistenza, la loro resistenza, la loro ribellione, la loro libertà, dirà la verità chi risponderà: “A NESSUNO”.

Perché è così che il collettivo annulla l’individualità che soppianta ed impone, fingendo di rappresentare e indirizzare.

Per questo vi abbiamo detto, familiari della ricerca della verità e della giustizia, che quando tutti se ne andranno e vi lasceranno soli, rimarranno i NESSUNO.

Una parte di questi NESSUNO, forse la più piccola, siamo noi zapatisti. Ma ce ne sono molti altri.

NESSUNO è chi fa girare la ruota della storia. È NESSUNO a lavorare la terra, che fa funzionare le macchine, che costruisce, che lavora, che lotta.

NESSUNO è chi sopravvive alla catastrofe.

Forse ci sbagliamo, e la strada che vi offrono potrebbe essere quella giusta. Se così credete e deciderete in questo senso, non aspettatevi da parte nostra un giudizio di condanna, né ripudio, né disprezzo. Avrete ugualmente il nostro affetto, il nostro rispetto, la nostra ammirazione.

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Familiari degli Assenti di Ayotzinapa:

È molto ciò che non possiamo fare, che non possiamo darvi.

Ma in cambio abbiamo una memoria forgiata in secoli di silenzio ed abbandono, nella solitudine, nei luoghi dell’aggredito perché di colore diverso, diversa bandiera, lingua diversa. Sempre dal sistema, il maledetto sistema che è su di noi. Il sistema che si regge a nostro costo.

E forse le memorie ostinate non riempiono le piazze, né vincono o comprano poltrone nei governi, né occupano palazzi, né bruciano automobili, né rompono vetrine, né innalzano monumenti nei musei effimeri delle reti sociali.

Le memorie testarde solo non dimenticano, e così lottano.

Le piazze e le strade si svuotano, le poltrone ed i governi finiscono, i palazzi crollano, le automobili e le vetrine si sostituiscono, i musei ammuffiscono, le reti sociali corrono da una parte all’altra a dimostrare che la futilità, come il capitalismo, può essere di massa e simultanea.

Ma arrivano momenti, compagni familiari degli assenti, in cui la memoria è l’unica cosa che si ha.

In quei momenti, sappiate che avrete anche noi zapatiste e zapatisti dell’EZLN.

Perché la tenace memoria delle zapatiste e degli zapatisti è molto altra. Perché non solo porta l’annotazione dei dolori e delle rabbie passate che disegnano sul quaderno le mappe di calendari e geografie che sopra sono stati dimenticati.

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IL MURO E LA CREPA

Come zapatisti, la nostra memoria si affaccia anche su quello che viene. Segnala date e luoghi.

Se non c’è un punto geografico per quel domani, cominciamo a mettere insieme rametti, sassolini, brandelli di stoffa e carne, ossa e fango, ed iniziamo la costruzione di un isolotto, o meglio, di una barca piantata in mezzo al domani, lì dove ora si scorge solo una tormenta.

E se nel calendario noto non c’è un’ora, un giorno, una settimana, un mese, un anno, cominciamo allora a riunire frazioni di secondi, minuti, e li facciamo passare per le crepe che apriamo nel muro della storia.

E se non c’è una crepa, allora facciamola graffiando, mordendo, scalciando, battendo con le mani e la testa, con l’intero corpo fino a procurare alla storia questa ferita.

E poi succede che qualcuno si avvicini e ci veda, veda la zapatista, lo zapatista che picchia duro contro il muro.

Chi passa lì vicino, a volte è chi crede di sapere. Si ferma un attimo, muove la testa con disapprovazione, giudica e condanna: “così non riuscirete mai ad abbattere il muro“.

Ma, a volte, molto raramente, passa l’altra, l’altro, l’otroa. Si ferma, guarda, capisce, si guarda i piedi, si guarda le mani, i pugni, le spalle, il corpo. E sceglie. “Qui va bene“, potremmo sentire se il suo silenzio si potesse udire, mentre fa un segno nel muro solido. E giù a picchiare.

Chi crede di sapere ritorna, dato che il suo percorso è sempre di andata e ritorno, come per passare in rassegna i suoi sudditi. Vede l’altro impegnato nello stesso ostinato compito. Valuta che ce n’è abbastanza affinché lo ascoltino, lo applaudano, lo acclamino, lo votino, lo seguano. Parla molto, dice poco: “non riuscirete mai ad abbattere quel muro, è indistruttibile, è eterno, è interminabile”. Quando ritiene sia opportuno, conclude: “quello che dovreste fare, è vedere come gestire il muro, cambiare la guardia, cercare di farlo un poco giusto, educato. Io vi prometto di ammorbidirlo. In ogni modo, staremo sempre da questa parte, Se continuate così, state solo facendo il gioco all’attuale amministrazione, del governo, dello Stato, di quel che è, non importa, perché il muro è il muro e – lo capite? starà sempre lì”.

Poi si avvicina qualcun altro. Osserva in silenzio e dice: “invece di impegnarvi tanto contro il muro, dovreste capire che il cambiamento sta dentro di ognuno, si deve solo pensare in modo positivo, ma guarda il caso, ho proprio qui questa religione, moda, filosofia, alibi che vi servirà. Non importa se è vecchia o nuova. Venite, seguitemi”.

Ma quelli che sono tenaci e picchiano contro il muro sono già meglio organizzati, diventano collettivi, squadre, si rimpiazzano, si alternano. Ci sono squadre grasse, deboli, alte e piccole; là ci sono quelli sporchi, brutti, cattivi e volgari; ce ne sono con testoni, piedoni, con le mani incallite dal lavoro, ce ne sono che, sia donne, sia uomini, sia otroas, danno una mano, il corpo, la vita.

A darci dentro con quello che hanno.

Chi con un libro, un pennello, una chitarra, un giradischi, un verso, una zappa, un martello, una bacchetta magica, una matita. C’è perfino chi colpisce il muro con un “pas de chat“. E succede quello che succede, perché il ballo è contagioso. E qualcuno porta una marimba, una tastiera o un pallone e poi i turni… beh, potete immaginare.

Naturalmente il muro non ne vuol sapere. Segue impavido, potente, immutabile, sordo, cieco.

Ed arrivano i mezzi di comunicazione prezzolati: scattano foto, video, si intervistano tra loro, consultano esperti. L’esperta tal dei tali, la cui unica virtù è essere di un altro paese, dichiara con sguardo trascendente che la composizione molecolare della materia che conferisce al muro la sua corporeità è tale che nemmeno una bomba atomica può abbatterlo e che, pertanto, quello che fa lo zapatismo è assolutamente controproducente e finisce per essere complice del muro stesso (fuori onda l’esperta chiede all’intervistatore di citare il suo unico libro, sperando che così si riesca a vendere).

Segue la sfilata di esperti. La conclusione è unanime: è uno sforzo inutile, così non abbatteranno mai il muro. All’improvviso, i media corrono ad intervistare chi offre un’amministrazione “più umana” del muro. Il groviglio di telecamere e microfoni produce un effetto curioso: chi non ha argomenti né seguaci, sembra averne molti sia degli uni che degli altri. Grande e commovente discorso. C’è la notizia. I mezzi di comunicazione prezzolati se ne vanno, perché nessuno prestava attenzione a quello che diceva il candidato, il leader o il saggio, ma ai loro telefonini che, ovviamente, sono almeno più intelligenti dell’intervistato o intervistata, informano che è scoppiato un terremoto, il funzionario tal dei tali è stato scoperto corrotto, james bond è arrivato nello Zócalo, e la partita del secolo ha attirato milioni di persone, forse perché pensavano che era tra sfruttati e sfruttatori.

Nessuno chiede niente alla zapatista, allo zapatista. Se l’avessero fatto, probabilmente non avrebbero risposto. O forse avrebbero rivelato la ragione del loro assurdo impegno: “non voglio abbattere il muro, basta fare una crepa”.

Non è stato dai libri già scritti, ma da quelli ancora non scritti ma che già sono stati letti da generazioni che le zapatiste e gli zapatisti hanno imparato che se smetti di graffiare la crepa, questa poi si chiude. Il muro si sistema da solo. Per questo devono continuare senza fermarsi. Non solo per allargare la crepa, soprattutto perché non si chiuda.

La zapatista, lo zapatista, inoltre sa che il muro muta aspetto. A volte è come un grande specchio che riproduce l’immagine di distruzione e morte, come se non fosse possibile altro. A volte il muro si dipinge gradevolmente e sulla sua superficie appare un sereno paesaggio. Altre volte è duro e grigio, come per convincere della sua impenetrabile solidità. Il più delle volte il muro è una grande pensilina dove si ripete “P-R-O-G-R-E-S-S-O”.

Ma lo zapatista, la zapatista sa che è una bugia. Sa che il muro non è sempre stato lì. Sa come è nato. Sa come funziona. Conosce i suoi inganni. E sa anche come distruggerlo.

Non gli preoccupa la presunta onnipotenza ed eternità del muro. Sa che entrambe sono false.

Ma ora la cosa importante è la crepa, che non si chiuda, che si allarghi.

Perché anche lo zapatista, la zapatista, sa che cosa c’è dall’altra parte del muro.

Se glielo domandassero, risponderebbe “niente“, ma sorriderebbe come se avesse detto “tutto“.

Durante uno dei cambi, los Tercios Compas, che non sono media, né liberi, né autonomi, né alternativi, né come si chiamino, ma sono compas, interrogano con severità chi sta picchiando sul muro.

Si dice che dall’altra parte non ci sia niente, perché volete fare una crepa nel muro?”.

Per guardare”, risponde la zapatista, lo zapatista, senza smettere di graffiare.

Perché vuoi guardare di là?”, insistono los Tercios Compas che, siccome tutti i media sono andati via, sono gli unici a restare. E per ratificarlo, sulla maglietta portano scritto “Quando i media se ne vanno, rimangono los tercios”. Ovviamente sono di troppo perché sono gli unici che fanno domande invece di battere sul muro con la telecamera o col registratore o con finalmente-so-a-che-diavolo-serve-questo-dannato-treppiede.

Los Tercios chiedono di nuovo, ci mancava altro. E gli è entrato solo in testa, perché il registratore già se n’è andato, della telecamera meglio non parlare, e il treppiede è diventato centopezzi. Quindi ripetono: “E perché vuoi guardare?”.

Per immaginare tutto quello che si potrà fare domani“, risponde lo zapatista, la zapatista.

Quando la zapatista, lo zapatista ha detto “domani” poteva benissimo riferirsi ad un calendario perso in un futuro a venire. Potrebbero essere millenni, secoli, decenni, lustri, anni, mesi, settimane, giorni… o già domani? dopodomani? domani domani? Ti piace? Non rompere che non mi sono nemmeno pettinato!

Ma non tutti, tutte, sono passati alla larga.

Non tutte, tutti, sono passati ed hanno giudicato assolvendo o condannando.

Sono stati in pochi, molto pochi, così pochi come nemmeno le dita di una mano.

Stavano lì, in silenzio, a guardare.

E sono ancora lì.

Solo di quando in quando proferiscono un “mmm” molto simile a quello dei più antichi abitanti delle nostre comunità.

Contrariamente a quanto si possa pensare, il “mmm” non significa disinteresse o indifferenza. Nemmeno disapprovazione o accordo. È piuttosto un “sono qui, ti ascolto, ti guardo, continua”.

Sono avanti con gli anni questi uomini e donne, “di giudizio” dicono i compas quando si riferiscono alle persone mature, ad indicare che i calendari sfogliati nella lotta conferiscono ragione, saggezza e discrezione.

Tra quei pochi, ce n’era uno, c’è uno. A volte quell’uno si unisce alle partite di calcio che il comando anti muro organizza per continuare a picchiare anche se con un pallone, e poi toccherà alla tastiera della marimba.

Come d’abitudine in quelle partite, nessuno chiede i nomi. Uno o una o unoa non si chiama juan, o juana o krishna, no. È la tua posizione a darti il nome. “Senti portiere! Passala terzino! Vai difensore! Dai attaccante!“, si sente tra il frastuono sul campo, con le mucche indignate perché l’andirivieni delle squadre gli rovina il pascolo.

Ai bordi del campo una ragazzina irrequieta tenta di infilarsi un paio di stivali di gomma che, si vede, le stanno grandi.

E tu, come ti chiami?“, chiede l’uomo alla bambina.

