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Archive for agosto 2018

(Racconto letto al termine del CompARTE PER LA VITA E LA LIBERTÀ 2018 nel Caracol di Morelia, Torbellino de nuestras palabras, montagne del sudest messicano.) #EZLN #SubcomandanteGaleano

L’ULTIMA BRIOCHE NELLE MONTAGNE DEL SUDEST MESSICANO.

Forse è stato per una serie di eventi aleatori, senza legame apparente tra loro che la tragedia si è sviluppata.

O forse si è trattato di una semplice coincidenza, un caso sfortunato. Come se il destino avesse alimentato le voci sulla sua esistenza lanciando i pezzi di un puzzle sulle teste rotte di umani e macchine.

O per caso la Tormenta (che lo zapatismo insiste nel segnalare e che, come per tutto quello che dice, nessuno più nota) si era imbattuta in uno “spoiler“, un piccolo anticipo di quello che si avvicinava. Come se, nel software incoerente con cui sembra funzionare la realtà, fosse apparso un avviso urgente, un “warning” inavvertito, un segno che avrebbe potuto essere rilevato ed interpretato solo dalle più avvezze vedette che, negli angoli del mondo, sono impegnate a scrutare orizzonti che, tanto lontani, neanche appaiono come variabile nelle frenetiche statistiche del sistema mondiale. Dopo tutto, le statistiche servono per segnalare tendenze che cancellano drammi quotidiani. Che cosa è, dopo tutto, l’omicidio di una donna? Un numero. Una più è una meno. Le statistiche diranno che ci vogliono altri più numeri di questi omicidi “di genere” per incidere su una tendenza: quella della cavalcata fuori controllo del sistema verso l’abisso scivolando su sangue, fango, macerie, merda, distruzione. All’orizzonte? La guerra. Sul sentiero percorso? La guerra. Perché nel sistema capitalista la guerra è l’origine, la strada e il destino.

Infine, forse il delirio. Questo è solo un racconto e bisogna fare attenzione che in esso non si infilino riflessioni tendenziose, cattive idee, pensieri malsani, oziosi cavilli, provocazioni.

Chi qualche volta ha avuto la sfortuna di guardare un film col defunto SupMarcos, racconta che era insopportabile. Beh, non era solo insopportabile in quel frangente, ma ora sto parlando di guardare un film. Bastava che nel film saltasse fuori un’arma da fuoco perché il defunto mettesse in “pausa” e partisse in una lunga ed oziosa dissertazione su precisione, energia, portata, potere di fuoco e le brevi o lunghe parabole che un proiettile tracciava nella sua rotta verso “l’obiettivo”. Poco importava che in quel momento di pausa la trama si svolgesse, o che chi stava guardando il film si angustiasse senza sapere se l’eroe (o l’eroina, non dimenticare l’equità di genere) si salvava o no. No, lì si manifestava l’inutile spreco di erudizione: “quella è una carabina M-16, calibro 5,56 mm NATO, chiamato così per distinguere le munizioni fabbricate dai paesi dell’Alleanza Atlantica del Nord da quelle del Patto di Varsavia, ed eccetera, eccetera”. Certo, la compagnia cinefila non sapeva che cosa fare: se dimostrava interesse, il defunto poteva dilungarsi; se, invece, mostrava indifferenza, il defunto poteva interpretare la cosa come una sua non chiarezza di spiegazione e si sarebbe dilungato ancora di più, arrivando, chiaramente, alla guerra fredda. Ed allora il SupMarcos si sentiva obbligato a spiegare che il termine “guerra fredda” era un ossimoro, un’arguzia del sistema per ovviare alla morte e distruzione che avevano segnato quell’epoca. Proseguiva quindi con la “quarta guerra mondiale” e così via fino a che i popcorn si raffreddavano od erano diventati un impasto di mais in salsa “Valentina”.

Beh, sto già diventando uguale a lui. La questione era che se il SupMarcos assisteva alla proiezione, bisognava poi vedere il film o le serie due volte: una per subire le interruzioni, l’altra per capire la trama. Per questo dico che un racconto è un racconto e non una discussione politica. Anche se Difesa Zapatista usi la “discussione politica” per occultare le prove della “violenza di genere” che, sotto forma di ceffoni, applica allo stoico Pedrito, il bambino che, senza saperlo né volerlo, assume il ruolo di nemesi della bambina e del suo indefinibile gatto-cane.

Dove eravamo? Ah, sì, nel perché di quello che vi racconterò più avanti.

Il fatto è che, quell’alba, confermò ciò che temevo: erano finite le brioche. Tutte. Perfino la riserva strategica (destinata a far fronte alla prevedibile apocalisse zombi, ad un’invasione extraterrestre o alla caduta di un meteorite) era a zero.

Che cosa era successo? Perché, come nelle tragedie greche e nei corrido messicani, non succede niente fino a che succede.

Doña Juanita, trincerata nelle cucine del CIDECI, a San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, Messico, era in sciopero: niente tamales, niente cuche (maiale, in Chiapas), niente tacos e salse, niente intrugli ricchi di carboidrati, grassi e colesterolo. E, oh disgrazia, niente brioche. Adesso solo cibo sano, cioè verdure, verdure e ancora verdure. Niente di niente. Viva resistenza e ribellione. Abbasso il cibo spazzatura e fast food.

Quando me ne accorsi mandai un messaggero per convincere Doña Juanita a fare un’eccezione; che la capivo, ma che io aveva letto in un libro che le brioche erano molto nutritive; che se lei avesse fatto le brioche, sarebbe rimasto “entre nous“, non si sarebbe venuto a sapere. Il messaggero ritornò sconsolato: non era nemmeno riuscito a parlare con Doña Juanita che se ne stava trincerata insieme ai suoi compas di cucina cantando “no, no, nos moverán, y el que no crea que haga la prueba, no nos moverán“. Chiesi al messaggero che cosa aveva fatto. Disse che si era messo a cantare, che il coro era bello e così aveva afferrato una chitarra ed accompagnato l’inno.

Io non mi lasciai sconfiggere da questioni che relegai al rango “di genere”. Dopo tutto, Doña Juanita è una donna e ci sono cose che le donne non capiscono.

Ricorsi allora all’arma ultra segreta dell’ezetalene: il compa Jacinto Canek.

Molto lontano da queste montagne, ma piantato in altre, il compa Jacinto Canek ne sa di cucina. Fa meraviglie con solo qualche pentola e padella. Ma possiede un dono speciale per fare il pane e i dolci. Si mormora che c’è gente che arriva dai più diversi angoli del mondo per assaggiare il suo pane. Come dimostrazione della “altra globalizzazione”, la sua pasticceria ha deliziato il palato di 5 continenti.

Il segreto sta nel metterci tante uova”, mi confessò un giorno il compa Jacinto Canek mentre aspettavamo, io con impazienza, che le brioche uscissero dal forno. Anche se lui si riferiva ai dolci, io dissi quasi di riflesso: “come in tutto, Don Jacinto, come in tutto” [in spagnolo “huevos” è usato anche nel senso di “avere le palle” – N.d.T.].

Per una questione di solidarietà di genere, confidavo che il compa Jacinto Canek facesse onore al suo nome di lotta e contribuisse all’uscita dalla grave crisi che si intravedeva.

Una missione di tale trascendenza richiedeva una posizione drastica. Allo scopo di zittire le critiche che già prevedevo arrivare dalle femministe, incaricai l’insurgenta Erika di andare fino alle terre dove Jacinto Canek difendeva con cappa e spada i suoi segreti culinari.

