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Il diluvio è così forte che offusca la vista. Intervista a Raúl Zibechi sulle attuali rivolte latinoamericane

30/10/2019

Delle attuali rivolte latinoamericane, del ruolo dei popoli indigeni, dei giovani e delle donne, del ruolo degli Stati Uniti, delle elezioni in Bolivia e in Argentina, della congiuntura in Messico, dell’ultra-destra e di ciò che segue per chi cerca un mondo più degno, parla in questa intervista Raúl Zibechi, giornalista e scrittore uruguayano, conoscitore e accompagnatore di diverse lotte dell’America Latina. Un’intervista di Gloria Muñoz Ramírez.

Cosa sta succedendo in America Latina? Perché adesso le rivolte in Ecuador, Haiti e Cile?

Siamo di fronte alla fine di un periodo segnato dall’estrattivismo, fase attuale del neoliberismo o Quarta Guerra Mondiale. In questo senso credo che siamo di fronte all’autunno dell’estrattivismo perché il suo periodo d’oro è stato prima della crisi del 2008, quando i prezzi alti delle materie prime hanno permesso la crescita dei redditi dei più poveri senza toccare quelli dei più ricchi, senza riforme strutturali come l riforma agraria, urbana, fiscale e così via.

Le rivolte sono ben diverse da paese a paese. In Ecuador c’è una sollevazione – ce ne sono state una decina dal 1990 – ben organizzata e diretta dalla CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas de Ecuador), che per la prima volta ha coinvolti i poveri delle città. In Cile, in cambio, è un’esplosione, senza convocanti né direzioni ma con una crescente organizzazione territoriale attraverso le assemblee popolari. I settori più organizzati sono i Mapuche, gli studenti e le donne che stanno giocando un ruolo fondamentale.

Credo che la gente sia stanca, arrabbiata da tanta disuguaglianza e di impieghi, salute ed educazione spazzatura. Ci sono servizi pessimi per persone usa e getta. E questo è percepito soprattutto dai più colpiti, le e i giovani, che vedono di non avere futuro in questo sistema. Le persone approfittano delle crepe del sistema, come lo sciopero degli autotrasportatori in Ecuador per farsi ascoltare.

Qual è la tua lettura di ciò che sta succedendo in Bolivia, rispetto alle elezioni presidenziali nelle quali è stato rieletto Evo Morales e le successive mobilitazioni?

Un’altra frode. Evo Morales e la cricca che lo circonda, come il vicepresidente Álvaro García Linera, si aggrappano al potere che è l’unica cosa che gli interessa. Questa è una lezione importante: privi di ogni etica ai dirigenti di sinistra gli rimane solo la loro ossessione per il potere. Questa cosa merita un’analisi profonda. Come siamo arrivati a questo punto? Che cosa è successo perché l’unico interesse sia il potere e tutto ciò che lo riguarda, come il lusso e il controllo della vita degli altri? Morales non doveva presentarsi a queste elezioni perché ha convocato un referendum e ha vinto il No alla sua candidatura. Ha violentato la volontà popolare e adesso sta facendo lo stesso. È chiaro che la destra pretenda di approfittare di questa situazione ma non dimentichiamoci che la OEA, attraverso Luis Almagro, difende il regime di Morales e questo mi sembra molto sintomatico. Chi parla di colpo di stato omette che c’è un patto con la destra, i militari e la OEA, ossia gli Stati Uniti, per sostenere il governo di Morales.

Dobbiamo riflettere perché la sinistra non immagina di potersi slegare dal potere, perché non concepiscono la politica senza slegarsi dallo Stato. Tra le altre cose, perché ha abbandonato la costruzione di poteri popolari, perché non gli interessa che le persone si organizzino e fanno tutto il possibile per evitarlo, anche attraverso l’uso della repressione e del terrorismo di stato come in Nicaragua.

Che ruolo hanno i popoli indigeni nelle rivolte?

Sono il nucleo principale insieme alle donne e ai giovani. Quello che sta succedendo in Cile ha tre precedenti: la lotta del popolo Mapuche, quella degli studenti degli ultimi dieci anni e quella delle donne che l’anno scorso hanno occupato università e si sono alzate in piedi contro il patriarcato accademico. Mi fa sorridere quando dicono che il Cile si è svegliato. Quelli che si sono svegliati sono i giornalisti e accademici che stavano nel limbo. I “Los de Abano” non hanno mai dormito. L’anno scorso la risposta di tutto il Cile all’assassinio di Camilo Catrillanca è stata impressionante, con blocchi stradali durati un mese a Santiago e in altre trenta città.