Io, difensore zapatista”, dice la ragazzina e lancia uno sguardo tipo “vattene se non vuoi morire”.

L’uomo sorride. Non ride apertamente. Sorride soltanto.

La ragazzina, è chiaro, sta reclutando elementi per sfidare il perdente.

Sì, perché qua, quando una squadra vince, va a picchiare sul muro. E la squadra che perde continua a giocare, “fino a che ha imparato“, dicono.

La ragazzina ha già una parte della squadra e se ne vanta con l’uomo.

Quello è l’attaccante”, dice indicando un cagnolino di colore indefinito per le croste di fango e che muove la coda entusiasta. “Se si mette a correre, arriva fino là”, e la bambina indica l’orizzonte nascosto dal muro.

Basta che non dimentichi il pallone“, dice quasi per scusarsi, “perché corre dall’altra parte; la palla di là ed il cagnolino attaccante di là”.

Quello è portiere o si dice anche portinaio, credo”, dice ora indicando un vecchio cavallo.

Il mio compito”, spiega la ragazzina, “è non far passare il pallone, perché lo guardi, è orbo, gli manca l’occhio destro e guarda solo in basso e a sinistra e se il tiro arriva da destra, niente da fare”.

“Beh, ora qui non c’è tutta la squadra. Manca il gatto… o forse è un cane. È molto strano quel-come-si-chiama, è come un cane ma miagola, è come un gatto ma abbaia. Ho cercato nel libro di erboristeria per vedere come si chiama un animale così. Non l’ho trovato. Pedrito ha detto che il Sup ha detto che si chiama gatto-cane.

Ma non bisogna credere a tutto quello che dice Pedrito perché…” la ragazzina si guarda intorno per assicurarsi che non ci sia nessuno che possa sentire e dice al signore in gran segreto “Pedrito tifa per l’América”, poi, con maggior confidenza: “Suo papà tifa las Chivas e si arrabbia. Così litigano e sua mamma li prende tutti e due a ciabattate così si acquietano, ma il Pedrito si mette a parlare della libertà secondo las zapatillas [le pantofole] e non so che altro”.

Sarà, secondo gli zapatisti”, corregge il signore. La ragazzina lo ignora, ben gli sta al Pedrito, la deve pagare.

Bene, tu-come-ti-chiami, pensi che il gatto-cane sappia giocare?”.

Sa giocare”, risponde a sé stessa.

Siccome il nemico non capisce se è un cane o un gatto, corre di qua e di là e allora, zac! goal! L’altro giorno stavamo quasi vincendo quando il pallone è finito nella montagna ed è arrivata l’ora del pozol e quindi la partita è stata sospesa. Te lo dico, quel gatto-cane come-si-chiami, sa giocare. Quel gatto-cane ha l’occhio giallo”.

L’uomo è rimasto di stucco. La ragazzina ha descritto un colore con le sue manine. L’uomo ha viaggiato per mari e monti, ma non aveva mai incontrato qualcuno che descrivesse un colore con un gesto. Ma la bambina non sta impartendo corsi di fenomenologia del colore, e continua a parlare.

Adesso però il gatto-cane non c’è”, dice dispiaciuta, “credo che sia andato a farsi prete perché dicono che è andato in un seminario contro il fottuto capitalismo. Tu sai cos’è il fottuto capitalismo? Bene, ti faccio un po’ di lezione di politica. Allora, il dannato sistema non ti morde solo da un lato, ma ti frega da tutte le parti. Il sistema morde tutto, ingoia tutto e si ingrassa. Cioè, per farmi capire meglio, il maledetto capitalismo è senza fondo. Per questo ho detto al gatto-cane di andare a farsi prete in un seminario. Ma non obbedisce. Lei crede che un gatto-cane può farsi prete? No, vero? Nemmeno per quanti goal faccia, e neanche per l’occhio giallo. Tu permetteresti che un gatto-cane, anche se con un occhio giallo, celebrasse un matrimonio? No, vero? Per questo quando io mi sposerò con mio marito non voglio preti, solo in municipio autonomo e poi a ballare, e se no, niente. Solo ufficialmente, perché poi non si sparli in giro. Solo io ed il mio come-si-chiami, e poi devi tenere a bada il marito, perché ‘se fai volare i corvi ti caveranno gli occhi’. Così dice mia nonna che è ormai vecchia ed ha combattuto il primo gennaio 1994. Non sai cosa è successo il primo di gennaio 1994? Allora poi te lo dico con una canzone che racconta tutto. Adesso no, perché tra poco ci tocca giocare e bisogna essere pronti. Ma per non lasciarti in sospeso, ti dico che quel giorno abbiamo detto basta ai maledetti malgoverni, basta con le loro stronzate. Mia nonna dice che è stato grazie alle donne, che se fosse stato per quegli stronzi dei mariti saremmo ancora qui a penare, come quelli che stanno con i partiti. Non so ancora chi sarà mio marito, perché gli uomini sono dei testoni, sapessi. E poi sono ancora una bambina. Ma so che più avanti gli uomini mi guarderanno, ma io sono seria, niente sì e no, niente non so, io so il fatto mio e se quello stronzo di marito vuole solo perdere tempo, allora io sono difensore Zapatista e gli dò uno scappellotto e lo mando via, perché mi deve rispettare come donna zapatista. E se non lo capisce subito, allora giù a sberle fino a che capisce la lotta di noi donne”.

L’uomo ha seguito attentamente tutta la pappardella della ragazzina. Non così il cagnolino con le croste di fango che gira a zonzo. Né il cavallo orbo che mastica con parsimonia una borsa di plastica eredità degli alunni della escuelita. E dopo tutto questo, l’uomo non ride, è riuscito solo a sbattere le palpebre allo stesso ritmo della sua sorpresa.

E saremo sempre di più”, sostiene la ragazzina, “sì, saremo sempre di più”.

L’uomo tarda un po’ a capire che ora la ragazzina si riferisce alla sua squadra. Oppure no?

Ma adesso la ragazzina studia l’uomo con sguardo da talent-scout, dopo vari “mmm“, lo interroga “E tu, come ti chiami?“.

Io?” dice l’uomo sapendo che la ragazzina non sta chiedendo l’albero genealogico, né lo stemma araldico, ma una posizione.

Dopo aver percorso mentalmente varie opzioni, l’uomo risponde: “io mi chiamo raccattapalle“. La ragazzina valuta in silenzio l’utilità di questa posizione.

Dopo averci pensato un po’, dice all’uomo, non per consolarlo, ma perché si renda conto di quanto è importante:

Raccattapalle, nientemeno. Se il pallone va di là per il bosco, scordatelo, nessuno vuole andarci perché è pieno di spine, cespugli, ragni, perfino bisce. Se poi il pallone va verso il ruscello la corrente se lo porta via, allora bisogna correre per prenderlo, il pallone. Quindi, raccogliere i palloni conta, bene dunque. Senza raccattapalle non può esserci partita. E se non c’è partita, non c’è festa, e se non c’è festa non c’è ballo, e se non c’è ballo mi pettino i capelli con i miei nastri colorati per niente”, dice la ragazzina e dal suo zainetto tira fuori un mucchio di nastri colorati.

Raccattapalle, nientemeno”, ripete la bambina all’uomo mentre lo abbraccia, non per consolarlo, ma perché capisca che tutto quello che vale la pena fare, si fa in squadra, collettivamente, ognuno ha il suo compito.

Lo farei io, ma ho molta paura dei ragni e dei serpenti. L’altra notte ho perfino sognato di incontrare una dannata biscia lunghissima nel prato”, ed allarga le braccia fino a dove riesce.

L’uomo sorride.

La partita è finita, la ragazzina non ha completato la squadra per la sfida e si è addormentata sul prato.

L’uomo si alza e la copre con la sua giacca perché il pomeriggio si oscura e già la frescura allevia la terra. Forse perfino pioverà.

Un miliziano sta tornando con i documenti che aveva chiesto la Giunta di Buon Governo. L’uomo aspetta il suo turno.

Finalmente dicono il suo nome e riprende il suo passaporto che sulla copertina riporta l’incisione “Repubblica Orientale dell’Uruguay”. Al suo interno c’è la foto di un uomo con la faccia da “Che diavolo ci faccio qui?” e di fianco si legge “Hughes Galeano, Eduardo Germán María”.

Senta”, gli chiede il miliziano, “si è messo il nome di battaglia Galeano per il compa sergente Galeano?”.

Sì, credo di sì”, risponde l’uomo mentre regge dubbioso il passaporto.

Ah!”, dice il miliziano, “l’avevo immaginato”.

Dove si trova il suo paese?”.

L’uomo guarda il miliziano zapatista, guarda il muro, guarda le persone che scavano la crepa, guarda i bambini che giocano e ballano, guarda la ragazzina che vuole parlare col cagnolino, con il cavallo orbo e con un animaletto che potrebbe essere un gatto, o un cane, e dice rassegnato: “anche qui”.

Ah” dice il miliziano, “e lei che cosa fa?”.

Io?”, cerca di rispondere mentre raccoglie il suo zaino.

E all’improvviso, come se avesse appena capito tutto, risponde sorridendo “Io faccio il raccattapalle”.

L’uomo è già lontano e non riesce a sentire il miliziano zapatista che mormora con ammirazione: “Ah, raccattapalle, nientemeno”.

Raggiunta la sua formazione, il miliziano dice ad un altro: “Ehi Galeano, oggi ho conosciuto uno che si è messo il tuo nome”.

Il sergente Galeano sorride e risponde “ma va!”.

Sì,”, dice il miliziano, “sennò da dove l’avrebbe preso questo nome quel signore?”.

Ah”, dice il sergente di milizia e maestro della escuelita Galeano, “e che cosa fa quello?”, domanda.

Il raccattapalle”, dice il miliziano e corre a prendersi il suo pozol.

Il sergente di milizia Galeano raccoglie il suo quaderno di appunti e lo mette nello zaino mentre dice tra i denti: “Raccattapalle, come se fosse facile. Non è da tutti fare il raccattapalle. Per fare il raccattapalle si deve avere molto cuore, come essere zapatista, e per essere zapatista non è da tutti, anche se qualcuno poi non sa di essere zapatista… fino a che non lo scopre”.

-*-

Forse non mi crederete, ma questo è successo solo pochi giorni fa, alcune settimane, alcuni mesi, alcuni anni, alcuni secoli fa, quando il sole di aprile schiaffeggiava la terra non per offenderla, ma perché si svegliasse.

-*-

Sorelle e fratelli familiari degli Assenti di Ayotzinapa:

La vostra lotta è già una crepa nel muro del sistema. Non lasciate che Ayotzinapa si richiuda. Attraverso questa crepa respirano non solo i vostri figli, ma anche le migliaia di desaparecidas e desaparecidos nel mondo.

Affinché quella crepa non si chiuda, affinché quella crepa diventi ancora più profonda e si allarghi, avrete in noi, zapatiste e zapatisti, una lotta comune: la lotta che trasformi il dolore in rabbia, la rabbia in ribellione, e la ribellione nel domani.

SupGaleano.

Messico, 3 maggio 2015

Testo originale

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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Galeano

Maestro Zapatista Galeano: Appunti di una vita

2 maggio 2015

Compagni e compagne dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale:

Compagnei, compagne, compagni della Sexta:

Persone che ci visitano:

Mi tocca ora parlare del compagno maestro zapatista Galeano.

Parlarlo perché nella parola viva. Parlarvene perché chissà che così capiate la nostra rabbia.

E diciamo “maestro zapatista Galeano” perché tale era il posto o la posizione o il lavoro che aveva il compagno quando fu assassinato.

Per noi zapatisti, il compagno maestro Galeano sintetizza tutta una generazione anonima nello zapatismo. Anonima di fuori, ma protagonista fondamentale nella sollevazione e in questi più di vent’anni di ribellione e resistenza.

La generazione che, essendo giovane, fu all’interno delle cosiddette organizzazioni sociali e conobbe la corruzione e falsità che nutre i suoi dirigenti, si preparò nella clandestinità, si alzò in armi contro il supremo governo, resistette al nostro fianco a tradimenti e persecuzioni, e orientò la resistenza della generazione che oggi assume gli incarichi nella comunità indigene.

La morte violenta, assurda, implacabile, crudele, ingiusta lo raggiunse al momento dell’incarico di maestro.

Un po’ più tardi e lo avrebbe raggiunto come autorità autonoma.

Un po’ di tempo prima lo avrebbe toccato come orientatore.