Dissi ad Erika che aveva una missione molto importante da compiere. Che doveva andare da Jacinto Canek e raccontargli una leggenda: i primi dei, quelli che crearono il mondo, crearono le brioche affinché gli umani si facessero un’idea del paradiso. Ma poi arrivò lo stramaledetto sistema capitalista con i suoi Bimbo-Marinela, la Tía Rosa, Wonder [marchi di merendine in commercio in Messico – N.d.T.] eccetera, che corruppero il sacro manicaretto degli dei.

Che quelli che facevano dolci artigianali erano i custodi della memoria, quelli che preservavano il sacro graal che permetteva la comunicazione tra umani e dei.

Ovviamente la insurgenta Erika mi domandò che cosa fosse il “sacro graal”. Le dissi che era qualcosa di molto importante, di sacro, da cui dipendeva il destino dell’umanità.

Erika se la rise dicendo “Nah, te lo sei inventato, Sup, tu vuoi soltanto le brioche”.

Io feci la faccia da offeso e la congedai con i rimproveri di rigore.

Dopo giornate che immagino spossanti, la insurgenta Erika tornò con una grande borsa di pane e dolci. Non riuscii a trattenermi: applaudii. E devo confessare che i miei begli occhi si inumidirono di gratitudine.

Senza rispondere al saluto di Erika, le strappai di mano la borsa e vuotai il contenuto sul tavolo. Niente. C’erano conchas, trenzas, orejas, moños, polvorones, bolillos, teleras, chilindrinas, marquesotes, pan de elote, empanadas, hojaldras (senza offendere i lettori), cemitas, ciambelle e perfino il cosiddetto “pane dell’amore”. Ma nemmeno una brioche, neanche una sola.

Orrore.

Mi accasciai sulla sedia con un sapore amaro a riempirmi la vita.

Allora la insurgenta Erika tirò fuori dal suo zainetto un’altra borsa, più piccola. Avvolta in fogli di plastica e carta apparve una brioche!

È riuscito a fare solo questa”, mi disse Erika, “non ne ha più fatte perché sta ballando con sua moglie. E chissà fino a quando”.

La insurgenta Erika se ne andò.

Con estrema attenzione, come se si fosse trattato di un prezioso pezzo di fine cristallo, misi la brioche sul tavolo.

Con tutta la faccenda della Tormenta, l’Idra e l’apocalisse-tutto-compreso di mio fratello giurato, sentenziai:

Questa è l’ultima brioche sulle montagne del sudest messicano”.

Non sapevo se mangiarla o farle un altare, un omaggio premonitore a ciò che significava: la fine di un’epoca, l’inappellabile sentenza del destino, la collera degli dei ignoti, lo sdegno ravvisato in uno sguardo desiderato, il danno collaterale della guerra capitalista.

La guardai, sì. La guardai con mal dissimulata lussuria. Con delicatezza le mie dita sfiorarono appena i suoi contorni zuccherati, la fessura circolare che esaltava il seno univoco dell’essere unigenito, la voluttuosa figura che non solo diceva ma gridava: “sono una brioche, ma non una brioche qualsiasi, sono l’ultima brioche”.

Così mi trovavo, cioè pensando se nel negozio della cooperativa avevano la nota bibita di cola con cui onorare l’ultima brioche, quando, come a ratificare la disgrazia, apparvero sulla porta…

Difesa Zapatista e il gatto-cane.

Balzai in piedi il più rapidamente possibile e, cercando di coprire col corpo l’oscuro oggetto del mio desiderio, cominciai a balbettare incoerenze:

“Eh, no, non c’è una brioche sul tavolo. No, non la sto nascondendo. No, non c’è niente dietro di me. Ehi, che caldo fa oggi, e le zanzare sono tremende, credo che pioverà. Pensi che pioverà?”.

Credo che Difesa sospettò qualcosa, perché mi girò intorno e vide la brioche.

Mi guardò con riprovazione e disse:

Sup, devi condividere”.

Il gatto-cane abbaiò o miagolò, o vallo a sapere, ma suppongo in appoggio di Difesa Zapatista.

Immagino che sentendosi richiamata dalla parola “brioche” apparve, chissà da dove, una bambina che tentava di raggiungere la brioche con una manina mentre nell’altra aveva un orsacchiotto di peluche.

La allontanai dal tavolo e, seguendo i modi del defunto, le chiesi:

E tu chi sei? Non ti conosco”.

Io mi chiamo Speranza e di cognome “zapatista” e questo è il mio orsacchiotto ed abbiamo fame”.

Sentendo il nome della bambina non potei non apprezzare la reiterazione dei paradossi di queste terre.

La Speranza Zapatista si ritirò dopo diversi tentativi di quello che la nuova teoria sociale chiamerebbe “accumulazione per predazione di brioche”, una fase ancora in sviluppo del capitalismo.

Difesa e il gatto-cane mi guardavano con più di 500 anni di reclami sperando nell’impossibile: che io condividessi con loro l’ultima brioche delle montagne del sudest messicano.

Non è possibile”, mi difesi con durezza, “ce n’è una sola. Se ce ne fossero state due o di più, si potevano distribuire, ma siccome ce n’è solo una, non si può condividere, è solo per uno”.

Sottolineai “uno” per marcare la differenza di genere: “l’uno” escludeva Difesa Zapatista, Speranza ed il gatto-cane, il quale, non si sa se è cane o gatto, e tanto meno se è maschio o femmina.

Seguendo la quinta legge della dialettica (nota: la prima legge della dialettica è “tutto ha a che vedere con tutto”; la seconda è “una cosa è una cosa ed un’altra cosa è non rompetemi”; la terza è “al diavolo l’universo e la materia”; la sesta è “non c’è problema sufficientemente grande che non possa essere aggirato”)…

Vi dicevo che la quinta legge della dialettica dice che può sempre piovere sul bagnato e, per confermarla, riapparve Speranza Zapatista ora accompagnata da due bambini zapatisti: uno indossava un cappello vaquero più grande di lui e si presentò con “io sono il Pablito“; l’altro indossava un cappello modello “Don Ramón en el Chavo del 8”, anche se sembrava più un casco di paglia, e disse che lui era “Amado, Amado Zapatista” (volevo rifilargli un ceffone per volermi sostituire).

Essendo in svantaggio numerico, analizzai le mie possibilità:

Potevo, per esempio, mettermi nella classica “modalità matanga disse la changa“, afferrare la brioche e fuggire in quello che nella teoria militare si chiama “ripiegamento strategico”.

Opzione scartata: il commando infantile zapatista mi aveva circondato.

Potevo travolgerli, seguendo la modalità del Fondo Monetario Internazionale di fronte a governi progressisti e non progressisti, ma correvo il rischio di inciampare e di far cadere il sacro graal. Questo avrebbe avvantaggiato il gatto-cane la cui abilità nel prendere le cose che cadono era stata già dimostrata in un altro racconto che vi narrerò in un’altra occasione.

Optai quindi per la demagogia in voga e, rivolgendomi al commando infantile, dissi:

“Guardate, dovete comprendere la congiuntura, la correlazione delle forze non è favorevole. Non è tempo di radicalismi. È meglio una transizione tranquilla, aspettare, per esempio, che ci siano più brioche, e allora sì. Ma ora voi dovete aspettare pazientemente. Per esempio, se c’è una bambina che si chiama “Difesa Zapatista” ed un’altra che si chiama “Speranza Zapatista”, può essere che ce ne sia una che si chiami “Pazienza Zapatista”. Allora, andate a cercarla e quando la troviate, fatele un bel discorso politico e poi vedremo”.