I popoli originari hanno due grandi qualità. La prima è l’organizzazione territorio comunitaria che si sta approfondendo con la crescita dell’attivismo giovanile e delle donne, che hanno democratizzato le comunità. La seconda è che incarnano forme di vita potenzialmente non capitaliste, una cosa che nessun altro settore della società può offrire alla lotta. Educazione, salute e alimentazione in chiave non mercantile, al quale bisogna aggiungere la costruzione di poteri di altro tipo, non statali.

Per questo i popoli originari sono referenti per tutti coloro che lottano. Per questo i “bianchi delle città” agitano le bandiere Mapuche e le donne, studentesse e contadine ecuadoriane accettano l’orientamento degli indigeni. Mi piacerebbe dire che i popoli originari son oggi il principale referente delle rivolte, anche per i settori delle classi medie urbane. A Quito, le donne professioniste lavavano i bagni della Casa della Cultura, mentre donne e uomini originari discutevano in assemblee improvvisate. Lo hanno fatto come gesto di rispetto e di accettazione attiva della loro leadership, con un atteggiamento che dovrebbe farci riflettere dal cuore perché emoziona profondamente.

L’Uruguay ha rifiutato la Guardia nazionale, che invece, è stata approvata in Messico. Qual è l’equilibrio delle forze armate nelle strade?

Nei prossimi anni vedremo sempre più i militari nelle strade. Lula e Dilma, in Brasile, le hanno portate nelle favelas e nessuno ha alzato la voce, perché sono neri e “delinquenti”. Il tema del crimine organizzato è un pretesto perfetto, perché serve per lavare le coscienze della classe media della sinistra, che sono quelli che soffrono meno la violenza. Il futuro ministro dell’interno del Fronte Amplio in Uruguay, Guastavo Leal, sta perseguendo la vendita al dettaglio di “pasta base” (droga a basso costo simile al crack) con un accanimento speciale tanto da demolire le case degli spacciatori quando vengono arrestati. Non sono narcos, in senso stretto, sono poveri che sopravvivono nella delinquenza, ai quali applica metodi repressivi identici a quelli che Israele utilizza con i palestinesi. Tuttavia, sono stati scoperti in Europa carichi di cocaina di cinque tonnellate imbarcati nel porto di Montevideo.

L’uscita nelle strade dei militari nelle strade è inevitabile perché “los de arriba” hanno dichiarato guerra alla popolazione. E questo non ha nessuna relazione con destra o sinistra, è una questione di classe e di colore della pelle, è la politica dell’1% per rimanere in alto.

Che lettura dai al Messico in questo contesto latinoamericano?

Da molto tempo in Messico si sta incubando qualcosa di molto simile a quello che succede in Cile, una fenomenale esplosione che è stata posticipata innanzitutto dalla guerra e adesso dal governo di Andrés Manuel López Obrador. Ma la pentola sta accumulando pressione ed è inevitabile che in qualche momento succeda un’enorme insurrezione, quando la rabbia supera la paura. Non sappiamo quando ma il processo è in cammino perché la politica di implementare l’estrattivismo dell’attuale governo è una macchina di accumulazione di rabbia.

Dall’altro lato vedo in Messico un potere debole, un governo che si fa da parte di fronte ai narcos come è successo in Culiacán, ma mette pressione alle popolazioni come è successo in Morelos, quando hanno assassinato il difensore comunitario Samir Flores Soberanes. AMLO sta negoziando coi narcos passa sopra ai popoli originari, rivelando la miseria etica del suo governo. Ha detto che si è trattato di salvare vite e lo posso capire. Ma chi ha difeso la vita di Samir e di tutti gli altri assassinati in questo suo primo anno di governo?

Argentina e le elezioni. Il ritorno al progressismo è la soluzione?