Prima ancora, la morte avrebbe ucciso il miliziano.

Molte lune prima il morto sarebbe stato un giovane che sapeva il sufficiente e necessario sul sistema, e cercava, come molte, molti, moltei  ancora, il modo migliore di sfidarlo.

Un anno fa un trio di giornalisti prezzolati, intruppati  dal governo di Ario Velasco e dalla sua putrida corte, imbastì una menzogna circa il suo assassinio.

Chi fece le foto lacrimevoli delle presunte botte, bendate con cura, degli assassini, come premio andò a passeggio a New York per altre foto mercenarie.

Chi si è bevuto senza rimedio la merda governativa e l’ha diffusa in primo piano, ora trova eco in chi rimastica la notizia e presenta il suo assassinio come prodotto di uno scontro.

Chi tacque complice per convenienza finanziaria o calcolo politico continua a fingere di fare giornalismo e non pubblicità mal dissimulata.

Non molti giorni prima di questa convocazione, abbiamo letto sulla stampa prezzolata che l’ “eroica”, “abnegata”, “professionale” e “immacolata” polizia del Distretto Federale,  in Messico,  ha avuto uno “scontro”,  così dicevano, con un gruppo di persone non vedenti. I malvagi ciechi si sono scatenati con le loro “armi”, i loro bastoni, contro i poveri poliziotti che non facevano che compiere il loro dovere e che hanno dovuto rispondere  a colpi di manganello e scudo per far vedere, ai senza vista, che la legge è legge per quelli di sotto, e per quelli di sopra non lo è.

Inoltre, poco tempo fa, in occasione di quelle speculazioni di stagione che sono solite sferzare non soltanto la corporazione giornalistica, ma anche le reti sociali, quando parlare di qualcosa è occultare che non si ha niente di importante da dire o su cui informare, una giornalista, di quelle che ostentano “professionalità” e “obiettività”, scriveva sulla morte del fratello di lotta e raccoglitore di piogge, Eduardo Galeano,  e supponeva un falso legame tra il Galeano scrittore e il Galeano maestro, miliziano e zapatista.

Riferendosi al compagno zapatista Galeano, la giornalista prezzolata insisteva sul fatto che fosse morto in uno scontro e rimandava alle foto del suo collega turista a New York.

Segnalo che è una giornalista non per misoginia, ma per quanto segue: come è già comune nei mezzi di comunicazione, tanto comune che a volte neanche si arriva al trafiletto, gli omicidi di donne sono ugualmente mistificati in modo che siano “morte”, e non “assassinate”.

Prendiamo un caso qualsiasi, un’abitazione o una strada qualsiasi, una geografia qualsiasi, un calendario qualsiasi: c’è una discussione, una lite, o magari neanche questo, soltanto perché è così, perché lui comanda, l’uomo aggredisce la donna, la donna si difende e riesce a graffiare l’uomo, l’uomo la uccide a botte, a pugnalate, a spari, a disprezzo. L’uomo è accudito e i graffi curati e bendati.

Su questo fatto, la giornalista, “professionale e obiettiva” come dice di essere, produrrà il seguente trafiletto: “una donna è morta in una lite con il suo compagno, l’uomo presenta ferite prodotto della lite. Si allegano foto del povero uomo ferito, dopo essere stato soccorso dai servizi medici. La famiglia della donna che lo ha aggredito ha rifiutato che il suo corpo fosse fotografato”. Fine del trafiletto e ritirare i soldi.

Così sono i trafiletti giornalistici di oggi: ciechi armati di bastoni si scontrano con poliziotti armati di scudi, manganelli e gas lacrimogeni. Donne armate di unghie si scontrano con uomini armati di coltelli, bastoni, pistole, peni. Questi sono gli “scontri” di cui si dà conto in alcuni media prezzolati, sebbene certi si travestano da media liberi, come alcuni che così si sono registrati, pensando che non li conoscessimo e che non li avremmo fatti passare se fossero stati prezzolati. Invece li conosciamo e qui stanno dando copertura a questo evento.

Il compagno maestro zapatista Galeano non è morto in uno scontro. È stato sequestrato, torturato, dissanguato, preso a bastonate, a colpi di machete, assassinato e giustiziato. I suoi aggressori avevano armi da fuoco, lui no. I suoi aggressori erano vari e varie, lui era solo.

La giornalista “professionale e obiettiva” reclamerà le foto e l’autopsia, e non avrà né le une né l’altra. Perché se lei non si rispetta e non rispetta il proprio lavoro, e perciò scrive quello che scrive senza che nessuno lo metta in discussione e per di più guadagnando per questo; noi zapatisti invece rispettiamo i nostri morti.

Più di 20 anni fa, nella battaglia di Ocosingo, che durò quattro giorni, dei combattenti zapatisti furono giustiziati dai federali dopo essere stati feriti in combattimento. Le armi da fuoco degli zapatisti furono soppiantate con bastoni. La stampa fu allora chiamata a guadagnarsi la paga sotto la vigilanza delle truppe governative. Si tessé così la fandonia, ripetuta fino al vomito fino ai nostri giorni, che le truppe dell’EZLN fossero venute allo scoperto con armi di legno ad affrontare il malgoverno. Chiaro, il piccolo problema è che qualcuno fece le foto di quando gli zapatisti caduti non avevano niente accanto a sé. E poi le oppose a quelle presentate dalla stampa governativa. Venne pagato molto denaro perché le foto che ritraevano la realtà non fossero diffuse.

Ora, nei tempi moderni di crisi economica dei mezzi di comunicazione prezzolata, un’arte, la fotografia giornalistica, si è convertita in una mercanzia mal pagata che a volte riesce solo a provocare nausea.

Non dettaglierò tutte le ferite sofferte dal compagno Galeano, né vi presenterò foto del suo cadavere martoriato. Non passerò in rassegna il cinismo narrativo col quale i suoi assassini hanno narrato nei dettagli il crimine come chi racconta un’impresa.

Dovrà passare del tempo. Le confessioni degli aguzzini saranno conosciute. Si saprà con esattezza delle torture, dei festeggiamenti che provocava loro ogni goccia di sangue, l’ubriacatura della morte crudele, l’euforia successiva, la cruda morale etilica dei giorni seguenti, la colpa che li perseguitava, la giustizia che li raggiungeva.

Il compagno maestro zapatista Galeano sarà ricordato dalle comunità zapatiste, senza strepito, senza primi piani. La sua vita, e non la sua morte, sarà allegria nella nostra lotta di generazioni. Centinaia di bambini  tojolabales, tzeltales, tzotziles, choles, zoques, mames e meticci porteranno il suo nome. E non mancherà la bambina che si chiami “Galeana”.

I tre membri della decadente nobiltà mediatica, che chiamarono alla guerra con la diffusione di una menzogna, che tacquero con codardia, e la giornalista “professionale e obiettiva” continueranno a essere mediocri, mediocri vivranno, mediocri moriranno, e la storia seguirà il suo corso senza che nessuno ci faccia caso.

E solo per terminare una buona volta con le stupide supposizioni, il compagno maestro zapatista Galeano non prende il suo nome dall’instancabile raccoglitore della parola di sotto che fu Eduardo Galeano. Quel legame è stato un’invenzione dei media.

Sebbene suoni assurdo, il compagno prende il suo nome di lotta dall’insurgente Hermenegildo Galeana, sicuramente originario di Tecpan, nell’attuale stato di Guerrero, che arrivò a essere luogotenente del capo indipendentista José María Morelos y Pavón. Hermenegildo Galeana stava con le truppe insorte quando, il 2 maggio 1812, ruppero l’assedio che l’esercito realista manteneva su Cuautla, sbaragliando al suo passaggio le truppe del generale Félix María Calleja. La resistenza insorgente scrisse allora una pagina brillante nella storia militare.

È frequente nei villaggi zapatisti che uomini e donne applichino i generi nel loro particolarissimo modo di intendere. Così, per esempio, la mappa è il mappa. Ciò che fece il compagno fu maschilizzare il cognome Galeana e convertirlo in Galeano. Questo accadde anni prima che uscissimo alla luce pubblica.

-*-

Non dirò molto altro sul compagno maestro zapatista Galeano.

Lo faranno meglio e più diffusamente i suoi familiari e compagni e compagne che oggi ci onorano con la loro presenza, così come lo farà il compagno Subcomandante Insurgente Moisés.

A me fa ancora molto male la sua assenza.

Continuo ancora a non potermi spiegare la crudeltà con la quale si accanirono contro di lui volendo ucciderlo con le armi e con i trafiletti giornalistici.

Continuo a non capire il silenzio complice e il distacco di chi è stato sostenuto e aiutato dalla sua generosità, e ha poi voltato le spalle alla sua morte dopo aver usato la sua vita.

Perciò credo che, posto che è la sua vita ciò che innalziamo, è meglio che sia il compagno Galeano a parlarvi.

I seguenti frammenti che vi leggerò provengono dal quaderno di appunti del compagno Galeano. Il quaderno, con questi e altri scritti, venne consegnato al Comando Generale dell’EZLN per la famiglia del compagno che di cui oggi sentiamo la mancanza.

Si suppone che la scrittura sia iniziata nell’anno 2005 e che gli ultimi scritti siano del 2012.

Ecco:

“Per tutti quelli che leggerano questa brillante storia e perché un giorno i miei figli e i miei compagni non dicano ‘è svanito’.

Scrivo delle mie azioni e dei miei passi nella lotta, ma sono anche critico perché conoscerete anche i miei errori, per non caderci a vostra volta. Ma questo non significa che io non sia un compagno.

Va bene, inizierò dalla mia vita giovane e civile.

Quando avevo circa 15 anni partecipavo sempre ai lavori e alle azioni di un’organizzazione chiamata “Unión de Ejidos de la Selva”.

Sapevo già di essere sfruttato perché il peso della povertà che ricadeva sulle mie spalle bruciate bastava a farmi rendere conto che lo sfruttamento esisteva ancoro, e che un giorno sarebbe apparso qualcuno che ci avrebbe fatto sollevare e ci avrebbe mostrato il cammino, guidato.

Ebbene, como vi ho detto all’inizio ho partecipato a un giro che facemmo (numero illeggibile) indigeni per cercare di scambiare idee su lavori produttivi. Così venne chiamato quel programma secondo le nostre guide di quell’Unione, nella quale noi militavamo.

Ebbene, a me servì ad apprendere molte cose. In primo luogo mi resi conto di come tentarono di ingannarci le suddette guide Juárez y Jaime Valencia, tra gli altri. Andammo verso Oaxaca, in un luogo in cui esistono compagni indigeni come noi, e che avevano un’organizzazione chiamata X diretta da un sacerdote che stava con loro. Ma sono anche nella stessa nostra situazione di oppressione.

Ebbene, per farla breve percorremmo varie città del paese. Fu lì che mi resi conto di quanta gente chieda l’elemosina per le strade, senza tetto e senza avere da mangiare. In me nacque davvero il moto a che il nostro obiettivo fosse di scambiare idee per cercare di vedere come esigere una vita degna per tutti noi che viviamo in condizioni di povertà umiliante, per colpa dei governi.

Mi resi anche conto di qualcosa che mi disgustò e non tornai più a dipendere da quegli uomini bugiardi e mestieranti che fingono di stare con quelli di sotto. Loro facevano tutti questi movimenti per arricchirsi a spese nostre, noi stupidi che credevamo alle loro subdole e false idee.

Perché dico questo? Lo vedrete. Risulta che loro promuovevano programmi governativi per ingannarci, per poi ingannare a nostra volta la gente delle nostre comunità. In quel giro, il governo fornì un appoggio di 7 milioni di pesos, che a quei tempi erano un mucchio di soldi perché si parlava di migliaia e non come ora che si parla di pesos. Allora ci dissero che il governo aveva dato 7 mila milioni, ma che non ci avrebbero dato tutto, giusto 3 milioni e il resto sarebbe servito per i giri successivi, e non sapemmo mai che fine avesse fatto quel denaro.

Chiaro, non ci informarono, ma quei soldi rimasero alle suddette guide e, mentre noi mangiavamo totopo* (*tortilla di mais salato cotta a legna, N.d.T.) con un pezzetto di formaggio, là a Oaxaca, e dormivamo nel corridoio della presidenza di Ixtepec, Oaxaca, dove stavano loro? Ecco dove stavano: dormivano in buoni hotel e mangiavano in buoni ristoranti. E così ritornammo in Chiapas.