“Non c’è”, rispose Difesa Zapatista, ed aggiunse maliziosamente: “ma c’è una compagna che si chiama “Calamità”, cioè, “La Calamità Zapatista”. Vedrai se la portiamo”.

Un brivido scosse il mio corpo sensuale.

Disperato, mi resi conto che i miei argomenti non erano convincenti.

Immaginai allora il cataclisma terminale: una moltitudine di bambine e bambini zapatisti che circondao la mia capanna, in altri tempi il comando generale dell’ezetaelene; insulti nelle diverse lingue di origine maya; Difesa Zapatista che ordina “portate la legna di ocote“; Speranza che tira fuori, chissà da dove, un accendino, mentre il suo orsacchiotto, ve lo giuro, si trasformava in “Chuky, la bambola assassina“; il gatto-cane che abbaia e miagola; il Pedrito che balla con la promotrice di educazione e il Pablito che canta quella del moño colorado e l’Amado che fa la seconda voce (sì, gli uomini sempre in un altro canale); l’ocote acceso che si democratizza; le prime fiamme che lambiscono le assi di legno e creano un cerchio di fuoco dentro il cerchio infantile; ed io, eroico, abbraccio la brioche pronto a morire prima di consegnare “my tresaure” a quella massa irriverente alta solo qualche spanna da terra.

Era inutile tentare di dividerli e portarli a scontrarsi tra loro: la brioche li univa ed io non potevo cederla.

È vero, avrei potuto lanciarla e, approfittando della confusione, cercare un nascondiglio. Ma dubito che litigherebbero per la brioche. Sicuramente seguirebbero la loro tradizione di condividere perfino il poco che hanno, proprio come faceva la banda del defunto SupMarcos dopo aver assaltato il negozio “La Nana Zapatista” alla Realidad.

Ma niente da fare, era la mia brioche. Lei ed io eravamo uniti dal destino. Nei miei pensieri si affollavano gli antichi scritti (scritti da me): “al principio dei tempi, gli dei crearono la brioche e videro che la brioche era buona ed allora crearono il Sup affinché di lei ne godesse e se la pappasse senza condividere”. Ergo, la brioche era di mia proprietà per mandato divino e quei nani e nane eretici volevano spogliarmi di lei, commettendo così il più grande dei peccati: sfidare la proprietà privata della brioche che, come tutti sanno perché è in tutti i libri di storia, è il fondamento della civiltà, dell’ordine e del progresso.

Era in gioco il futuro del mio mondo. Se condividevo la mia brioche, l’umanità sarebbe tornata all’età della pietra, ad un mondo senza internet, senza reti sociali, senza i film e le serie in streaming e, orrore degli orrori, senza gelato alla noce.

Compresi allora che nel mio bello e ben formato corpo risiedeva l’ultima opportunità dell’essere umano.

Se avessi condiviso la brioche, potevano succedere cose terribili. Per esempio, le donne avrebbero potuto ribellarsi. Non una, né due. Tutte. Milioni di Difese, Speranze e Calamità Zapatiste che saltano fuori da tutti gli angoli del pianeta.

L’apocalisse.

La distruzione totale del mondo per come lo conosciamo.

La fine dei tempi.

La catastrofe finale.

Mi spaventai.

Allora, feci un errore di cui non finirò mai di pentirmi: senza che ce ne fosse bisogno, dissi:

Inoltre, è l’ultima”.

L’ultima!”, ripetè la bimba con allarme e sorpresa.

Difesa Zapatista si fece pensierosa. Io sentii un brivido percorrere il mio voluttuoso corpo. Non c’è niente di più temibile di una bambina che pensa.

Difesa Zapatista ruppe il silenzio:

Va bene, allora giochiamo e chi vince si prende la brioche”.

Io volevo dire che non dovevo proprio giocare a niente scommettendo la mia brioche, perché era mia, mia-di-me-con-me, my tresaure, il prodotto del mio lavoro… beh, il lavoro era stato del compa Jacinto Canek, ma per solidarietà di genere e in sua rappresentanza, spettava a me).

Mentre costruivo la mia difesa, la idem zapatista, aggiunse:

“Ed in onore del gatto-cane qui presente, il gioco sarà il “tris”. Chi vince, vince la brioche”.

Sentendo questo, interruppi nella testa la mia brillante dissertazione giuridico-gastronomica e domandai:

“Tris? Quello che si gioca con cerchi e croci e vince chi li infila in una linea orizzontale, verticale o diagonale?”

“Quello”, disse la bambina e nel suo quaderno tracciò lo schema del “tris”, il gioco della mia infanzia che, avendolo giocato qualche volta, sapevo senza vincitore.

Se chi legge questo racconto è della cosiddetta “generazione digitale”, gli risparmio la consultazione di wikipedia:

“Il gioco del tris, noto anche come Ceros y Cruces, tres en raya (in Perù, Spagna, Ecuador e Bolivia), juego del gato, Triqui (in Colombia), Cuadritos, Gato (in Cile e Messico), Triqui traka, X Zero, Tic-Tac-Toc Triqui traka, Equis Cero, Tic-Tac-Toc (negli Stati Uniti), è un gioco di carta e penna tra due giocatori: O e X segnano alternatamente gli spazi in una tabella di 3×3.

Feci velocemente qualche calcolo e arrischiai:

E se c’è pareggio?

Difesa Zapatista guardò il gatto-cane. Il gatto-cane guardò Difesa Zapatista. Speranza guardò entrambi. Pablito ed Amado guardarono la brioche.

Dopo qualche secondo, il gatto-cane abbaiò-miagolò. La bambina Difesa, rivolgendosi all’animaletto domandò:

“Sei sicuro?”

Il gatto-cane sbuffò come per dire “non so come puoi dubitare di me”.

La bambina allora mi disse: “se c’è pareggio, la brioche resta a chi ce l’aveva dall’inizio”.

“Cioè io”, dissi assicurandomi che non ci fossero trappole legali nell’accordo.

“Sì”, disse senza preoccupazione Difesa Zapatista.

Bene”, dissi, assaporando in anticipo la doppia vittoria: il trionfo di genere e la brioche che non era una brioche qualsiasi, era l’ultima brioche nelle montagne del sudest messicano.

“Allora, cominci tu o io?”, domandai alla bambina mentre tiravo fuori un foglio bianco e la mia penna nera con inchiostro indelebile.

“Io non gioco. Mi appello al diritto di cavalleria. Scelgo il gatto-cane qui presente come mio campione. Combatterà lui al mio posto”, rispose Cersei, scusate, Difesa Zapatista.

“D’accordo”, dissi fiducioso. Dopo tutto, questo mi salvava dalle critiche di genere per aver vinto su una bambina, ed il gatto-cane, beh, era un gatto-cane, quindi non c’era nulla da temere.

L’animaletto saltò con un balzo sul tavolo di legno, scostò il foglio con un gesto disgustato e, con quello che mi sembrò un sorriso burlone, tirò fuori le unghie ed in un lampo, tracciò il campo di battaglia sulla superficie del tavolo.

Non che mi lamenti che abbia graffiato il tavolo, dopo tutto è pieno di bruciature e macchie di tabacco, ma mi sembrò, diciamo, poco professionale da parte del gatto-cane.