Il problema è che ritorna una cosa che non è il progressismo. In Argentina non ritorna il kirchnerismo del 2003, ma un regime peronista molto repressivo, che sarà più simile al Perón del 1974 o al Menem del 1990. Il ciclo progressista è finito, anche se ci sono ancora governi che reclamano questa corrente. Il progressismo è stato un ciclo di prezzi elevati delle materie prime, che ha permesso di tramandare i ricavi delle eccedenze commerciali ai settori popolari. Ma, al di là di questo fattore economico, il ciclo è terminato per un altro fattore decisivo: è terminata la passività, il consenso tra le classi, e si sono attivati i movimenti e questo ha segnato un limite chiaro al ciclo, che è stato possibile solo per l’accettazione dal basso delle politiche dall’alto. Credo che il nuovo governo dovrà affrontare enormi difficoltà per il peso dei debiti che ha lasciato Macri, che porterà necessariamente a una politica di austerità. Il problema è l’aspettativa popolare che le cose cambino rapidamente e che porterà a un notevole miglioramento nelle attività economiche e nei salari.

Sappiamo che questo non è possibile, quindi si apre un periodo di imprevedibilità nella quale le persone non aspetteranno passivamente che gli vengano regalati dei benefici. In Argentina vedremo una potente sviluppo dell’estrattivismo, in particolare del petrolio e del gas di Vaca Muerta.

Costa Rica e Panama con rivolte studentesche. Che ruolo hanno i giovani?

I giovani sono uno dei settori più attivi. Se gli indigeni stanno per essere saccheggiati e le donne violentate e assassinate, i giovani sanno che non hanno futuro, perché una vita degna non può consistere in un lavoro di otto o dieci ore in un Oxxo, che col viaggio di andata e ritorno a casa diventa di quattordici ore sottomesso al lavoro, senza tempo né forze per fare altro che consumare con il poco che resta del salario. Quando ne hanno uno di salario. Solo una minoranza ha accesso a studi superiori, con fondi che gli garantiscono fino a oltre 40 anni una vita comoda ma che suppone un contrasto netto con i giovani dei settori popolari, con indigeni e neri. Lasciano i loro quartieri e subiscono la violenza della polizia o della droga, il che ci fa dire che vivono in una situazione di grave fragilità. Questo li porta in certi momenti ad integrarsi nella criminalità organizzata, che garantisce loro una vita più confortevole. Ma soprattutto accumulano rabbia, molta rabbia.

In Ecuador, dirigenti comunitari veterani erano sorpresi del fatto che i giovani si scontravano a mani nude con le forze armate, senza temere le conseguenze. Sono riusciti a far prigionieri centinaia di poliziotti che poi sono stati consegnati all’ONU o ad altre autorità, perché i dirigenti sono intervenuti prima che succedessero cose ben più gravi, dato che se fosse stato per loro li avrebbero liquidati all’istante, ai piedi delle barricate. Perché questa gioventù povera non ha esperienze di lotta organizzata e tende a togliersi la rabbia attaccando i suoi nemici, cosa che può provocare autentici massacri. Però sono lì, trasbordando da tutti i limiti immaginabili: dalle famiglie al quartiere, fino agli apparati repressivi e, naturalmente, dalle organizzazioni di sinistra. Qui dobbiamo lavorare duro per organizzarli.

Il ruolo dell’ultra-destra e il caso Bolsonaro in Brasile.

Dal momento in cui Bolsonaro è andato al governo, ha avuto una serie di insuccessi che ci hanno dimostrato la sua enorme incapacità di governare. Sono scoppiate crisi nel suo stesso partito, tra il presidente e i suoi alleati, con gli imprenditori e con i grandi agricoltori. La vera ultra-destra sono le forze armate, in particolare l’esercito, che ha il ruolo di stabilizzatore del governo. Credo che il grande problema del Brasile sia la tremenda insicurezza nella vita quotidiana che colpisce le classi popolari, in generale poveri e neri, che li porta a cercare rifugio nelle chiese evangeliche e pentecostali, come in figure che danno un’immagine di sicurezza, come Bolsonaro. Quello che dobbiamo chiederci è perché i settori popolari hanno abbandonato il Partito dei Lavoratori (PT) e si sono rivolti all’ultra-destra. La risposta semplice è che sono influenzati dai media. Una posizione che difendono accademici che si credono immuni ai media e che sottostimano le capacità popolari. La realtà è che la vita di chi vive nelle favelas è tremenda: precarietà lavorativa, pesante presenza della polizia militare, crimini e assassini da parte dello Stato, salute ed educazione di pessima qualità, timore per i figli, che cadono vittime dei proiettili in percentuali allucinanti. Le madri temono per i propri figli e per il loro futuro. Un clima ideale per la cattura dell’ultra-destra, in particolare nei giovani che si sentono rimpiazzati dalla forza dei loro coetanei.

In questo contesto, qual è il ruolo degli Stati Uniti?