Arrivammo a Puerto Arista. Lì vennero comprate casse di birra per finire di molare. Quando finì il disco chiesi i 3 milioni che avevano i summenzionati per le spese. Ci dissero che avremmo mangiato biscotti e bibite, perché ormai non c’erano soldi. Ma io sapevo che non era vero, che i rappresentanti nel fare i conti ci facevano credere che tutto era terminato, ma la realtà era che essi avevano fatto un accordo con quelle fottute guide. E io dissi loro che controllassero i conti per vedere se davvero erano finiti i soldi. Ma la mia proposta non venne accettata e ciò che accadde è che mi dissero che il giro finiva a Morozintla. Mi diedero 40mila pesos (di allora) per tornarmene a casa, perché avevano già fatto i conti che erano quanto avrei speso per i passaggi fino a Margaritas e poi per La Realidad, che io vedessi come fare. Fu dura, 40mila pesos di quelli vecchi, che Salinas convertì ai 40 pesos attuali. E così ritornai al mio villaggio insieme triste e incazzato.

Fu nel 1989, quando conobbi un uomo che si faceva passare come un umile tuttofare venditore di pappagalli. Lui ed io eravamo quasi amici, ma sebbene già ci conoscessimo, non mi aveva mai detto chi era e cosa realmente volesse e facesse. Molto spesso ci incontravamo nel Cerro Quemado, parlavamo e io notavo che portava una sacca dipinta, come diciamo noi, e avvolti in essa i suoi strumenti di lavoro. Questo era quel che mi diceva il mio amico. Quanta gente come me sapeva la storia del mio amico senza sapere la verità! Presto si sarebbe visto quante menzogne dicesse il mio amico a quei tempi. Menzogne in nome della verità, in nome della Realidad, menzogne veritiere. Era il mio compare, e io ero così fesso da non capire quel che stava accadendo.

Finché un giorno incontrai nuovamente il mio amico, ma questa volta non era vestito da un umile tuttofare, né caricava la sacca dipinta e nemmeno gabbie di pappagalli.

Cosa portava allora? Lo vedrete: ecco il mio amico, il mio compare, vestito di color nero e caffè, con lo zaino e le scarpe, è un’arma in spalla. A quanto pare il mio amico era un coraggioso guerrigliero e soldato del popolo. Restai sorpreso, e rientrai pieno di tristezza e ancora senza capire cosa accadesse.

Questo fu il mio errore, non capire in fretta quel che voleva quell’uomo.

Fu allora che egli capì che io lo avevo ormai scoperto, perciò mi convocarono nella casa di sicurezza insieme ai miei genitori e ai miei fratelli. Tuttavia mio padre allora non volle entrare, e nemmeno i miei fratelli, ma io non avevo più niente da fare e da dire. Fu così che entrai pienamente nell’organizzazione. Mi portarono ad addestrarmi. A quel punto quasi tutti ormai erano zapatisti. Ce ne andammo ad addestrarci. Poi mi assegnarono il grado di caporale finché entrarono anche tutti i miei familiari.

Finché arrivò il giorno in cui seppi chi era e come si chiamava il mio menzognero e veritiero amico: era l’allora Capitano Insurgente Z. Era l’uomo che dovette percorrere tutti i villaggi indigeni del Chiapas, tutte le sue montagne, fiumi e gole. Camminava la notte come guerrigliero; di giorno come il più umile cercatore di lavoro, seminando passo dopo passo il seme della libertà, finché questo crebbe e diede frutti.

Quanto dovette soffrire, ma che buoni frutti raccolse e portò a casa! Si guadagnò con orgoglio il grado di Maggiore per la sua intelligenza, preparazione e coraggio nell’azione.

Ma non c’era solo lui, c’era un altro uomo grande e coraggioso e indimenticabile rivoluzionario nella storia della nostra clandestinità, il chiamato e amato Subcomandante Insurgente Pedro, “lo Zio”, chiamato così, con rispetto, da tutti i compagni della nostra lotta. Amato da tutti perché era un vero esempio, capace di condividere la sua sapienza rivoluzionaria. Fu un vero maestro di disciplina e compañerismo.

Esemplare perché diceva che sarebbe uscito al fronte nei combattimenti, e se fosse stato necessario morire per il nostro popolo, lo avrebbe fatto.

Il giorno 28 dicembre (dell’anno 1993) il compagno Sup. I. Pedro mi disse: va’ a Margaritas a comprare benzina e delle batterie che ci mancano, dì al compagno Alfredo che porti l’ “Amico”, ossia il furgone della comunità, ma non dirgli che sta per iniziare la guerra. E io andai. Con l’autista dissimulammo la faccenda con la scusa del mais sgranato, perché bisognava andare in emergenza e perché così non sospettasse ciò che si sarebbe visto. Lui già sapeva qualcosa sul fatto che la guerra sarebbe iniziata, ma soltanto per sentito dire, e mi faceva domande, ma io non gli dissi nulla, questo era l’ordine, e lo rispettai sebbene fosse un mio compare. Non informai di quel che sarebbe successo nemmeno i miei genitori, perché loro vivevano a Margaritas. Viaggiamo tutta la notte e tutto il giorno.

Il 29 (di dicembre 1993) tornammo nuovamente a La Realidad verso le quattro del pomeriggio. Io avevo portato a termine la mia prima missione. Feci rapporto e lui mi disse: “preparati perché stiamo per combattere, in mezz’ora faremo arrendere i poliziotti di Margaritas”. Fu una pagina scritta per sempre. E così le altre imprese del Sup C. I. Pedro.

E rimane nella storia il giorno 30 (di dicembre 1993), partenza per Margaritas. Ci furono molti inconvenienti per strada. Fu incredibile l’avanzare delle nostre truppe. Senza che il nemico se ne rendesse conto, avanzavamo come fantasmi in mezzo alla notte oscura, illuminata soltanto dai fari dei furgoni e degli autobus zapatisti.

Prima di Las Margaritas c’è un posto, prima di Zaragoza. Vicino a questa zona abitata a ciascuno venne assegnato il suo lavoro rivoluzionario: primo gruppo, prendere la presidenza; secondo gruppo, prendere e tenere sotto controllo la strada Margaritas-Comitán; Terzo gruppo, prendere e tenere sotto controllo la strada San José Las Palmas-Altamirano ; quarto gruppo, strada Independencia-Margaritas ; quinto gruppo, prendere la radio Margaritas.

Questo fu all’alba di quel glorioso 1 gennaio, quando ormai non eravamo fantasmi usciti dalla notte, ormai eravamo l’EZLN alla luce del sole. Tutti ci guardavano con stupore e con rispetto per la nostra coraggiosa azione.

Fu allora che il Sup. C. I. Pedro cadde in combattimento contro la polizia. Morì valorosamente, uccidendo vari poliziotti. Li affrontò da solo. Fu tanta la sua rabbia contro gli assassini del popolo che non gli importò della sua vita, perciò mantenne ciò che aveva detto: morire per il popolo o vivere per la patria. Fu tanta la mia sorpresa quando ci avvisarono che era caduto il nostro caro comandante. Sentii un dolore grandissimo, ma è anche vero che lui aveva portato a termine la sua missione, e aveva sistemato per bene la successione del comando. Perché lui sapeva che sarebbe andato a combattere e che in guerra possono succedere questo genere di cose.

Fu allora che prese il comando e si tornò a vedere il modo di agire di quel coraggioso guerrigliero che era il mio amico Maggiore Insorgente Z. Cosicché le nostre missioni, nonostante la dolorosa caduta del nostro grande capo, passarono sotto la direzione del Maggiore I. Z. Un gruppo andò a prendere la tenuta del generale Absalón Castellanos Domínguez, che venne preso prigioniero e portato sulle montagne, per essere processato per tutti i crimini commessi durante il suo governo, poiché egli era l’autore intellettuale degli stessi. Nonostante le accuse che pesavano su di lui, le sue colpe e l’essere un assassino di tanti bambini, donne e anziani a Wololchán, vennero rispettati i suoi diritti come prigioniero di guerra. Non venne torturato in alcun modo. Al contrario, quello che mangiava la truppa lo si dava anche a lui. Ecco come il nostro compagno dimostrò una volta di più la sua educazione e la perizia militare che si formò durante la clandestinità. Il rispetto per la vita di chi cade prigioniero in una guerra deve essere rispettato. E si ricorda a tutti quelli che leggono la nostra storia che il rispetto si guadagna rispettando quelli di sotto, ma anche quelli di sopra se quantomeno mostrano rispetto verso quelli di sotto. Grazie. Morire per vivere. Galeano”.

(continua)

“A Las Margaritas mi toccò fare il blocco stradale lungo la strada Margaritas-San José las Palmas. Da lì ci spostammo alla strada Margaritas-Comitán. Lì restammo il giorno 1 gennaio, tutta la notte, fino a che arrivò un altro ordine di andare a prendere il magazzino della Conasupo che stava a Espíritu Santo. Andammo con altri compagni insorgenti a prendere cose con cui sfamare le truppe. Poi si diede l’ordine di ritirata verso le montagne e tornammo e ci posizionammo a Guadalupe Tepeyac, poi facemmo l’imboscata de La Realidad al kilometro 90 Cerro Quemado, poi mi mandarono a recuperare un veicolo da 3 t che era di un bastardo chiamato J de Guadalupe Los Altos.

Io non sapevo guidare bene. Conoscevo solo la teoria su come si guidasse un veicolo, e fu allora che passai alla pratica e iniziai a spostare il veicolo. Arrivai a La Realidad facendomela tutta in prima. Mi stavano già aspettando la compagna capitano L e vari altri insorgenti che mi dissero “Andiamo Galeano”, ma io gli dissi: “io non ho mai guidato tantomeno trasportato in vita mia.

Morire per vivere. Galeano.” (tra il 2005 e il 2009)

(continua)

“Non importa, in guerra vale tutto”, mi rispose la compagna e andammo, ma lì davanti a Cerro Quemado, avendo preso confidenza, iniziai a correre con più leggerezza, ma in una curva girai troppo il volante e uscii di strada entrando nella macchia sino a 15 m dalla strada. Vabbè, comunque ne uscii come potei e continuai la mia missione.

Da quel giorno iniziai a guidare tutti i giorni, finché un giorno ci vide l’elicottero e mi mitragliò. Andò avanti a spararmi per 10 o 20 minuti, ma io stavo bene riparato sotto un macigno. Solo la polvere e l’odore di pietra e polvere arrivava al mio nascondiglio. Poi il fuoco cessò e l’elicottero si ritirò; io salii dal mio nascondiglio a continuare la mia missione. La missione era andare a cercare i miliziani che stavano dalle parti di Momón. Andai e tornai insieme al mio amico e capo militare compagno Maggiore Insorgente Z. Restammo sempre insieme nei giorni di guerra, e anche quando arrivò il cessate il fuoco.

Nei lavori del primo Aguascalientes a Guadalupe Tepeyac, partecipai al controllo della gente che venne alla Convenzione Nazionale Democratica. Mi addestrarono a far da scorta, fui la scorta dei nostri capi.

Poi, il giorno del tradimento di Zedillo, andammo il 9 febbraio a collocare ostacoli sulla strada del Cerro Quemado. L’esercito era già a Guadalupe Tepeyac. Ciononostante avanzavamo nell’oscurità e lavoravamo scavando fossati e abbattendo alberi per impedire il passaggio dell’esercito federale a La Realidad.

Poi ci ritirammo nelle montagne per vari giorni, finché, nuovamente, il popolo del Messico e del mondo si mobilitò e freno la persecuzione dei nostri compagni comandanti e truppe dell’EZLN. Dopo vari giorni e notti accampati nelle montagne, ritornammo ai nostri villaggi. Partecipai a tutti gli incontri organizzati dalla nostra organizzazione. Fui di scorta ai nostri capi militari. Partecipare alla marcia dei 1111 zapatisti a Città del Messico.

In tutte le marce viaggiai orgogliosamente come autista del “Coniglio”, del “Tata”, del “Cioccolato”. Tutto il tempo a portare i nostri compagni alle marce per reclamare le nostre istanze. Quando ci vennero a mancare tutti i sergenti, io restai e mi diedero il grado di sergente. Partecipai come membro regionale dei gruppi giovanili nella clandestinità e in tempo di guerra. Abbiamo fatto guerra al nemico in mille modi, sebbene anche il malgoverno abbia fatto lo stesso.