Stante così le cose, tirai fuori il mio coltello ed estrassi la sua lama affilata con sguardo malefico.

Nel lampo della lama metallica l’universo intero sembrò trattenersi, come se il suo movimento o immobilità futuri dipendessero da quello che si stava svolgendo su quel vecchio tavolo di legno: testa o croce, vita o morte, ombra o luce, brioche o caos.

Ok, esagero, ma il gatto-cane e chi ve lo sta raccontando, scambiammo gli stessi sguardi che, da secoli, scambiano i concorrenti che sanno che, in un confronto, non si giocano solo la vita, ma l’intero domani.

Il gatto-cane tese la mano, o meglio, la zampa, come per concedermi l’inizio, almeno così lo interpretai.

Con decisione, emulando Kasparov, tracciai il mio cerchio al centro. Benché sapessi che il centro non porta a niente, dentro di me pensavo che, in questo caso, un pareggio era una vittoria, perché la brioche sarebbe rimasta al suo legittimo padrone, cioè, la mia pancia.

Il gatto-cane, come se richiamasse la Sexta dalla sua parte, segnò in basse e a sinistra.

Io volli abbreviare la sua sofferenza e ripetei il centro, ma in basso, sull’onda progressista.

Il gatto-cane, come c’era d’aspettarsi, bloccò senza esitazione al centro, come a dire che il centro sotto neutralizza sempre il centro sopra.

Attaccai sul fianco sinistro, volendo sorprendere il gatto-cane, ma bloccò di nuovo.

Infine, prevedendo già il pareggio, tentai la diagonale dall’alto in basso, da sinistra a destra, come la socialdemocrazia in decadenza.

Nuovo blocco del gatto-cane.

Terminai sopra a destra, per puro gioco perché il pareggio era in vista ed il mio trionfo era ormai inopinabile.

Mi preparavo a riporre nel cassetto la brioche, quando Difesa Zapatista disse:

“Un momento! Al gatto-cane manca un tiro!”.

Ma è già pieno”, dissi protestando.

Il gatto-cane sorrise furbescamente e con le sue unghie più affilate tracciò il non previsto: come se disegnasse un mondo nuovo, aggiunse un’estensione al diagramma:

E lentamente, con insano piacere, tracciò la croce nella nuova casella e vi giuro che il legno stridette, lugubre quando tracciò la diagonale della vittoria.

“Abbiamo vinto!”, gridò Difesa Zapatista e prese la brioche mentre l’animaletto saltellava girando su sé stesso.

Uscirono correndo, con Difesa Zapatista che teneva in alto la brioche come se sventolasse una bandiera universale.

Prima di andarsene, Speranza Zapatista, facendo onore al suo paradosso, si avvicinò e dandomi una pacca sulla spalla mi disse:

“Non preoccuparti Sup. Poi ti racconto di cosa sapeva il dolcetto che ti ha vinto il gatto-cane”.

Anche la Speranza se ne andò e con lei idem la mia ultima.

Mentre li guardavo allontanarsi, pensai che è questo il problema con lo zapatismo, credetemi: se i suoi sogni ed aspirazioni non stanno in questo mondo, ne immaginano un altro nuovo… e sorprendono con il loro impegno per ottenerlo.

E non solo con lo zapatismo.

Nell’intero pianeta nascono e crescono ribellioni che si rifiutano di accettare i limiti di schemi, regole, leggi e precetti.

Perché non sono solo due i generi, né sette i colori, né quattro i punti cardinali, né uno il mondo.

Così come Difesa Zapatista, il gatto-cane e la banda formata dal Pedrito, il Pablito e l’Amado, noi, nosotroas abbiamo solo un obiettivo: accudire la Speranza Zapatista.

Se questo mondo non è fatto per questo, bisognerà farne un altro, uno dove ci stiano molti mondi.

Con questi pensieri, sospirai e mi dissi allo specchio: “avresti dovuto condividere”.

-*-

Tan-tan.

Dal caracol Torbellino de Nuestras Palabras, montagne del sudest messicano, pianeta terra.

Il SupGaleano.

Agosto 2018,

nel 15° anniversario dei caracol zapatisti

e delle Giunte di Buon Governo.

 

Traduzione “Maribel” – Bergamo

Testo originale: http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2018/08/26/la-ultima-mantecada-en-las-montanas-del-sureste-mexicano/

 

 

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#EZLN 300. Terza ed ultima parte: UNA SFIDA, UNA AUTONOMIA REALE, UNA RISPOSTA, DIVERSE PROPOSTE, E QUALCHE ANEDDOTO SUL NUMERO “300”. #SubcomandanteInsurgenteMoisés, #SupGaleano

E poi cosa viene?

Remare controcorrente. Niente di nuovo per noi, nosotroas, zapatiste, zapatisti.

Noi lo vogliamo ribadire – ci siamo consultati con le nostre comunità -: qualu nque caposquadra deve essere contrastato, chiunque; e non solo chi propone una buona amministrazione ed una corretta repressione – cioè, questa lotta alla corruzione ed il piano di sicurezza basato sull’impunità -; anche chi dietro sogni avanguardisti vuole imporre la sua egemonia ed omogeneizzarci.

Non cambieremo la nostra storia, il nostro dolore, la nostra rabbia, la nostra lotta, per il conformismo progressista ed il suo correre dietro al leader.

Forse qualcuno lo dimentica, ma noi non dimentichiamo che siamo zapatisti.

E riguardo alla nostra autonomia – con la faccenda che sì la si riconosce, o no non la si riconosce -, noi abbiamo fatto questo ragionamento: l’autonomia ufficiale e l’autonomia reale. Quella ufficiale è quella riconosciuta dalle leggi. La logica sarebbe questa: hai un’autonomia, ora la riconosco in una legge e quindi la tua autonomia dipende da questa legge e comincia a non mantenere più le sue forme, poi, quando ci sarà un cambio di governo, allora devi appoggiare il governo “buono” e votare per lui, promuovere il voto per lui, perché se arriva un altro governo abolirà la legge che ti protegge. Quindi diventiamo i peones dei partiti politici, come è successo con i movimenti sociali in tutto il mondo. Non importa più quello che si sta facendo nella realtà, quello che si sta difendendo, ma quello che la legge riconosce. La lotta per la libertà si trasforma così nella lotta per il riconoscimento legale della lotta stessa.

-*-

Abbiamo parlato con i nostri capi e capi. O piuttosto con le comunità che ci danno il passo, la direzione e la destinazione. Con il loro sguardo guardiamo a ciò che sta arrivando.

Ci siamo consultati ed abbiamo detto: bene, se noi diciamo questo, che cosa succede?

Rimarremo da soli, ci diranno che siamo marginali, che stiamo rimanendo fuori dalla grande rivoluzione… dalla quarta trasformazione o dalla nuova religione (o come vogliano chiamarla) e dovremo remare un’altra volta controcorrente.

Ma non c’è niente nuovo, per noi, nel rimanere soli.

Allora ci siamo chiesti, bene, abbiamo paura di restare soli? Abbiamo paura di restare nelle nostre convinzioni, di continuare a lottare per esse? Abbiamo paura che chi era a favore, ci si metta contro? Abbiamo paura di non arrenderci, di non venderci, di non cedere? Ed alla fine abbiamo concluso: insomma, ci stiamo domandando se abbiamo paura di essere zapatisti.