La regione è lo scenario di una disputa per l’egemonia globale tra Stati Uniti e Cina. La penetrazione cinese si sta dimostrando addirittura peggiore di quella yankee. In Ecuador si costruiscono opere di infrastrutture, come dighe idroelettriche, con schiavi cinesi che commutano le proprie condanne lavorando in condizioni forzate, con punizioni corporali incluse. Nessuno deve credere che il capitalismo e l’imperialismo cinese siano meno aggressivi di quelli yankee. Il problema è che gli Stati Uniti hanno bisogno di riposizionarsi in America Latina per compensare la loro crescente debolezza in Africa, Asia e Medio Oriente. Una delle tendenze che vedremo nel futuro immediato è la distruzione degli Stati-Nazione, processo che è già cominciato in Messico e nei paesi del Centro America. Da questo punto di vista dobbiamo aspettarci il peggio.

Fino a dove?

La principale caratteristica di questo periodo post ciclo progressista è l’instabilità. Le destre non possono governare come dimostrano Cile e Ecuador. Ma i progressismi nemmeno, come dimostrano Bolivia e Nicaragua. Ma attenti, il problema non è questo o quel governo (il governo è sempre un problema), ma il sistema. Queste rivolte non sono contro un presidente ma contro un modello di distruzione della natura e di controllo sociale massivo, attraverso politiche sociali e militarizzazione che si complimentano per mantenere la popolazione soggiogata.

La risposta a “fino a dove”, non può essere altra che l’organizzazione popolare in ogni territorio, per resistere e costruire i mondi nuovi. Mi piace parlare di arche, perché è necessario sopravvivere collettivamente al diluvio che sta arrivando. Desinformémonos può essere considerata come un’arca dell’inter-informazione dei los de Abano, come il meccanismo per collegare le nostre condotte, come direbbe Alberto Maturana. Vale a dire, un’informazione da dentro il campo popolare o arca collettiva, che è imprescindibile per orientarci in senso emancipatori, ma soprattutto per muoverci nel mezzo di una tormenta che non fa vedere nulla, perché il diluvio è così forte che offusca la vista.

*** Tratto da Desinformemonos e tradotto da Christian Peverieri. https://www.globalproject.info/it/mondi/il-diluvio-e-cosi-forte-che-offusca-la-vista-intervista-a-raul-zibechi-sulle-attuali-rivolte-latinoamericane/22338

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Rompendo l’accerchiamento, autonomia in cammino

di Lorenzo Faccini, Andrea Mazzocco

29/10/ 2019

Come sostenitori del processo dell’autonomia zapatista, come aderenti alla Sexta o come semplici estimatori delle lotte anticapitaliste nel mondo, l’appoggio alle realtà che percorrono il cammino della rebeldía deve essere incondizionato, in tempi di calma apparente così come nei tempi dei grandi proclami. Abbiamo avuto la fortuna di vivere entrambe queste situazioni in prima persona, abbiamo potuto vedere gli zapatisti rompere l’accerchiamento dopo mesi di silenzi carichi di significati, mesi di azioni e non di parole. Muovendo dal presupposto che sia possibile ed assolutamente prioritario avviare un processo di decolonizzazione del sapere all’interno delle nostre istituzioni accademiche, crediamo che il primo importante passo sia scardinare i paradigmi culturali eurocentrici che veicolano l’interiorizzazione del modello economico neoliberista e colonialista. Questo intento ci ha condotto a San Cristóbal de Las Casas e, nel pieno del lavoro di ricerca per scrivere le nostre tesi sull’autonomia, gli zapatisti sono riusciti a sorprenderci ancora una volta.

Siamo arrivati in Chiapas il 28 luglio 2019 consci delle difficoltà intrinseche al nostro proposito accademico, nonostante le credenziali e le attestazioni di fiducia preparateci dai compagni e dalle compagne dell’associazione Ya Basta! Êdî Bese! In primo luogo, ci siamo scontrati con la legittima reticenza degli zapatisti dovuta alla lunga trafila di studiosi, intellettuali o presunti tali, che bussando alle porte dei Caracoles hanno riprodotto le note logiche estrattiviste anche in ambito culturale. Nel peggiore dei casi, nella totale disonestà intellettuale, hanno abusato della fiducia concessa per ottenere informazioni con l’unico scopo di strumentalizzare i contenuti osservati; ne è un esempio tutto nostrano Alessandro Di Battista con i suoi reportage.