Ma dobbiamo dar valore al gran percorso che abbiamo fatto senza che importino i sacrifici e le privazioni. Questo ci ha reso più forti e mi mantiene sul sentiero della lotta, fino a conseguire la libertà di cui ha bisogno il nostro popolo. Manca ancora molta strada da percorrere, perché è lunga e difficile; forse a breve, forse lontano, ma trionferemo.

Poi si formarono le Giunte di Buon Governo, e mi scelsero come autista del primo camion della JBG. Si chiamava il “Diavolo”. Poi mi sequestrarono insieme a un altro compagno e ci portarono legati nel camion stesso dalla CIOAC-Histórica.

Mi tennero legato varie ore e poi mi trasferirono in un carcere di Saltillo. Poi mi trasferiscono a Justo Sierra, dove mi tennero senza mangiare, legato, senza poter comunicare. Volevano che io esigessi la liberazione di un delinquente, ma io non accettavo di essere scambiato perché io ero innocente e lui era un ladro, di quelli che abbondano sempre nelle organizzazioni sociali.

Fui prigioniero nove giorni finché si resero conto che si stavano mettendo nei guai con i diritti umani e con l’EZLN. Alla fine liberano il camion dopo averlo tenuto tre mesi. Allora gli si cambiò il nome (al camion), e gli si mise “Il Sequestrato Storico”. Da allora iniziarono i lavori della JBG e dell’autonomia. Morire per vivere. Galeano”. (24 gennaio 2012).

Questa è l’ultima data che compare nel suo diario. Insieme a questa breve autobiografia, ci sono un paio di poesie, probabilmente opera sua, e alcune canzoni d’amore e cose così.

Da parte mia resta solo da aggiungere che il compagno maestro zapatista Galeano era come è qualsiasi delle compagne e dei compagni zapatisti, qualcuno per cui valeva la pena morire per farlo rinascere di nuovo.

Al terminare di queste righe, forse si trova la risposta a una questione latente. Una domanda seminata in mezzo alla storia che non si scrive con le parole:

Cosa o chi rese possibile che in uno spazio di lotta confluissero il filosofo zapatista e l’indigeno zapatista?

Come fu che, senza smettere di essere maestro, il filosofo si fece zapatista, e che l’indigeno, senza smettere di essere zapatista, si fece maestro?

Succede qualcosa nel mondo che rende possibili questa e altre assurdità.

Perché, per vivere, l’uno lascia in eredità ai suoi un un pezzo nascosto del rompicapo della sua storia?

Perché, per non andarsene, l’altro ci lascia scritto il suo sguardo rivolto verso se stesso e la sua storia con noi zapatisti?

Questo è ciò a cui cerchiamo di dare risposta tutti i giorni, a tutte le ore, in ogni luogo.

Ora, quasi al momento di mettere il punto finale a queste parole, mi par di capire che la risposta, o almeno una parte di essa, è seduta a questo tavolo, sta in quelli che sono dietro e davanti a me, sta nei mondi che si sommano al nostro per la lotta di chi, con segreto orgoglio, si autodefinisce zapatista, professionista della speranza, trasgressore della legge di gravità, persona che senza smancerie si dice e dice a ogni passo: PER VIVERE MORIAMO.

Dalle montagne del Sudest Messicano.

Subcomandante Insurgente Galeano. Messico, 2 Maggio 2015.

Passo la parola alla compagna ascolta zapatista Selena…

Testo originale

Traduzione a cura dell’Associazione Ya Basta! Milano

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Parole del Subcomandante Insurgente Moisés

2 maggio 2015

Compagne ecompagni zapatisti delle comunità basi di appoggio dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.

Compagne, compañeroas e compagni della Sexta nazionale e internazionale.

Sorelle e fratelli del Messico e del mondo.

Salutiamo la famiglia del compagno Luis Villoro.

Benvenuti in terra ribelle che lotta e resiste, in terra Zapatista.

È un onore avervi con noi e con le Basi di Appoggio Zapatiste delle 5 zone.

Benvenuta la famiglia del compagno Maestro Zapatista Galeano.

Vi abbracciamo, compagne e compagni della famiglia del compagno Galeano, come abbracciamo la famiglia del compagno Luis Villoro.

Dobbiamo dare e saper dare l’onore che meritano per la missione che i nostri compagni Galeano e Luis Villoro hanno compiuto.

Compagni, compagne e compañeroas, fratelli e sorelle, oggi siamo qui non per ricordare, ma per la mancanza fisica dei compagni Galeano e Luis Villoro.

Siamo qui per ricordare e parlare della lotta che hanno portato avanti nelle loro vite, del loro lavoro, la loro resistenza.

Non siamo qui a ricordare la morte, ma quello che hanno lasciato da vivi, e dobbiamo far sì che continuino ad essere vivi nella lotta e nel lavoro.

Siamo noi che dobbiamo tenere vivi per sempre coloro che hanno dato la vita per un mondo nuovo, hanno costruito per il popolo.

Non siamo qui per erigere una statua.

Una statua non trasmette vita, non dà vita un museo, non parlano.

Siamo noi che parliamo e che dobbiamo far sì che vivano e per generazioni ci saranno statue e musei nei nostri cuori e non semplicemente come un simbolo.

Ci ha fatto molto piacere che ci hanno parlato più della vita di lotta del compagno zapatista Don Luis Villoro, che in altre parti è conosciuto come teorico ma qui lo conosciamo nella pratica, in altre parti lo conoscono come filosofo ma qui lo conosciamo come zapatista.

Ringraziamo chi ha lottato e lavorato al suo fianco perché ci hanno parlato di lui, dei suoi altri pezzi di vita.

Così noi zapatisti vi parliamo di un altro pezzo.

Per esempio, grazie al compagno Luis Villoro, e ad altre persone come lui, ci sono cliniche e scuole per l’educazione Zapatista.

È il frutto del suo lavoro.

Ma non bastava, c’era bisogno anche di gente che costruiva, come il compa Galeano e poi altra gente che promuova e che si realizzi il sogno poi di organizzare gli alunni e le alunne.

E questo ha fatto il compagno Galeano, ha costruito e lavorato ed ha cominciato a farlo funzionare.

Così siamo organizzati noi popoli Zapatisti.

Grazie all’aiuto del compa Luis Villoro e di altre ed altri come lui il compa Galeano è diventato maestro.

Ci rispettava e noi lo rispettavamo, ci ha trattato da uguali, ha creduto in noi e noi abbiamo creduto in lui, abbiamo lavorato per lo stesso scopo, senza incontrarci fisicamente, cioè si può costruire molto senza incontrarsi fisicamente.

Così è stato, per esempio, per la Sexta che ha collaborato a livello mondiale per la ricostruzione della scuola e della clinica alla Realidad zapatista, sopra il sangue del nostro compagno Galeano.

I compas Luis Villoro e Galeano non si conoscevano, ma insieme hanno lavorato per costruire una stessa libertà.

Abbiamo ascoltato anche parti della vita di lotta del compa Galeano.

Per prima cosa decise di lottare, e poi chiedere appoggio, quindi organizzare la costruzione, e poi organizzare i promotori, per ultimo occuparsi delle alunne e degli alunni.

Questo richiede l’organizzazione.

Perché il compa Galeano era ed è miliziano, capo comando di milizia e poi sergente. Rappresentante Regionale del gruppo giovanile, membro dei MAREZ, Municipio Autonomo Ribelle Zapatista, maestro della scuola Zapatista ed era stato eletto per essere membro della Giunta di Buon Governo.

Questo significa ORGANIZZAZIONE.

Diventò maestro ed ha tenuto lezioni per gente di molte parti del mondo che hanno partecipato al corso “La libertà secondo le zapatiste e gli zapatisti”.

Perché c si deve organizzare per potersi liberare dal sistema capitalista.

Perché il popolo si libera da solo, nessuno gli regala la libertà, nessun leader, uomo o donna che sia, gli darà la libertà.

Perché i capitalisti non rinunciano, non si pentono e non smettono di sfruttare il popolo.

Perché non può umanizzare il sistema capitalista.

Per farla finita con questo sistema, bisogna distruggerlo, per questo bisogna organizzarsi.

Il compa Luis Villoro vide gli zapatisti lo stavano facendo, non dubitò di accompagnarli, di lottare, di lavorare ed appoggiare la lotta e l’organizzazione che rappresentò nella sua vita il compa Galeano.

Magari ci fossero altri Luis e Luisa e Luisoas Villoros, Villoras e Villoroas.

Non si finisce mai di organizzarsi, perché c’è bisogno di organizzazione per la costruzione e per vigilare su quanto si è già costruito.

Affinché non ritorni lo sfruttamento sulle persone, come ora si sfruttano uomini e donne e coloro che non sono né uomini né donne.

Affinché il popolo si autogerni.

Questo vuole l’organizzazione. L’organizzazione è fatta da comunità, donne, uomini ed otroas.

E dopo aver ascoltato, vogliamo dirvi questo:

C’è chi pensa che siamo un’organizzazione di indigeni o di messicane e messicani, invece no.

Siamo un’organizzazione di zapatisti, indigeni e non indigeni, proprio come vediamo qui, in questo omaggio ai 2 compagni zapatisti.

Siamo in Messico perché qui siamo nati, è la nostra geografia.

Come chi lotta per la libertà del popolo Curdo, gli è toccato perchè sono nati lì.

Ad ognuno tocca dove si trova. Come fa la Sexta in Messico e nel mondo che lotta dove gli tocca.

Per questo diciamo la geografia di ognuno, l’angolo del mondo dove ognuno si ribella e lotta per la sua libertà, per la libertà.

Qui è necessario avere ben chiaro cosa significa essere zapatisti.,

Essere zapatista vuol dire essere deciso, decisa, decisoa, ben forte.

Perché non c’è da supporre nulla, ma c’è da lavorare, organizzare e lottare in silenzio fino alle ultime conseguenze, cioè, teoria e pratica.

Indossare un passamontagna non significa essere zapatista, ma è organizzarsi e distruggere il sistema capitalista.

Dire a parole “sono zapatista” non significa essere zapatista, ma è lottare fino alla morte.

Parlare di zapatismo non significa essere zapatista, ma è lavorare collettivamente con i popoli organizzati.

Non significa niente essere zapatista quando va di moda esserlo, e non esserci quando si soffre per le aggressioni del malgoverno.

Indossare divise, mascherarsi, non significa essere zapatisti, per poi arrendersi al malgoverno, perché lo zapatista non si arrende.

Non è essere zapatista dire io sono comandante dell’EZLN e dialogare col malgoverno per progetti o soldi, perché lo zapatista non si vende.

Non è essere zapatista mettersi al servizio di quelli che ricercano solo cariche e soldi e lottano solo ogni 6 anni.

Lo zapatista lotta per un cambiamento totale e lotta tutta la vita e non tentenna. Cioè non cambia il suo pensiero secondo la moda o secondo la convenienza.

Non è essere zapatista stare con il piede in due scarpe, con i partiti e zapatista. Perché i partiti voglio solo cambiare il colore di chi comanda. Invece lo zapatista vuole cambiare tutto il sistema, non una parte, ma tutto. E che il popolo comandi e nessun altro lo comandi.

Non è essere zapatista non avere mai paura. A volte si ha paura, ma si controlla e si continua a lottare.

Non è essere zapatista avere molta rabbia e non organizzarsi, ma ci si deve organizzare con molta dignità.

Chi dice quando sei zapatista? I popoli.

Chi dice come è essere zapatista? I popoli.

Chi dice fino a quando si è zapatista?

Non c’è chi dice “basta hai finito”, ma devi andare avanti fino alla morte compiendo il sacro dovere di liberare il popolo sfruttato, e anche da morto si continua a lottare.

Per questo rendiamo questo omaggio, per ricordarci e ricordarvi che, anche se la morte arriva a cercare di farci dimenticare, continuiamo ad essere vivi nel popolo, nella lotta, per la lotta e per la lotta dei popoli e così la vita prosegue e la morte perde.

Grazie.

Subcomandante Insurgente Moisés Messico, Maggio 2015

Testo originale

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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Luis_Villoro

Luis lo zapatista

ESERCITO ZAPATISTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE

MESSICO

2 maggio 2015

Introduzione.

Buona sera, giorno, notte a chi ascolta e chi legge, indipendentemente dai suoi calendari e geografie.