Non abbiamo paura di essere zapatisti e continueremo ad esserlo.

È così che ci siamo fatti una domanda e ci siamo risposti.

Noi pensiamo che insieme a voi (le reti), con tutto contro, perché non avevate i media, né il consenso, né la moda, né i soldi – avete perfino dovuto metterci i soldi di tasca vostra – con tutto questo, attorno ad un collettivo di originari e di una donna piccoletta, di pelle scura, del colore della terra, abbiamo denunciato un sistema predatore ed abbiamo difeso la convinzione di una lotta.

Stiamo dunque cercando altre persone che non abbiano paura. Cosicché vi domandiamo (alle reti): avete paura?

Domandatevelo e se avete paura, cercheremo da un’altra parte.

-*-

Noi crediamo di dover proseguire al fianco dei popoli originari.

Ancora qualcuna delle reti pensa che stiamo appoggiando i popoli originari. Col passare del tempo vedrete che è il contrario: sono loro che ci appoggiano con la loro esperienza e le loro forme organizzative, cioè, noi impariamo. Perché se c’è qualcuno esperto in tormente, sono proprio i popoli originari, ai quali è capitato di tutto ma sono lì, o meglio, siamo qui.

Ma pensiamo anche – e ve lo diciamo chiaro, compagn@ – che non basta, che dobbiamo incorporare nel nostro orizzonte, nelle nostre realtà con i loro dolori e le loro rabbie, cioè, dobbiamo proseguire verso la seguente tappa: la costruzione di un Consiglio che incorpori le lotte di tutti gli oppressi, gli eliminabili, le desaparecidas ed assassinate, i prigionieri politici, le donne aggredite, l’infanzia prostituita, i calendari e le geografie che tracciano la mappa impossibile per le leggi delle probabilità, i sondaggi e le votazioni: la mappa contemporanea delle ribellioni e delle resistenze in tutto il pianeta.

Se voi, insieme a noi, sfideremo le leggi delle probabilità che dicono che non c’è nessuna possibilità, se non molto piccola, che ce la faremo, se sfideremo i sondaggi, i milioni alle urne e la numeralia che il Potere contrappone per farci arrendere o per indebolirci, dobbiamo ingrandire il Consiglio.

Fino ad ora è solo un pensiero che esprimiamo qui, ma vogliamo costruire un Consiglio che non assorba né annulli tutte le differenze, ma le potenzi camminando con otroas, altri ed altre che abbiano lo stesso impegno.

Con lo stesso ragionamento, questi parametri non dovrebbero avere come limite la geografia imposta da frontiere e bandiere: dovrebbe mirare a diventare internazionale.

Quello che proponiamo è non solo che il Consiglio Indigeno di Governo non sia più solo indigeno, ma che non sia più solo nazionale.

Pertanto, noi, nosotroas, zapatiste, zapatisti, proponiamo che si porti a consultazione, oltre a tutte le proposte presentate in questo incontro, quanto segue:

1º. – Ribadire il nostro appoggio al Congresso Nazionale Indigeno ed al Consiglio Indigeno di Governo.

2º.- Creare e mantenere canali di comunicazione aperti e trasparenti con chi abbiamo conosciuto nel percorso del Consiglio Indigeno di Governo e della sua portavoce.

3º.- Iniziare o continuare l’analisi-valutazione della realtà in cui ci muoviamo, facendo e condividendo dette analisi e valutazioni, così come le proposte di azione coordinate che ne derivino.

4º.- Proponiamo lo sdoppiamento delle Reti di Appoggio al CIG per aprire, senza abbandonare l’appoggio agli originari, il cuore alle ribellioni e resistenze che emergono e perseverano dove ognuno si muove, in campagna e in città, senza che importino le frontiere.

5º.- Iniziare o continuare la lotta che miri ad ingrandire le domande ed il carattere del Consiglio Indigeno di Governo, in modo che vada oltre i popoli originari ed incorpori i lavoratori delle campagne e delle città, e le/gli eliminabili che hanno storia e lotta proprie, cioè, identità.

6º.- Iniziare o continuare l’analisi e la discussione che miri alla nascita di un Coordinamento o Federazione di Reti che eviti il comando centralizzato e verticale, e che non lesini l’appoggio solidale e la fratellanza tra chi la compone.

7º e ultimo.- Convocare una riunione internazionale di reti, o come la si voglia chiamare – noi proponiamo di chiamarci Rete di Resistenza e Ribellione… ed ognuno sceglierà il suo nome – a dicembre di questo anno, dopo avere conosciuto ed analizzato e valutato quello che deciderà e proporrà il Congresso Nazionale Indigeno ed il suo Consiglio Indigeno di Governo (nella sua riunione di ottobre di questo anno) ed anche per conoscere i risultati della consultazione alla quale si invita in questa riunione – dove siamo adesso -. Per questa, se credete, mettiamo a disposizione lo spazio in uno dei Caracol Zapatisti.

Il nostro appello dunque, non è solo agli originari, è a todoas, a tutte e tutti coloro che si ribellano e resistono in tutti gli angoli del mondo. A chi sfida gli schemi, le regole, le leggi, i precetti, i numeri e le percentuali.

-*-

Aneddoto uno.- Nei primi giorni di gennaio del 1994, i servizi dell’Esercito Federale stimavano la forza dell’autodenominado ezetaelene in “solo” 300 trasgressori della legge.

Aneddoto due. – Nello stesso anno, e mentre Ernesto Zedillo Ponce de León ed Esteban Moctezuma Barragán preparavano il tradimento del febbraio 1995, il gruppo Nexos (prima dedito a cantare le lodi a Salinas de Gortari e poi a Zedillo) si disperava e, per voce di Héctor Aguilar Camín, esprimeva, parole più, parole meno: “Perché non li annientate?  Sono solo 300“.

Aneddoto tre. – Dalla relazione del tavolo di iscrizioni all’Incontro di Reti di Appoggio al CIG e la sua portavoce, realizzato nel caracol zapatista “Torbellino de Nuestras Palabras”, dal 3 al 5 agosto 2018: “presenti: 300“.

Aneddoto quattro: Entrate delle 300 imprese più potenti del pianeta: nessuna idea, ma può essere un 300, o qualsiasi numero seguito da un mucchio di zeri, e poi “milioni di dollari”.

Aneddoto cinque. – Quantità e percentuali “incoraggianti”:

.- la differenza quantitativa tra 300 e 30.113.483 (che sono i voti che, secondo l’INE, ha ottenuto il candidato AMLO) è: trenta milioni, centrotredicimila, cento ottantatre;

.- 300 è lo 0.00099623% di quegli oltre 30 milioni;

.- 300 è lo 0.00052993% dei voti rilasciati (56.611.027);

.- 300 è lo 0.00033583% del bacino elettorale (89.332.032);

.- 300 è lo 0.00022626% del totale della popolazione messicana (132.593.000, meno le 7 donne che, in media, vengono uccise quotidianamente – negli ultimi dieci anni in Messico, in media, una bambina, ragazza, adulta o donna di terza età assassinata ogni 4 ore -);

.- 300 è lo 0.00003012% della popolazione del Continente Americano (996.000.000 nel 2017);

.- la probabilità in percentuale di distruggere il sistema capitalista è dello 0.000003929141, che è il tot percento della popolazione mondiale (7.635.255.247 alle 19:54 ora nazionale del 20 agosto 2018) che rappresenta 300 (certo, se le presunte 300 persone non si vendono, non si arrendono e non cedono).