Oltre a ciò, è apparsa lampante la recrudescenza della strategia della guerra di bassa intensità, o per meglio dire secondo la definizione zapatista, la guerra de desgaste. Concretamente si tratta di un’azione congiunta di pressione militare costante, come da noi osservato a più riprese, ed un’azione politica espressa attraverso progetti di sviluppo economici ed educativi atti a logorare la resistenza, con l’obiettivo di indurre le basi d’appoggio ad abbandonare l’organizzazione zapatista. I primi otto mesi di presidenza AMLO, da dicembre 2018 a luglio 2019, hanno visto esacerbarsi la tensione in Chiapas anche attraverso la creazione del nuovo corpo militare della Guardia Nazionale. In questo stesso periodo sono dieci i leader sociali indigeni assassinati in Messico, neanche sotto la presidenza di Peña Nieto si erano raggiunti questi numeri.

Nei primi giorni di permanenza abbiamo quindi ristabilito i contatti con tutte le formazioni di società civile che appoggiano la realtà zapatista, potendo renderci conto meglio della situazione: nessuno aveva più rapporti ufficiali con le Giunte di Buon Governo da diversi mesi. Le celebrazioni per l’anniversario della fondazione dei Caracoles (8-9-10 agosto), che solitamente venivano annunciate con largo anticipo e aperte alla società civile, si stavano avvicinando senza che vi fosse alcuna comunicazione. Abbiamo respirato questo clima di incertezza mista ad attesa anche nei vari incontri a cui abbiamo partecipato al CIDECI-UNITIERRA, baluardo di sapere autonomo, anticapitalista e indigeno a San Cristóbal.

Su consiglio di diversi compagni, decidiamo quindi di partire per le comunità dopo le celebrazioni. Il silenzio denso di aspettative che le aveva precedute viene finalmente sciolto proprio il 10 agosto, quando gli zapatisti, come di consueto, sorprendono il mondo con un criptico comunicato recante il video di Smells like teen spirits dei Nirvana. La degna risposta, con la tipica ironia zapatista, a chi da tempo speculava sul silenzio. Nella settimana successiva visitiamo prima di tutto La Realidad. Col senno di poi appare molto più comprensibile l’impossibilità della Giunta a riceverci immediatamente. L’ospitalità è comunque tanta, e ci permettono di accamparci al Campamiento permanente de paz per la notte. Abbiamo modo di confrontarci con alcuni compas sul periodo di tensione e sul primo comunicato che ha rotto il silenzio. Ci rechiamo poi a Morelia, dove veniamo ricevuti dalla Junta de buen gobierno. Attorno a noi fervono i lavori, ed anche se non potevamo ancora comprenderne la ragione, si percepiva un’aria densa di aspettative. Successivamente visitiamo Oventik e nuovamente Morelia. I comunicati nel frattempo proseguivano e non sembrava si dovessero fermare.

L’11 agosto un nuovo comunicato a confermare che no, gli zapatisti non sono stati inghiottiti dalla storia, e per dirla con le parole del gato-perro «l’intelligenza non muore, non si arrende. Casomai si nasconde e aspetta il momento di convertirsi in scudo e arma. Nei villaggi zapatisti, nelle montagne del sudest messicano, l’intelligenza trasformata in conoscenza la chiamano anche «dignità». Il 13 agosto altro comunicato, sembra che i lunghi mesi di silenzio, così eclatanti in un mondo che ha una necessità quotidiana di “novità”, non siano stati in fondo così improduttivi.

«I popoli zapatisti scesero dalle montagne. Nessuno capì come sopravvissero in quelle condizioni, benché si mormori che ricevettero cibo e indumenti dalle comunità del CNI. E, certo, strumenti musicali. All’arrivo nelle loro terre, gli zapatisti fecero quello che si fa sempre in questi casi: organizzarono un ballo e, con le note di marimba, tastiere, batterie, guitarrones e violini […] E così fu che i morti di sempre tornarono a morire, ma ora per vivere.Tutto questo è un mero esercizio di finzione. Non può accadere… oppure sì?» Nella mente di tutti noi che con apprensione seguivamo questa escalation di comunicati impenetrabili, si affollavano molte congetture. Era chiaro però che qualcosa di “grande” stava per avvenire. Il 15 agosto viene pubblicato un nuovo testo. Dopo la prima parte allegorica, un’analisi impietosa dell’azione socioeconomica del governo federale e un importante monito finale, «La natura è una parete elastica che moltiplica la velocità delle pietre che gli tiriamo. La morte non torna nelle stesse proporzioni, ma potenziata. C’è una guerra fra il sistema e la natura. Questo confronto non ammette sfumature né vigliaccherie. O si sta con il sistema o con la natura. O con la morte, o con la vita».