Quelle che ora diventeranno pubbliche, sono le parole che il defunto Subcomandante Insurgente Marcos aveva preparato per l’omaggio a Don Luis Villoro Toranzo, che avrebbe dovuto tenersi a giugno del 2014.

Egli pensava che sarebbero stati presenti i familiari di Don Luis, in particolare suo figlio, Juan Villoro Ruiz, e la sua compagna, Fernanda Sylvia Navarro y Solares.

Giorni prima che si celebrasse l’omaggio, fu assassinato il nostro compagno Galeano, maestro ed autorità autonoma che faceva e fa parte di una generazione di donne e uomini indigeni zapatisti che si è forgiata nella clandestinità della preparazione, nell’insurrezione, nella resistenza e nella ribellione.

Il dolore e la rabbia che provammo allora ed ora si sommarono, in quel maggio di un anno fa, al dolore per la morte di Don Luis.

Seguirono quindi una serie di eventi, uno dei quali fu la decisione di far morire chi fino ad allora era stato il portavoce e capo militare dell’EZLN. La morte del SupMarcos si concretizzò all’alba del 25 maggio 2014.

Tra le cose in sospeso, come diciamo noi zapatisti e zapatiste, lasciate dal defunto supmarcos c’è un libro sulla politica, promesso a Don Pablo González Casanova in cambio di una scatola di biscotti pancrema, una serie di testi e disegni inclassificabili (molti di questi risalgono ai suoi primi giorni come insurgente nell’EZLN), ed il testo dell’omaggio a Don Luis Villoro che leggerò tra poco.

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Quando, con la comandancia generale dell’EZLN, col subcomandante insurgente Moisés abbiamo parlato di come sarebbe stato questo giorno, prima ed oggi, ci siamo resi conto che facendo il bilancio di una vita, mettevamo insieme dei pezzi che non riuscivano mai a completarsi.

Restavamo sempre con un’immagine incompiuta, rotta. Quello che abbiamo ed avevamo, ci sollecitava a cercare e trovare quello che mancava.

“Manca quello che manca”, diciamo ostinatamente noi zapatiste e zapatisti.

Non con rassegnazione, mai con conformismo.

Ma per ricordarci che la storia non è finita, che le mancano pezzi, nomi, date, luoghi, calendari e geografie, vite.

Che abbiamo molte, troppe morti ed assenze.

E che dovevamo allargare la memoria ed il cuore perché non ne mancasse nessuna, ma anche affinché non fossero immobilizzate, affinché fossero completate ancora una volta nel nostro passo collettivo.

Pensiamo dunque che questo giorno, sera, notte, alba potrebbe essere uno scambio di pezzi per continuare a tentare di completare la vita di chi avete conosciuto e conoscete come il dottor Luis Villoro Toranzo, professore della Facoltà di Filosofia e Lettere della UNAM, fondatore del gruppo Hiperion, discepolo di José Gaos, ricercatore dell’Istituto di Ricerche Filosofiche, membro della Scuola Nazionale, presidente dell’Associazione Filosofica del Messico, e membro onorario dell’Accademia Messicana della Lingua. “Maestro, padre e compagno”, reciterebbe forse così il suo epitaffio.

Ci sono compas, donne, uomini e otroas che hanno un posto speciale tra noi zapatiste e zapatisti dell’EZLN. Non è per un regalo o una donazione. Questo posto speciale l’hanno guadagnato con l’impegno e la dedizione lontana da riflettori e palcoscenici.

Per questo, quando irrimediabilmente se ne vanno, non facciamo eco del rumore e della polvere che si sollevano con la loro morte. Aspettiamo. La nostra attesa è un omaggio silenzioso, sordo. Come silenziosa e sorda è stata la loro lotta al nostro fianco.

Lasciamo quindi che il rumore si spenga, che un’altra moda sostituisca la simulazione di costernazione e pena, che la polvere si depositi, che il silenzio torni ad essere il sereno riposo per chi ci manca.

Forse perché rispettiamo quella vita ora assente, perché rispettiamo il suo tempo e il suo modo. E perché speriamo che, con l’avanzare del calendario, il suo silenzio avrà un luogo per ascoltarci.

Per là fuori, lo dico per segnalare un fatto, non come rimprovero, il dottor Luis Villoro Toranzo è stato un intellettuale brillante, una persona saggia alla quale forse si può solo rimproverare la vicinanza che in vita ha avuto con i popoli originari del Messico, in particolare con quelli che si sono sollevati in armi contro l’oblio e che resistono alle mode e ai media.

Per chi non ha conosciuto in vita il dottor Luis Villoro Toranzo, ci sono e, spero, ci saranno tavole rotonde, riedizioni dei suoi libri, analisi su riviste specializzate e non.

La nostra parola non seguirà quelle strade. Non perché non conosciamo la sua opera storica e filosofica, ma perché siamo qui per saldare un debito, una pendenza, svolgere un compito.

Perché voi, là fuori, conoscete Luis Villoro Toranzo come un pensatore brillante, ma noi, zapatiste e zapatisti lo conosciamo come…

Come?

Possediamo solo uno dei tanti pezzi.

E siamo venuti qui, a questo omaggio, per consegnare a chi ha condiviso e condivide con lui sangue e storia, un pezzo che, crediamo, non solo non aveva, ma che forse neppure immaginava esistesse.

La storia qua in basso, dalla parte zapatista, ha molte stanze chiuse. Compartimenti stagni nei quali vite differenti si svolgono con apparente normalità e nei quali solo la morte abbatte i muri affinché guardiamo ed impariamo dalla vita che è passata da lì.

E facciamo, come dire? una permuta? uno scambio di posti?

Aprendo il compartimento, abbattendo il muro, affacciandoci dentro, facciamo un baratto: questa morte al museo, questa vita alla vita.

“Compartimenti stagni”, ho detto. La nostra modalità di lotta implica questa quota di anonimato che solo per qualcuno di noi è desiderabile. Ma forse poi ci sarà l’occasione di tornare su questo.

Sentirete il Subcomandante Insurgente Moisés parlare alle nostre compagne e compagni delle comunità zapatiste di quello che è stato Don Luis Villoro Toranzo nella nostra lotta.

L’immensa maggioranza di loro non lo conosceva, non l’ha conosciuto. E come lui, abbiamo compagne, compagni e compañeroas dei quali si ignora l’esistenza.

Questo improvviso sapere che avevamo compagni e compagne che neanche sapevamo esistessero, fino a che non esistono più, è qualcosa che non è nuovo per noi zapatiste e zapatisti.

Forse è il nostro modo, nominando la vita di chi manca, lo facciamo esistere in un altro modo.

Come se fosse il nostro modo di portare nel collettivo l’indigeno zapatista Galeano prima, Don Luis Villoro ora.

Il nostro modo di scuoterli, di sollecitarli, di gridare loro “Ehi! Niente riposo!“, di riportarli qui a continuare la lotta, il lavoro, il cammino, la vita.

Ma non è una vita quella che vi racconterò. Neppure si tratta di una morte.

Inoltre, non sono qui a raccontare niente. Sono qui a delineare un contorno, più o meno definito, più o meno nitido, del pezzo di un puzzle gigantesco, terribile, meraviglioso.

E quello che vi racconterò vi sembrerà fantastico.

Forse il mio inconsapevole fratello (suo malgrado) Juan Villoro, scorgerà nelle mie parole il filo di una matassa assurda e complessa, più vicina alla letteratura che alla storia. Forse gli servirà poi per completare quel libro che non sa ancora che scriverà.

Forse Fernanda intuirà l’irruzione di un concetto che sembrava assente, che indica un vuoto che una volta colmato potrebbe produrre il rovesciamento teorico di tutto un pensiero. Le sarà forse utile poi per iniziare la riflessione che ora non sa che intraprenderà.

Non so. Forse lui, lei, chi non c’è, semplicemente l’archivierà nella cartelletta “H”, di  “homenaje”, di “herida”, di “humano”, di “Hidra” [“omaggio”, di “ferita”, di “umano”, di “Idra”], di…

“Había una vez…”   “C’era una volta…”

Per ragioni di sicurezza devo essere necessariamente impreciso sulla geografia e calendario, ma era l’alba ed era il quartier generale dell’EZLN.

Forse la breve descrizione del comando generale zapatista deluderà qualcuno.

No, non c’è una mappa gigantesca con luci policrome o spilli colorati che copre una delle pareti.

No, non ci sono moderne attrezzature radio da cui escono voci in tutte le lingue.

Non c’è un telefono rosso.

Non c’è un moderno computer con multischermi impegnati a cifrare e decifrare la vertiginosa statica della matrix cibernetica.

Quello che c’è sono un paio di tavoli, due o tre sedie, qualche tazza coi resti di caffè freddo, fogli sparsi, cenere di tabacco, fumo, molto fumo.

A volte c’è anche una scodella di popcorn rancidi, ma solo nel caso sia necessario un baratto con qualche essere inusuale.

Non ci crederete, ma quello che da altre parti si chiama “Duello di Dio”, qua si chiama “Fermati che c’è fango”.

Non mi dilungherò in questo peculiare modo di risolvere le dispute giudiziarie tra esseri che sono più che lontani dalla giurisprudenza reale o di finzione. Basti dire che la scodella con i popcorn rancidi ha la sua ragion d’essere.

Ci può essere, non sempre, è vero, un computer portatile ed una stampante. Non dirò né la marca né il modello, basti dire che il computer funziona a forza di insulti e minacce, e che la stampante ha un peculiare senso dell’arbitrio perché si rifiuta di stampare quello che non le sembra degno di andare oltre lo schermo.

Normalmente, sullo schermo di questo computer c’è invariabilmente un word processor ed un testo che non vede mai la fine…

Virus? Gli unici che possono arrivare attraverso la liana che serve a collegarsi ad uno dei tunnel della rete. Cioè ragni, o insetti che sfuggono ai suddetti mentre una lucciola lampeggia allarmata.

Ma lasciamo che l’immaginazione di ognuno completi l’arredamento.

Potrei vantarmi dicendovi che quella mattina stavo leggendo qualche trattato di filosofia ellenica, o Le Fabulae di Iginio, o il trattato Sugli Dei di Apollodoro di Atene, o Le Doze [Dodici] Fatiche di Ercole, sì, con la “z”, di Enrique de Villena, l’Astrologo, invece no.

O potrei dirvi, e fregiarmi di essere moderno, che stavo navigando nella rete alternativa, facendo un corso on-line con un, una, unoa hacker anonimo. Uno famoso, ma se è anonimo non può essere famoso. O sì? O forse è un collettivo organizzato: “fai click su reload, premi il tasto control, no, non toccare la lettera “z” perché succede un casino e finisci a chattare con un essere incomprensibile nelle montagne del sudest messicano”. Infine, un nickname ed un avatar, quasi gli equivalenti di un nome di battaglia ed un passamontagna che, pazienti, spiegano i fondamenti di un terreno di lotta. Come in ogni lingua nuova che si impara, la prima cosa che bisogna conoscere sono le parolacce. E così sapere che “noob” è l’equivalente di un insulto.

O potrei raccontarvi, e reiterare il cliché che ero impegnato in una partita a scacchi multipla interoceanica col collettivo chiamato “gli Irregolari di Baker Street” che si trovano nella bionda Albione.

Invece no.

Quello che in realtà stavo facendo era tentare di concludere un testo in sospeso ormai da 20 anni, ma…

Proprio allora apparve sulla porta la guardia, la sentinella, la vedetta o come volete chiamarla:

Sup, c’è uno che vuole parlarti – disse laconico dopo il saluto militare.

E chi sarebbe? – domandai quasi per dovere perché supponevo fosse la insurgenta Erika con qualcuno dei suoi complicati rebus d’amore e quelle cose lì.

Un Don Luis, dice. Di una certa età, è maturo” – rispose l’insurgente.

Don Luis? Non conosco nessun Don Luis-, dissi con irritazione.

Subcomandante – sentii la sua voce, e la sua figura si stagliò sulla soglia.

La guardia riuscì solo a balbettare: “è entrato da solo, gli avevo detto di aspettare, non ha obbedito”.

Non ha proprio obbedito. Lascialo”, dissi alla vedetta ed abbracciai Don Luis Villoro Toranzo, nato a Barcellona, Catalogna, Stato Spagnolo, il 3 novembre dell’anno 1922.

Gli offrii una sedia.

Don Luis si sedette, si tolse il basco e si sfregò le mani sorridendo. Immagino per il freddo.

Ho già detto che quella mattina faceva freddo?