Oh, lo so, nemmeno la tartaruga che sconfigge Achille sarebbe di consolazione.

E un caracol?…

La Strega Scarlet?…

Il gatto-cane?…

Lasciate tutto questo a noi zapatiste e zapatisti, quello che ci svela non è la sfida che impone questa infima probabilità, ma come sarà il mondo che verrà; quello che sulle ceneri ancora fumanti del sistema, inizi ad emergere.

Quali saranno le sue forme?

Si parlerà a colori?

Quale sarà la sua colonna sonora? (Eh? Il “moño colorado”? Nemmeno per sogno).

Quale sarà la formazione della squadra, finalmente completata, di Difesa Zapatista? Potrà allineare l’orsacchiotto di peluche di Speranza Zapatista, che fa coppia col Pedrito? Permetteranno al Pablito di portare il suo cappello vaquero e ad Amado Zapatista il suo casco di stame? Perché quel maledetto arbitro non segna il fuori gioco del Gatto-cane?

Ma, soprattutto, e questo è fondamentale, come si ballerà in quel mondo?

Per questo, quando a noi, zapatiste, zapatisti, chiedono “e poi cosa viene?”… dunque, come dirvelo?… non rispondiamo subito, ma ci mettiamo un po’ a rispondere.

Perché, vedete, ballare un mondo dà meno problemi che immaginarselo.

Aneddoto sei.- Ah, pensavate che “300” fosse riferito al film dello stesso titolo ed alla battaglia delle Termopili e già vi preparavate vestiti come Leonida o come Gorgo (ognuno come gli pare) a gridare “Questa è Sparta!” mentre decima le truppe degli “Immortali” del re persiano Serse? Non ve l’ho detto? Siamo zapatist@, e come di consueto, vediamo un altro film. O peggio ancora, guardiamo ed analizziamo la realtà. È così.

-*-

È tutto…per ora.

Dalle montagne del Sudest Messicano.

Subcomandante Insurgente Moisés.                     Subcomandante Insurgente Galeano.

Messico, agosto 2018.

Traduzione “Maribel” – Bergamo

Testo originale: http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2018/08/22/300-tercera-y-ultima-parte-un-desafio-una-autonomia-real-una-respuesta-varias-propuestas-y-algunas-anecdotas-sobre-el-numero-300-subcomandante-insurgente-moises-supgaleano/

 

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#EZLN: 300. Seconda parte:

UN CONTINENTE COME CORTILE, UN PAESE COMO CIMITERO, UN PENSIERO UNICO COME PROGRAMMA DI GOVERNO, ED UNA PICCOLA, MOLTO PICCOLA, PICCOLISSIMA RIBELLIONE. #SubcomandanteInsurgenteMoisés, #SupGaleano

Dal mondo scendiamo al continente.

Se guardiamo in alto…

Vediamo gli esempi di Ecuador, Brasile ed Argentina, dove non solo si spodestano i governi che si presumono progressisti, ma si perseguono anche giuridicamente ed al loro posto ascendono governi addestrati come buoni capisquadra, o capisquadra ubbidienti al capitale (benché, siamo giusti, sono abbastanza rozzi anche nel loro cinismo) per il nuovo riaccomodamento della finca mondiale, che sono come Temer in Brasile, Macri in Argentina, ed in Ecuador quello che era bravo perché ce l’aveva messo l’adesso perseguito Correa (quello della “rivoluzione civica” – “di sinistra”, così lo vendette l’intellighenzia progressista -) e che ora risulta essere di destra, Lenin Moreno – paradossalmente si chiama Lenin -.

Sotto la vigilanza dello Stato che si è trasformato nel poliziotto della regione – la Colombia – e da cui si minaccia, si destabilizza e si programmano provocazioni che giustifichino invasioni di “forze di pace”, in tutto il Sudamerica si torna ai tempi brutali della Colonia, ora col “nuovo” estrattivismo che non è altro che l’ancestrale saccheggio delle risorse naturali, tipificate come “materie prime”, e che nei governi progressisti della regione si avalla e si promuove come “estrattivismo di sinistra” – che è qualcosa come un capitalismo di sinistra o una sinistra capitalista o vai a sapere che cosa vuole dire -, ma ugualmente distruggono e spogliano, ma è per una “buona causa” (?). Qualunque critica o movimento di opposizione alla distruzione dei territori degli originari è catalogata come “promossa dall’Impero”, “di stampo conservatore”, ed altri equivalenti a “è un complotto della mafia del Potere”.

Insomma, nel continente il “cortile” del Capitale si estende fino a Capo Horn.

Ma se guardiamo in basso…

Vediamo ribellioni e resistenze, prima di tutto dei popoli originari. Sarebbe ingiusto nominarli tutti perché si correrebbe il rischio di ometterne alcuni. Ma la loro identità risalta nella loro lotta. Lì dove la macchina incontra resistenza al suo avanzare predatorio, la ribellione si veste di colori nuovi tanto antichi e parla lingue “strane”. La depredazione, anche mascherata di reddito della terra, vuole imporre la sua logica mercantile a chi si rapporta alla terra come la madre.

Queste resistenze sono accompagnate da gruppi, collettivi ed organizzazioni che, senza essere propriamente degli originari, condividono con loro impegno e destino, cioè, cuore. Per questo subiscono calunnie, persecuzioni, incarceramenti e, non poche volte, la morte.

Per la macchina, gli originari sono cose, incapaci di pensare, sentire e decidere; cosicché non è aliena alla sua logica automatizzata il pensare che questi gruppi in realtà “dirigono”, “usano” e “male orientano” quelle “cose” (gli originari) che si rifiutano di abbracciare l’idea che tutto è una merce. Tutto, incluso la loro storia, lingua, cultura.

Per il sistema, il destino degli originari è nei musei, nelle facoltà di antropologia, i mercati artigianali, e l’immagine della mano tesa che chiede l’elemosina. Deve essere esasperante per i teorici ed avvocati della macchina, quell’analfabetismo che non capisce le parole: “consumo”, “profitto”, “progresso”, “ordine”, “modernità”, “conformismo”, “compra-vendita”, “rendimento”, “resa”. Per alfabetizzare questi riluttanti alla civilizzazione, vanno bene i programmi assistenziali che dividono e creano scontri, le sbarre della prigione, il piombo e la sparizione. E sì, c’è chi si vende e consegna i suoi al boia, ma ci sono comunità ancora ribelli perché sanno di essere nate per la vita, e che le promesse di “progresso” nascondono la morte peggiore: l’oblio.

Proseguiamo in Centroamerica (dove in Nicaragua si riedita Shakespeare, e la coppia Macbeth, Daniel e Rosario, si chiede “Chi si immaginava che il vecchio (Sandino) avesse così tanto sangue in corpo?” mentre tenta, invano, di ripulirsi le mani nella bandiera rosso-nera) che si sta trasformando da un territorio dimenticato (dopo uno spietato saccheggio), in un problema per il grande capitale perché è un importante fornitore e trampolino di migranti, ma il ruolo di muro passerà al Messico, ed in concreto al sudest messicano.

E vogliamo includere il Messico nell’America Centrale perché la sua storia lo richiama all’America Latina, ed anche sui mappamondi l’America Centrale è il braccio che si tendono coloro che sono gemellati dal dolore e dalla rabbia.