Il 17 agosto finalmente è tutto chiaro, non c’è più spazio per congetture ed interpretazioni. «Dopo anni di lavoro silenzioso, nonostante l’accerchiamento, nonostante le campagne di menzogne, nonostante le diffamazioni, nonostante i pattugliamenti militari, nonostante la Guardia Nazionale, nonostante le campagne contro insurrezionali travestite da programmi sociali, nonostante l’oblio e il disprezzo, siamo cresciuti e ci siamo fatti più forti. E abbiamo rotto l’accerchiamento». Eccole quindi le parole che si fanno azione, parole meditate, discusse, mediate democraticamente dal basso, perché la coerenza, valore ormai desueto nel linguaggio politico, richiede un’attenta riflessione prima di intraprendere un cammino, prima di muovere il primo passo. Gli zapatisti hanno la consapevolezza che il decisionismo compulsivo del nostro mondo sia un palliativo per lasciare tutto invariato. Lentamente, come loro natura, i Caracoles crescono e diventano 12, svegliando dall’assopimento chi immaginava la fine degli zapatisti.

Su questo comunicato, ci piacerebbe condividere alcune riflessioni. Prima di tutto, sentendoci coinvolti in prima persona, poniamo l’attenzione alla seconda parte del comunicato, quella in cui si esplicitano i prossimi passi del movimento. L’EZLN non ha mai nascosto l’importanza dell’appoggio internazionale alla sua causa, e in questa fase delicata chiama a raccolta la rete di appoggio invitando in primis a riallacciare i contatti diretti, per pianificare collaborazioni specifiche tramite incontri bilaterali con tutti i collettivi. Questo ha duplice valenza: l’aiuto effettivo e pratico che le associazioni possono portare in Chiapas, e la protezione implicita derivante dalla presenza di attivisti internazionali nei territori autonomi. La rete internazionale è infatti chiamata non solo a riprendere i progetti attivi in loco, ma anche a ripartire con una campagna di informazione globale, stimolando incontri e discussioni sulla lotta zapatista, in modo da far tornare il mondo a parlarne, come risposta all’oblio veicolato dallo stato federale messicano. Dal canto loro, gli zapatisti si impegnano a ripartire con gli incontri culturali organizzati nei Caracoles, programmando nuovi Ecuentros internacionales de mujeres que luchan, il festival CompArte (proponendo edizioni specifiche per le varie arti), gli incontri del ConCiencias (seminari di riflessione anticapitalista), il festival del cinema di Oventik e altri ancora.

La strategia di consolidamento appare abbastanza chiara: gli zapatisti, come portato avanti dal 2001 in poi, attuano gli accordi di San Andrés prendendosi ciò che gli spetta senza aspettarsi più niente dallo Stato, accompagnando le conquiste a una difesa attiva, riaccendendo l’attenzione mondiale sul Chiapas; monitorando la situazione prevengono possibili incursioni paramilitari e ripercussioni nei nuovi territori autonomi. L’obiettivo è chiaramente quello di evitare azioni esplicite contro di loro, anche se, intendiamoci, gli zapatisti non sono sprovveduti ed è lecito pensare che questa espansione abbia anche un risvolto di ampliamento e riorganizzazione della componente militare.

Ciò può far meglio comprendere l’importanza della prima parte del comunicato: gli zapatisti aumentano le loro aree di influenza. L’organizzazione cresce sulle adesioni autonome delle nuove famiglie che scelgono la strada della alegre rebeldía, non aumenta i territori grazie a conquiste militari. Per dirla con le parole del comunicato: «le comunità tradizionalmente affiliate ai partiti sono state colpite dal disprezzo, dal razzismo e dalla voracità dell’attuale governo, e sono passate alla ribellione aperta o nascosta. Chi pensava, con la sua politica contro insurrezionale di elemosine, di dividere lo zapatismo e di comprare la lealtà dei non-zapatisti, alimentando il confronto e lo scoramento, ha dato gli argomenti che mancavano a convincere tali fratelli e sorelle sulla necessità di difendere la terra e la natura».