Proprio come quando non c’è la luce che intiepidisca l’ombra, come oggi. Inoltre, il freddo mordeva le guance come un amante ossessivo.

Don Luis non sembrava notarlo.

“Fa freddo a Barcellona?”, gli chiesi, un po’ come saluto di benvenuto, un po’ per distrarlo mentre discretamente spegnevo il computer.

Infine, riposi il portatile, chiesi caffè per 3 e riaccesi la pipa, piena com’era di tabacco usato e umido.

Non ricordo ora se Don Luis rispose alla domanda sul clima a Barcellona.

Ma aspettò pazientemente che io mi arrendessi e smettessi di tentare di ravvivare le braci del fornello.

Per caso non ha del tabacco?”, gli chiesi anticipando con delusione la sua risposta negativa.

Non ricordo”, disse, e sorrise.

Si riferiva al freddo a Barcellona o al fatto se aveva o no del tabacco?

Ma non erano queste le domande più importanti che mi si erano accumulate nel fornello spento della pipa.

Prima di chiedere al dottore in filosofia Luis Villoro Toranzo che diavolo ci faceva lì, lasciate che vi spieghi…

In quei giorni il quartier generale dell’EZLN si trovava nel “Letto di Nuvole”, chiamato così perché si trova in cima ad una catena montuosa ed esclusi i pochi giorni nella stagione asciutta, è costantemente avvolto dalle nuvole. Il comando generale è transumante, a volte si sistema lì, anche se per periodi più brevi delle nuvole.

“Il Letto di Nuvole”.

Arrivarci non è facile. Per prima cosa si devono attraversare pascoli e boschi. Brutto con la pioggia, brutto col sole. Dopo circa 2 ore di spine e imprecazioni, si arriva ai piedi della montagna. Da lì parte uno stretto sentiero che costeggia il fianco della montagna di modo che c’è sempre un abisso sulla destra. No, non furono considerazioni politiche a far scegliere quel tratto di sentiero in spirale ascendente, ma il taglio capriccioso di quel picco montagnoso in mezzo alla catena montuosa. Siccome la salita finiva fino quasi alle porte della tenda del comando generale dell’ezetelene, erano state realizzate alcune opere di ingegneria militare in modo che dalla postazione della vedetta si avesse il tempo e la visuale per un opportuno avvistamento.

Da lì il camminamento di accesso al quartier generale era di proposito difficoltoso. Alla rudezza della montagna avevamo aggiunto pali appuntiti, buche e spine, di modo che era possibile transitare solo uno alla volta.

Quando ero giovane e bello, e portavo in spalla un carico medio – diciamo di circa 15-20 chili – ci mettevo circa 6 ore dalla base della montagna. Ora che sono solo bello, e senza carico, mi ci vogliono dalle 8 alle 9 ore.

Il nostro ostinato premodernismo ed il nostro disprezzo per le campagne elettorali ci impediscono di avere eliporti nelle nostre postazioni. Così ci si può arrivare solo a piedi.

Con queste prerogative era logico che la prima domanda che venne fuori fu:

E come è arrivato fin qui Don Luis?”.

Rispose: “Camminando”, con la stessa tranquillità con cui avrebbe detto “in taxi”.

Don Luis sembrava a posto, visibilmente tranquillo, il suo basco intatto, il suo zaino scuro con impigliato solo qualche rametto, i suoi pantaloni di fustagno leggermente macchiati e solo nello sbieco, i suoi mocassini integri. Tutto a posto. Se c’era qualcosa da notare, era la sua barba di qualche giorno e l’assurdo evidente della sua camicia chiara col collo inamidato aperto.

A me quella salita costa almeno 3 rammendi della camicia, 4 dei pantaloni, una riparazione di entrambi gli stivali ed un paio d’ore per riprendere fiato.

Ma Don Luis era lì, seduto davanti a me. Sorrideva. A parte un leggero rossore sulle guance, si potrebbe dire che, in effetti, era appena sceso da un taxi.

Ma no. Don Luis aveva risposto “camminando“, quindi niente taxi.

Stavo per sciogliermi in una lunga tiritera di frasi convenzionali sulla salute, sui calendari compiuti che diventano acciacchi, sull’impossibilità che alla sua avanzata età cercasse di fare cose assurde come scalare una montagna e presentarsi di buon mattino alla comando generale dell’ezetaelene, ma qualcosa mi fermò.

No, non fu il fatto indiscutibile che ormai si trovava lì.

Fu che il sorriso di Don Luis si era fatto nervoso, inquieto, come quando non si teme di domandare, ma di ricevere risposte.

Allora feci la domanda che avrebbe segnato quella mattina:

Che cosa vuole Don Luis?”.

Voglio farmi zapatista”, rispose.

Nella sua voce non c’era alcun tono di scherno, sarcasmo o ironia. Neppure dubbio, paura, incertezza.

Avevo già affrontato un cittadino o cittadina che dichiara questa intenzione (anche se non con quelle parole, perché normalmente lo fanno con slogan incendiari e frasi rimbombanti dove c’è molta morte e poca o niente vita), e naturalmente, non passano dai pascoli.

Deglutii a fatica e non avevo nemmeno la pipa accesa per fingere che fosse per il fumo. Rassegnato di fronte alla mancanza di tabacco asciutto, mi limitai a mordicchiare il bocchino.

Voglio farmi zapatista”, disse. Don Luis aveva usato un’espressione verbale più propria della quotidianità delle comunità zapatiste che dell’Accademia Messicana della Lingua.

Seguii il protocollo in questi casi:

Gli spiegai in dettaglio le difficoltà geografiche, temporali, fisiche, ideologiche, politiche, economiche, sociali, storiche, climatiche, matematiche, barometriche, biologiche, geometriche ed interstellari.

Ad ogni difficoltà il sorriso di Don Luis perdeva nervosismo e acquisiva sicurezza.

Alla fine della lunga lista di inconvenienti, dall’espressione del volto di Don Luis sembrava avesse ricevuto una nomina alla Scuola Nazionale, invece del “NO” diplomatico che gli avrei rifilato.

Sono pronto”, disse dopo lo scricchiolio dell’ultimo pezzo sano del bocchino della mia pipa.

Cercai di dissuaderlo menzionato gli inconvenienti della clandestinità, il nascondersi, l’anonimato.

Inoltre“, aggiunsi con disinvoltura, “non ci sono più passamontagna“.

Era evidente che non stavo facendo bella figura. Per quanto mi sistemassi sulla sedia e muovessi nervoso gli oggetti sul tavolo, non trovavo la spiegazione logica all’assurdità della situazione.

Don Luis si sistemò il basco sull’argento della sua rada chioma.

Pensai che se ne stesse andando ma, mentre mi stavo accingendo a chiamare la guardia perché lo accompagnasse, disse:

È questo il mio passamontagna, disse indicando il basco.

Quando gli spiegai che il passamontagna doveva occultare il volto lasciando liberi solo gli occhi, mi disse:

Non si può occultare il volto senza coprirlo?“.

In quel momento ringraziai per due cose:

Una, che nel continuo muovere gli oggetti sul tavolo avevo trovato un sacchetto di tabacco asciutto.

L’altra, che la domanda del dottore in filosofia Luis Villoro Toranzo mi davo il tempo per tentare di sistemare i pezzi e capire dove voleva andare a parare.

Così, mi rifugiai dietro le parole per pensare meglio:

Si può, Don Luis, ma per riuscirci deve modificare, come dire, l’ambiente. Diventare invisibile significa non attirare l’attenzione, essere uno tra tanti. Per esempio, si può nascondere qualcuno che ha perso l’occhio destro ed usa una toppa, facendo sì che tanti usino una toppa sull’occhio destro, o che qualcuno che attiri l’attenzione si metta una toppa sull’occhio destro. Tutti gli sguardi andranno su chi richiama l’attenzione, e le altre toppe passano in secondo piano. In questo modo, il vero cieco di un occhio diventa invisibile e può muoversi a suo agio.

Dubito che lei riesca a far sì che nell’ambiente accademico e universitario tutti indossino un basco nero o che qualcuno che richiami potentemente l’attenzione lo usi. Per esempio, se lei riuscisse a far indossare il basco nero ad Angelina Jolie e Brad Pitt, allora sì, ma non si offenda Don Luis, non lei”.

Inoltre il basco ricorda più Che Guevara che la filosofia idealista della scienza. Lei lo sa bene, benché sia una selva, l’istituto di ricerche filosofiche non è esattamente un centro sovversivo”.

Ma”, mi interruppe con una inattesa stoccata, “un altro modo per non richiamare l’attenzione, cioè, passare inosservati, è non modificare la routine, continuare ad indossare gli stessi abiti. Vedendomi col basco nero, non vedranno niente di strano. Invece, se mi mettessi un passamontagna, sarebbe un cambiamento radicale. Mi vedrebbero. Richiamerebbe l’attenzione. Direbbero “è il professor Luis Villoro con un passamontagna, è impazzito, povero, forse nasconde qualche recente deformità, o i segni della vecchiaia, o della malattia, o un crimine inconfessabile”. E, mutatis mutando, se si smette di fare qualcosa di routinario o d’abitudine, questo richiama l’attenzione. Per esempio, Subcomandante, se lei abbandona la pipa, richiama l’attenzione. Se si mette una toppa sull’occhio, per esempio, si fisseranno e cominceranno a speculare se l’ha perso o se ha l’occhio livido per un pugno”.

Buon punto”, dissi e discretamente presi nota.

Don Luis proseguì: “Se indosso il basco, chiunque mi veda non avrà nulla di dire, penserà che sono lo stesso di sempre”.

Quindi, aggiunse come conclusione logica:

Il mio nome di battaglia sarà “luis villoro toranzo”.

Ma, Don Luis”, ribattei, “è il suo nome”.

Esatto”, disse con l’indice destro alzato. “Se adotto questo nome di battaglia, nessuno saprà che sono zapatista. Tutti penseranno che sono il filosofo Luis Villoro Toranzo”.

Lei non ha forse detto che gli zapatisti si mostravano coprendosi il volto?”.

Annuii sapendo dove voleva arrivare.

Col basco ed il nome mi mostro, cioè, mi nascondo”.

Non era questo il paradosso?”.

Avrei detto “Touché“, ma ero tanto sconcertato che il mio francese rimase nel dimenticatoio.

Il resto della notte-alba la passai argomentando contro e lui contro argomentando a favore.

Lasciatemi dire che, bisogna ammetterlo, il suo ragionamento logico era impeccabile e con grazia e buon umore eludeva una dopo l’altra le trappole fallaci nelle quali normalmente faccio inciampare i più famosi intellettuali.

Sì, sono sarcastico, quindi nessuno si offenda.

Il fatto era che Don Luis Villoro Toranzo, aspirante zapatista il cui nome di battaglia sarebbe stato “Luis Villoro Toranzo” e che, per nascondersi meglio, si sarebbe mostrato con un basco nero come passamontagna, stava demolendo uno ad uno gli ostacoli e le obiezioni che, con una certa ostinazione, gli ponevo.

L’età“, gli dissi come ultimo argomento e quasi svenendo.

Lui concluse con: “Se non ricordo male, lei, subcomandante, una volta disse che il limite di età era un secondo prima dell’ultimo respiro”.

La luce dell’alba già delineava l’orizzonte quando decisi di assumere la posizione migliore in questi casi: addussi la demenza.

“Senta Don Luis, se fosse per me naturalmente sarebbe un onore, ma non dipende da me accettare o respingere una richiesta di adesione all’EZLN. Io sono, diciamo, il sinodale, ma chi decide è un altro. Oltre a lui poi viene il responsabile locale, il regionale, il comitato, il comando generale dell’esercito zapatista di liberazione nazionale. Perché non se ne torna a casa che poi la avviserò io quando saprò qualcosa?”.

Ma… mentre stavo dicendo questo, entrò nel comando generale l’altro indigeno che completa il trio con Moy e me.

Ah”, disse, “vedo che hai già parlato con lui”.

Sì”, risposi, “ma si ostina a voler farsi zapatista”.

Beh”, disse l’altro, “veramente io stavo parlando al compa Luis Villoro Toranzo, non a te”.

Lui aveva già parlato con me, gli avevo detto di passare da te per esporti i suoi argomenti”.

È fatta: l’ho già inserito nell’unità speciale. Per noi ora è il collego Luis Villoro Toranzo”.