Ma ai diversi governi che hanno subito e subirà questo paese, ed alla sua classe politica, la vocazione straniera li porta ad ammirare, imitare, servire e procacciare “l’annessione dei popoli della nostra America al Nord sregolato e brutale che li disprezza” (José Martí, “Lettera a Manuel Mercado”, 18 maggio 1895).

Quando Donald Trump dice di voler costruire il muro, tutti pensano al Río Bravo, ma il capitale pensa al Suchiate, all’Usumacinta e al fiume Hondo. In realtà il muro sarà in Messico per fermare quelli che provengono dall’America Centrale e forse questo può aiutare a capire perché Donald Trump, il 1° luglio, si è congratulato con il Juanito Trump per aver vinto le elezioni in Messico.

Il senso di un muro lo dà la sua contrapposizione a “qualcosa”. Tutti i muri si erigono contro “qualcosa”; si chiamino zombi, extraterrestri, criminali, clandestini, migranti, “sans papiers“, illegali, alieni. I muri non sono altro che la porta e le finestre chiuse di una casa che così si protegge dallo straniero, dall’estraneo, da quell’Alien che con la sua diversità porta con se la promessa dell’apocalisse finale. Una delle radici della parola “etnia” riporta a “la gente straniera”.

Nei piani del capitale, il muro contro l’America Latina avrà la forma dell’impossibile cornucopia dell’abbondanza e si chiamerà “Messico”.

Nella regione sudorientale, come abbiamo già detto, si costruisce la prima tappa del muro di Trump. L’ufficio “nazionale” di Migrazione continuerà a comportarsi come subordinato della Border Patrol, e Guatemala e Belize sono l’ultima stazione prima di entrare nella dogana del Nord-America. Questo trasforma il sudest messicano in una delle priorità di conquista e di gestione.

Per questo nei nuovi piani “geopolitici” si propone di creare un “cuscinetto”, un “ammortizzatore”, un filtro che riduca drasticamente la migrazione. Si offre così un placebo per alleviare l’incubo del capitale: un’orda di zombi (cioè, di immigranti) ai piedi dei suoi muri che minacciano il suo stile di vita e “tracciano” sull’indifferente superficie di ferro e cemento il graffito che dice:

“Il tuo benessere è costruito sulla mia disgrazia”.

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In questo paese, chiamata anche “Repubblica Messicana”, le passate elezioni federali sono riuscite ad occultare la realtà… per un istante: la crisi economica, la decomposizione sociale (con la sua lunga scia di femminicidi) ed il consolidamento (nonostante i presunti “colpi mortali” al narco) degli Stati paralleli (o sovrapposti a quello Nazionale) del cosiddetto “crimine organizzato”. Anche se per poco tempo, gli omicidi, i sequestri e le sparizioni di donne di tutte le età sono passati in secondo piano. La stessa cosa per la carestia e la disoccupazione. Ma, spentosi ormai l’entusiasmo per il risultato elettorale, la realtà torna a dire “sono qui, manca il mio voto… e la mia scure”.

Sull’orrore che ha trasformato il Messico in un cimitero e nel limbo, il non-luogo, delle sparizioni, non diremo molto. Basta leggere i giornali per farsene una vaga idea. Ma una descrizione, analisi e valutazione più profonda la si può trovare negli interventi di Jacobo Dayán, Mónica Meltis, Irene Tello Arista, Daniela Rea, Marcela Turati, Ximena Antillón, Mariana Mora, Edith Escareño, Mauricio González González e John Gibler presentati al semenzaio dell’aprile scorso, “Sguardi, Ascolti, Parole; Proibito Pensare?” che si è tenuto al CIDECI di San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, e nei loro scritti, cronache, reportage e colonne. Ed anche così, leggere o ascoltare dell’orrore quotidiano è molto lontano dal viverlo nella quotidianità.

Al grande capitale non importano le sparizioni, i sequestri ed i femminicidi. Quello che lo preoccupa è la SUA sicurezza e quella dei SUOI programmi. La corruzione che lo disturba è quella che taglia i suoi profitti. Per questo gli viene proposto “Faccio io il caposquadra, terrò la marmaglia al lavoro tranquilla e contenta, tornerai ad avere la sicurezza che i governi passati ti hanno lesinato, ci guadagnerai tutto quello che vuoi e non ti ruberò niente”.

Al sistema continua a disturbare lo Stato Nazionale e sempre di più gli assegna l’unica funzione per la quale nasce qualsiasi Stato, cioè, assicurare con la forza il rapporto tra dominatori e dominati.

I piani di sviluppo dei nuovi governi in qualsiasi parte del mondo non sono altro che dichiarazioni di guerra particolari nei territori dove questi piani di sviluppo opereranno.

Se si parlasse seriamente, si direbbe che si propone di costruire lande e deserti e, contemporaneamente, si costruisce l’alibi per eludere la responsabilità di questa distruzione: “ti abbiamo annichilito, ma è stato per il bene di tutti”.

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Mi sono sbagliato. Noi avevamo previsto che ci sarebbe stata una frode elettorale (e c’è stata, ma in un altro senso). Avevamo previsto che López Obrador avrebbe vinto ma che il sistema gli avrebbe negato la vittoria con delle trappole. Ed abbiamo pensato a quali potevano essere le opzioni del sistema dopo questa frode. Secondo la nostra analisi, non preoccupava tanto lo scandalo perché il sistema aveva sopportato già quello della Casa Bianca, di Ayotzinapa, la Estafa Maestra [indagine giornalistica del portale Animal Politico che ha documentato un giro di corruzione nel governo dove sono stati deviati 400 milioni di dollari – N.d.T.], le corruzioni nei governi degli stati, quindi, nel caso di uno scandalo per una frode, a Peña Nieto non ne sarebbe venuto niente. Pensiamo che il dilemma del sistema fosse scegliere tra Meade ed Anaya, scegliere quale tra i due fosse più di destra, più efficiente per i suoi piani, chi di loro sarebbe stato il migliore caposquadra.

Le possibilità di una resistenza forte e radicale dell’allora candidato che sarebbe stato defraudato erano minime, niente di pericoloso per il sistema, ma ci sarebbero comunque state delle proteste. E per questo vi chiediamo scusa, perché considerando questo scenario abbiamo ritardato la convocazione alle reti, perché credevamo che ci sarebbero state proteste, blocchi e tutto il resto, e se vi invitavamo forse sareste rimasti bloccati da qualche parte; per questo la convocazione è arrivata tardi, scusate.

Noi, nosotroas, zapatiste, zapatisti, ci prepariamo sempre al peggio. Se succede, siamo preparati. Se non succede, fa lo stesso, siamo preparati comunque.

Ma adesso, per quello che stiamo vedendo pensiamo di non esserci sbagliati. In effetti il sistema ha scelto chi tra i quattro candidati si propone come il più efficiente, il signor López Obrador. E le prove d’amore che ha dato il signor López Obrador, o che sta dando questo signore al grande capitale, cioè al finquero, sono, tra le altre, la consegna dei territori dei popoli originari. I suoi progetti per il sudest, per citarne alcuni, per l’Istmo, per Chiapas, Tabasco, Yucatan e Campeche sono, in realtà, progetti di depredazione.

E la cosa principale che preoccupa un governo uscente è l’impunità, non i suoi indici di popolarità. Quindi il “voto” governativo doveva orientarsi verso chi gli garantiva di non essere perseguito. Che l’esilio o la prigione non fossero la necessaria risorsa della legittimità per il nuovo. Il nuovo caposquadra doveva promettere (e provare) che non avrebbe criminalizzato il caposquadra precedente.