Gli zapatisti ci forniscono gli strumenti per comprendere la natura di questa crescita esponenziale. In primo luogo essa è da attribuire al lavoro politico organizzativo interno, i cui principali interpreti sono le donne ed i giovani. Queste due categorie, probabilmente le più osteggiate e temute dal mondo occidentale, sono divenute nelle comunità zapatiste il principale motore per la crescita dell’autonomia. Assumendo ruoli e responsabilità civili si sono fatti interpreti delle nuove sfide imposte dal modello neoliberale garantendo la coerenza del cammino zapatista a fronte dell’importante avvicendamento generazionale che le comunità stanno vivendo. Le nuove generazioni di zapatisti sono cresciute nel contesto di autonomia, lavorando le terre recuperate, partecipando alla vita civile zapatista, usufruendo del sistema sanitario ed educativo autonomo, e proprio grazie a questo, sono consci del percorso storico de los pueblos indigena e delle ragioni che hanno portato al levantamiento e non sono disposti a fare un passo indietro.

Altro punto importante della prima parte del comunicato sta nella posizione dei nuovi Caracoles, e soprattutto di due di loro. Il CaracolColectivo el corazon de semillas rebeldes, memoria del companero Galeano” ha sede a La Union, su un lato del ejido di San Quintin, nella Selva Lacondona, posizionato vicino a una caserma dell’esercito federale, a sottolineare concretamente la volontà di rompere l’accerchiamento. Il CaracolJacinto Canèk”, invece, ha sede a San Cristóbal, proprio dove sorge il CIDECI-UNITIERRA (Centro Indigena de Capacitacion Integral). Porre un Caracol in città ha una valenza enorme, poiché presuppone la presenza di bases de apoyo zapatiste nel tessuto cittadino e il loro inquadramento nelle strutture organizzative civili zapatiste. Siamo tornati al CIDECi due giorni dopo l’uscita del comunicato, e abbiamo potuto toccare con mano le trasformazioni che stavano avvenendo in quel luogo. Compaiono i cartelli con il nome del Caracol e della Giunta di Buon Governo oltre alla palizzata di legno costruita adiacente alla recinzione per impedire la visione dell’interno; all’ingresso veniamo ricevuti dai compas con il passamontagna che verificano la nostra identità. Il CIDECI da sempre aveva ospitato gli eventi pubblici internazionali che l’EZLN organizzava in città, nella quale trovavano spazio gli interventi della Comandancia e di relatori locali ed internazionali. Non è dunque mai stato un luogo estraneo al percorso di autonomia zapatista, ma ufficialmente non sono mai stati delineati i rapporti che intercorrevano tra le due realtà. Costituiva però un polo di attrazione, un punto di riferimento e di confronto per studiosi, intellettuali, attivisti, vicini alla causa zapatista.

Fino al 17 agosto lo abbiamo dunque conosciuto come luogo nel quale venivano ospitati gratuitamente circa 200 tra ragazze e ragazzi indigeni dai 12 anni in su, la maggior parte provenienti principalmente dalle comunità della zona de Los Altos de Chiapas. Essi vi giungono per formarsi in base alle esigenze espresse dalle comunità di appartenenza o su propria iniziativa. Al CIDECI vi sono più di una quindicina di talleres (che potremmo tradurre come “corsi” o workshop) che formano i ragazzi rispetto a specifiche competenze che vanno dalla falegnameria, alla meccanica, al disegno professionale, alla tessitura, il calzaturificio, etc. I ragazzi stabiliscono autonomamente quali e quanti corsi seguire, nonché la durata della loro permanenza, che può protrarsi per molti anni, sino a quando non stabiliranno di aver conseguito le competenze necessarie per tornare ed avviare il progetto richiesto dalla comunità. Non vi sono vere e proprie modalità di valutazione o voto e molto spesso i ragazzi concludono il percorso circolare divenendo maestri o coadiuvando i talleres. Contestualmente vi è uno spazio dedicato all’alfabetizzazione in castigliano ed all’apprendimento delle lingue indigene.

Ovviamente tutto ciò avviene nel segno dell’autonomia totale, non vi sono finanziamenti statali ed anzi in più occasioni questa realtà è stata osteggiata e perseguita dalle forze di polizia.