Gli ho già spiegato che, secondo le nostre modalità, lo chiameremo solo “Don Luis”, quindi credo che dobbiamo solo dargli il benvenuto ed assegnargli i suoi compiti”.

Il già compagno zapatista Luis Villoro Toranzo si alzò e, con ammirevole prestanza, salutò l’ufficiale sull’attenti.

E quale sarà il suo compito?” riuscii a domandare in mezzo alla nebbia della mia confusione.

Quello che gli tocca: la guardia”, disse l’altro e se ne andò.

Juan, Fernanda e chi ora mi ascolta e mi leggerà poi, forse accoglierà queste parole come un’altra delle storie fantastiche che popolano le montagne del sudest messicano, popolate sempre da scarabei, bambini e bambine irriverenti, fantasmi, gatti-cani, lucciole palpitanti ed altre assurdità.

Invece no. È ora che sappiate che Don Luis Villoro Toranzo entrò nell’EZLN una mattina di maggio di molte lune fa.

Il suo nome di lotta fu “Luis Villoro Toranzo” e nel comando general dell’EZLN era noto come “Don Luis” per ragioni di brevità ed efficienza.

Il luogo fu nel quartier generale “Letto di Nuvole”, dove lasciava in custodia la sua camicia marrone per ogni volta che tornava, e questo diverse volte prima di morire.

Che altro posso dirvi?

Compì appieno la sua missione. Come sentinella in uno dei posti di guardia della periferia zapatista vigilò attento su quello che accadeva, con la coda dell’occhio del pensiero critico notò cambiamenti e movimenti che passavano inosservati alla stragrande maggioranza dell’intellighenzia autodefinita progressista.

Prodotto dell’allerta del caracol di sua competenza, in questi giorni ascolterete, e molti altri leggeranno, le riflessioni che abbiamo fatto su questi cambiamenti e movimenti.

UN REGALO IN STILE ZAPATISTA

Un’altra alba. Don Luis, l’allora Tenente Colonnello ed oggi Subcomandante Insurgente Moisés ed io avevamo iniziato la discussione intorno alle 17:00 ora del fronte di combattimento sudorientale. Alle 21:00 il SupMoy si scusò perché doveva andare a controllare le postazioni circostanti.

Il modo di discutere di Don Luis era particolare: mentre altri gesticolano ed alzano la voce, lui sorride vagamente assente. Quando altri parlano solo per slogan, lui dice uno sproposito – “Solo per prendere tempo”, dicevo a me stesso.

Di solito quelle discussioni sembravano incontri di scherma. Benché sia superfluo dirlo, il più delle volte mi batteva. Così accadde una certa volta. Don Luis allora rise e disse: “Battuto, ma non distrutto!”. Io mi ricomposi a parole, facendogli notare quanto sarebbe malvisto un filosofo neopositivista che citi, intenzionalmente o meno, la seconda lettera dell’apostolo Paolo ai Corinti. E lui, con sorriso furbo: “e sarebbe ancor peggio che un capo zapatista riconosca la citazione”. Allora si alzò e recitò in tono drammatico: “Siamo tormentati da tutto, ma non angosciati; in difficoltà, ma non disperati; perseguiti, ma non abbandonati; battuti, ma non distrutti” quindi rivolgendosi a me: “e mi stupisco che lei non abbia detto che si tratta del capitolo IV, versetti 8 e 9”.

Ancora dolorante per la batosta dialettica, riposi: “ho sempre pensato che quel testo sembra più un comunicato zapatista che descrive la resistenza, che parte dal Nuovo Testamento”.

Ah! la resistenza zapatista!”, esclamò con entusiasmo.

Poi: “Sa una cosa Subcomandante? Dovreste aprire una scuola”.

Non una, molte”, gli dissi.

Erano gli anni 2005-2006, anni prima Don Luis era entrato tra le nostre file e le Giunte di Buon Governo erano impegnate nelle necessità in ambito di salute ed educazione nelle zone, regioni e comunità.

Don Luis allora precisò: “No, non mi riferisco a quelle scuole. Naturalmente, bisogna aprirne molte, senza dubbio. Io mi riferisco ad una scuola zapatista. Non una dove si insegni zapatismo, ma dove si mostri lo zapatismo. Una dove non si impongano dogmi, ma si discuta, si pongano domande, si costringa a pensare. Una il cui motto sia “E tu che fai?”.

Veramente l’idea di Don Luis non era originale. L’avevano già abbozzata prima con diversi enunciati, Pablo González Casanova ed Adolfo Gilly.

Ma la nostra idea non era né è insegnare, neppure “mostrare”. Ma provocare. Il “Tu che fai?” non richiedeva una risposta, ma sollecitare ad una riflessione.

Proseguo:

La discussione si trasformò in conversazione, nello stesso modo in cui un torrente raggiunge una piana nel suo corso tortuoso e si trasforma in un sereno fluire. Sereno, sì, ma inarrestabile.

Era ormai l’alba. La guardia notturna ci avvertì che Moy era ancora occupato e ci offrì del caffè. Alla mia occhiata Don Luis rispose con un gesto affermativo. Non so nemmeno se realmente Don Luis bevesse caffè, lasciò sempre la sua tazza intatta. Allora l’attribuivo al calore della discussione. Ora mi rendo conto che non gli ho mai nemmeno chiesto se era sua abitudine berlo. Si poteva supporre, naturalmente, filosofo, certo, che “caffè” per un filosofo fosse qualcosa di non gradito. O forse lo beveva. Siamo in Chiapas. Venire in Chiapas e non bere caffè è… come andare a Sinaloa e non mangiare chilorio, come andare ad Amburgo e non farsi un hamburger, come andare alla Realidad e non imbattersi in idem.

Il fatto è che, senza rendercene conto, stavamo parlando di regali.

Immagini quale potrebbe essere il regalo perfetto”, proposi.

Il più sorprendente”, risposi senza pensarci.

“No, quello per cui non si potrebbe ringraziare”, rilanciò.

“O quello che non sarebbe un regalo”, contrattaccai.

“Come?“, chiese intrigato.

“Per esempio un enigma, o il pezzo di un puzzle. Cioè, un regalo senza una ragione. Se non c’è un motivo, aumenta la sorpresa”, dissi.

“Certo, ma per chi lo dà, potrebbe essere un regalo non poter essere ringraziato per il dono”, disse come a sé stesso.

Più l’argomentazione logica si vivacizzava, più pensavo che Don Luis si stava stancando. Invece no, era animato ed aveva gli occhi lucidi, come se…Mi alzai e gli toccai la fronte. Non dissi niente, ma andai sulla porta e dissi alla guardia: “Fai venire la compa di salute”.

Don Luis aveva la febbre. La insurgenta di salute raccomandò antipiretico, un bagno freddo e molti liquidi. Don Luis non si oppose a nulla. Ma quando la compagna se ne andò mi disse “basta un po’ di riposo” e si addormentò. Restò così per 2 giorni, svegliandosi solo per mangiare qualcosa e andare in bagno.

Ormai ripresosi del tutto, mi disse che doveva andarsene, mi raccomandò di rileggere i suoi rapporti di guardia e salutò.

Giunto sulla porta, senza voltarsi a guardarmi ma tra sé, mormorò: “Ecco, un regalo per il quale non si possa ringraziare. Sarebbe molto zapatista”. Si sistemò il basco, mi disse qualcosa d’altro e se ne andò.

Ora, a più di 12 lune dalla sua assenza, posso raccontare quello che mi disse salutandomi quella mattina, con il sole che disegnava luci ed ombre.

Compagno subcomandante insurgente marcos”, mi disse mettendosi sull’attenti con grande vitalità.

Compagno Luis Villoro Toranzo”, gli dissi seguendo la mia vecchia abitudine di fare così per dire che ero pronto ad ascoltare.

Voglio chiederle una cosa”.

Non mi sfuggì l’abbandono dell’informalità, ma lo attribuii alla sua nuova professione.

Non dica niente a nessuno di tutto questo, almeno per il momento”, chiese.

Naturalmente”, dissi, “capisco. Il segreto, la clandestinità, certo, la famiglia non deve saperlo”.

Non è questo”, mi disse.

Voglio che lo dica in seguito”.

Quando?”, gli chiesi.

Lo saprà quando sarà il momento giusto. Per dirla a modo nostro: “quando arriverà il calendario e la geografia”.

Perché”, domandai curioso.

È un regalo che voglio fare ai miei figli e alla mia compagna”.

Don Luis, non scherzi, è meglio che regali a Juan una cravatta verde a pois rossi ed a Miguel una rossa a pois verdi, o viceversa; a sua figlia Renata un vaso e a Carmen un portacenere, o viceversa. Come in ogni buona famiglia, litigheranno. A Fernanda un quaderno di appunti, di quelli a righe. Sono inutili ed orribili tutti questi regali, ma quel che conta è il pensiero”.

Don Luis rise di gusto. Poi continuò serio:

“Racconti loro la mia storia. O meglio, questa parte della mia storia. Capiranno così che non mi nascondevo da loro. L’ho solo custodita come un regalo. Perché l’incantesimo dei regali è che sono una sorpresa. Non crede?”.

“Dica loro che gli regalo questo pezzo della mia vita. Dica loro che l’avevo tenuto nascosto non come si nasconde un crimine, ma come si conserva un regalo”.

“Guardi Sup, si diranno molte cose sulla mia vita, alcune buone, altre cattive. Ma questa parte, credo, sbaraglierà tutto, ma non con pena e dolore, ma con la vivacità di quel venticello fresco che tanto ci manca quando la pena dell’assenza ed i grigiori della serietà, della formalità e le citazioni si trasformano in lapide ed epitaffio”.

“Va bene, Don Luis”, gli dissi, “ma non scarti l’idea delle cravatte, del vaso, del portacenere e del quaderno di appunti”.

Se ne andò sorridendo.

Dunque Juan, Fernanda, familiari di Don Luis Villoro Toranzo, per anni ho conservato in segreto questo pezzo del grande puzzle che è stata la vita di Don Luis.

Non quella volta, ma in seguito, mentre la rabbia ed il dolore scaturivano dal corpo massacrato del compa maestro zapatista Galeano, ho capito il perché di conservare questo pezzo della sua vita.

Non lo nascondeva perché si vergognasse, né perché temesse che lo denunciassero al nemico dalle mille teste, o perché così si evitassero i tentativi di dissuaderlo.

Era perché voleva farvi questo regalo.

Un pezzo che provoca, che infonde coraggio, che agita, proprio come il suo pensiero che si fa vento birichino in noi.

Un pezzo in più della vita di Don Luis.

Il pezzo che si chiamava Luis Villoro Toranzo, lo zapatista dell’EZLN.

Cadde e tacque nel compimento del suo dovere, coprendo la posizione di sentinella in questo mondo assurdo, terribile e meraviglioso che siamo impegnati a costruire.

So bene che ha lasciato un’eredità di libri e di brillante traiettoria intellettuale.

Ma, mi ha lasciato anche queste parole affinché oggi io le pronunciassi:

“Perché ci sono segreti di cui non vergognarsi, ma di cui andare orgogliosi. Perché ci sono segreti che sono regali e non affronti”.

Ora e solo adesso, mentre vi consegno queste pagine, potrete leggere il titolo di questo testo in cui viene avvolto, con le mie rozze parole, il pezzo del puzzle che si chiamava:

“Luis Villoro Toranzo, lo zapatista”.

Bene. Salute e ricevete da tutti e tutte noi l’abbraccio che ci ha lasciato in custodia per voi il compa zapatista Don Luis.

Dalle montagne del Sudest Messicano, ed ora sotto terra.

Subcomandante Insurgente Marcos

Messico, 2 maggio 2014

Reso pubblico il 2 maggio 2015

Testo originale

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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SubTrasmissione in diretta del Seminario “Il Pensiero Critico di fronte all’Idra Capitalista”

LA DIRETTA DEL SEMNARIO SARA’ DISPONIBILE A PARTIRE DALLE ORE 18:00 DI DOMENICA 3 MAGGIO 2015 AL SEGUENTE  LINK

Omaggio a Luis Villoro Toranzo ed al maestro Galeano ad Oventik, 2 maggio 2015:

Palabras del Subcomandante Moisés

Maestro Zapatista Galeano: Apuntes de una vida

Subcomandante Insurgente Marcos: Luis el zapatista

Foto di Regeneración Radio

 VIDEO DELLA CERIMONIA

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 cideci
ESERCITO ZAPATISTA DI LIBERAZIONE NAZIONALE.

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