L’autonomia e l’autosostentamento sono le prerogative principali, così, oltre agli stessi edifici, tutto il materiale presente nel CIDECI viene prodotto all’interno (ad esempio scarpe, sedie, tavoli, materiali didattici, strumenti musicali, attrezzi, vestiti…), persino i libri, intellettualmente prodotti all’interno sono anche materialmente impaginati, stampati e rilegati nel centro. Si persegue quasi completamente l’autonomia alimentare grazie ad una piccola zona adibita a coltivo ed allevamento.

Oltre alla portata rivoluzionaria di questa struttura, il valore aggiunto è rappresentato dal ruolo dell’Universidad de la Tierra, che offre spazi di riflessione condivisa tramite seminari e incontri settimanali aperti a tutti. Questi incontri problematizzano le tematiche sociali, culturali ed economiche declinate su scala locale, nazionale ed internazionale, creando occasioni di confronto aperte ai ragazzi ospitati nel centro ma anche a studiosi e attivisti internazionali.

Questi seminari mirano ad aumentare la consapevolezza della realtà quotidiana, delle dinamiche sottese ai provvedimenti politici ed economici presi in Chiapas e nel mondo, comprendendo i modelli che stanno alla base di essi.

Risultava piuttosto chiaro, già da prima del comunicato che annunciava la trasformazione del CIDECI nel Caracol 7, che vi fosse un’unità di visione ed intenti con il cammino delle comunità zapatiste. Sia il CIDECI che il sistema educativo autonomo zapatista infatti, muovono dal presupposto che l’aggressione socioeconomica venga veicolata in primo luogo attraverso il modello culturale e che l’autonomia educativa sia l’unico mezzo per consolidare una cultura in grado di declinare coerentemente la componente indigenista e la lotta contro il neoliberismo.

In questo senso gli zapatisti sono consapevoli che il percorso di autonomia dipenda necessariamente dall’opposizione al modello neoliberista. Questo, infatti, mira ad erodere le basi sociali ed economiche delle comunità attraverso un’azione culturale volta a diffondere i semi dell’individualismo, aprendo crepe nell’ancestrale base sociale e culturale comunitaria, che per secoli ha costituito la miglior arma difensiva per queste popolazioni. Gli zapatisti sono consci che l’individualismo sia la testa d’ariete per veicolare le logiche capitalistiche ed egoistiche necessarie ad imporre un modello sociale ed economico a loro alieno. Per questo è di fondamentale importanza, dopo secoli di educazione eurocentrica che spinge ad interiorizzare un sistema valoriale e culturale estraneo ed omologante, decolonizzare il pensiero. L’obiettivo è piuttosto arduo perché significa affrontare secoli di stigmatizzazione del retaggio indigeno che hanno indotto una parte de los pueblos indigenas a rinnegare le proprie origini a causa del diffuso razzismo presente in Messico.

Gli zapatisti da tempo hanno affrontato questo nodo come una priorità del percorso di autonomia, sviluppando un sistema educativo che mira a recuperare il patrimonio orale e scritto delle numerose lingue presenti in Chiapas, ad affrontare lo studio della storia al di fuori dei paradigmi eurocentrici recuperando così consapevolezza del proprio ruolo e le ragioni del levantamiento. I contenuti infatti non vengono solo appresi ma si stimolano gli studenti ad analizzare i processi e le cause dei fenomeni. Sin dalla giovane età si giunge dunque alla consapevolezza che la strenua difesa del proprio patrimonio culturale e sociale, nonché del modello produttivo collettivo tradizionale, siano l’unica arma per resistere alla pressione del modello imperante che prevedrebbe il loro asservimento al sistema, presentandolo come integrazione.

In questa logica, l’annessione del CIdeCI ai territori autonomi zapatisti pone nuove sfide, e fa sorgere diversi interrogativi sul ruolo che questa struttura assumerà all’interno del sistema educativo autonomo.

Ciò di cui possiamo essere certi è che il processo di resistenza culturale necessario per proseguire la battaglia al modello economico continuerà a crescere, la consapevolezza delle nuove generazioni non si può arrestare, è un fiume in piena che necessariamente scorre verso il mare. Per dirla con le parole del Sup Moises «voi non siete che uno sputo nel mare della storia. Noi siamo il mare dei nostri sogni. Voi siete solo polvere nel vento. Ik O’ tik (noi siamo vento)». https://www.globalproject.info/it/mondi/rompendo-laccerchiamento-autonomia-in-cammino/22334?fbclid=IwAR2mFYGUes5gd6Ky8pDBb_jZP23LvWWuC2vSnH7JZveZlkium8B2fLjIG4w

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