Ma non crediate che il nuovo governo sia come qualunque altro caposquadra, con lui arriva il “nuovo” pensiero unico.

Si sta sviluppando una specie di nuova religione. Come se già non bastasse la religione del mercato presente in tutti i luoghi in cui i governi di destra si fanno strada al potere, ma è come una specie di nuova morale che si imporne con l’argomento quantitativo e che attacca l’ambito scientifico, l’arte e la lotta sociale.

Già le lotte non sono per una rivendicazione, ma ci sono lotte buone e lotte cattive. Per dirlo in maniera più comprensibile: ci sono le lotte buone e sono le lotte che servono alla mafia dal potere, l’arte “buona” che serva alla mafia del potere, la scienza “corretta” che serva alla mafia dal potere. Tutto ciò che non si orienti al nuovo pensiero unico che si sta delineando, è parte del nemico. E la fede, o la nuova fede che si sta sviluppando, necessita di un individuo eccezionale, da una parte, ed una massa che lo segua.

Questo è successo in altre parti della storia mondiale ed ora succede anche qua. Per questo, alle critiche e segnalazioni che facciate voi, o che facciamo noi, non si risponde con argomenti ma si dice, per esempio, che siamo volgari o che siamo invidiosi.

Non dubitiamo che ci sia gente che onestamente abbia pensato che il cambiamento promesso, oltre che a buon mercato (bisognava solo tracciare una croce su una scheda), puntasse ad un cambiamento reale o “vero”. Deve far arrabbiare, là in alto, che si ripresentino i nomi dei criminali di prima, anche se hanno cambiato colore.

Ma la vocazione di destra della nuova squadra di governo è innegabile. E la sua cerchia “intellettuale” e sociale rivendica senza imbarazzo la sua tendenza autoritaria. Si sta seguendo alla lettera il copione che abbiamo denunciato 13 anni fa, nel 2005. Chi è stato vile nella sconfitta, è vile nella vittoria. Dire che il prossimo governo è di sinistra o progressista, è una calunnia. Usiamo allora la similitudine dell’uovo del serpente. In un film che si intitola così, di Ingmar Bergman, c’è un dottore (interpretato dall’attore di Kung Fu, David Carradine) che spiega che quello che sta succedendo in Germania in quell’epoca – che poi diventerà fascista – è come l’uovo di un serpente che, se lo guardi in controluce si vede quello che c’è dentro, e allora si vedeva quello che sta succedendo adesso.

Voi sapete che dal 1° luglio tutto il lavoro del Partito Movimento di Rigenerazione Nazionale, di López Obrador e della sua squadra è per ingraziarsi la classe dominante ed il grande capitale. Non c’è nessun indizio (nessuno si può appellare ad un inganno), nessun indizio che dica che è un governo progressista, nessuno. I suoi principali progetti distruggono i territori dei popoli originari: il milione di ettari nella Lacandona, il Treno Maya, o il corridoio dell’Istmo che vogliono fare, tra gli altri. La sua franca empatia col governo di Donald Trump è già una confessione pubblica. La sua “luna di miele” con gli industriali ed i grandi capitali è rappresentata nei principali dicasteri del suo gabinetto e nei suoi piani per la “IV trasformazione”.

Crediamo che sia evidente che il beneplacito del Potere, del Denaro al “trionfo” di López Obrador, andasse oltre il riconoscimento. Tra il grande capitale c’è un vero entusiasmo per le opportunità di conquista che si presentano col programma di governo lopezobradorista.

Abbiamo alcuni dati concreti e molti pettegolezzi (che non si possono provare) su quanto è successo nel passato processo elettorale. Non li rendiamo noti perché da questi si potrebbe dedurre che ci sia stata una frode, e non è assolutamente nostra intenzione amareggiare l’euforia che invade i “30 milioni”.

Ma quello che nessuno vuole segnalare è che c’è stata una specie di “risveglio mediatico”, come è accaduto nelle precedenti elezioni: quelle di Calderón e di Peña Nieto. Cioè, non sono state “le istituzioni” a dire chi aveva vinto, ma i media. Mentre iniziava il Programma dei Risultati Preliminari Elettorali (PREP), Televisa e TvAzteca dicevano già il nome del vincitore; pochi minuti dopo, con meno dell’1% dei voti scrutinati, arrivava l’avallo di Meade, di Anaya e della Calderona. Passate alcune ore, il “camerata” Trump si congratulava ed all’alba del giorno 2, l’ormai nominabile Carlos Salinas de Gortari si univa alle congratulazioni. Senza conoscere i risultati ufficiali, inizia il baciamano che il PRI ha trasformato in patrimonio nazionale. E l’INE? Compie la funzione per la quale è stato creato: essere il Patiño della “democrazia elettorale”. Le “istituzioni” responsabili del processo si sono limitate a rincorrere la valanga mediatica.

L’intellighenzia progressista, che nel caso non fosse stato il suo leader avrebbe denunciato quanto accaduto come un “colpo di Stato mediatico”, ora sottoscrive senza imbarazzo alcuno il “sia come sia”: “abbiamo vinto, non importa come”. Il fatto è che tutto sembra indicare che il risultato è stato negoziato e concordato fuori dalle urne e dal calendario elettorale. Ma non importa, il grande elettore ha decretato: “Habemus Capataz, avanti con gli affari”.

Questo nuovo pensiero unico supplisce l’argomento della ragione con l’argomento quantitativo: “30 milioni non possono sbagliarsi”, come ha detto il padre non mi ricordo come si chiama, Solalinde? sì quello (scusate, è che non lo pronuncio mai bene ed il SubMoy mi corregge sempre) e che si sta dicendo in ogni momento: “perché vi opponete a 30 milioni? Voi siete solo 300 persone e per giunta sporche, brutte, cattive e volgari“. Bene, parlano di voi (le reti), io sono solo volgare.

Con questa nuova forma di fede (rispetto ad essa, noi insistiamo che manca il voto valido, che è il voto della realtà) si comincia ad imporre nell’immaginario collettivo la ragione della quantità sull’analisi e la ragione argomentata.

E si comincia a riscrivere la storia per trasformarla nella nuova Storia ufficiale, secondo la quale tutti i movimenti sociali e politici del passato in realtà miravano a portare alla presidenza López Obrador. Abbiamo letto che il movimento del ’68 non è stato altro che l’antecedente della “fine dei tempi”, 50 anni dopo. Abbiamo letto che si purificano Manuel Bartlett e criminali simili perché stanno dalla parte del vincitore. Abbiamo letto che Alfonso Romo è un industriale “onesto” il cui solo interesse è il bene del prossimo.

Abbiamo letto che chi ieri era del PRI, del PAN, del PRD, del Verde Ecologista, o bazzicava nel mondo dello spettacolo, ora è illustre leader della IV trasformazione. Ed abbiamo anche letto che la sollevazione zapatista del 1994 fu il preludio della sollevazione “civica” del 2018! Ed il leader ha già chiesto di svolgere elaborazioni teoriche sulla sua ascesa al Potere. Non manca molto perché gli storiografi allineati modifichino i libri di testo di storia.

Notiamo lo scatenarsi di una valanga, uno tsunami, di analisi frivole e volgari, di nuove religioni laiche, di profeti minori – molto minori – perché hanno la piattaforma per farlo. Ci saranno molti rospi per chi li vorrà inghiottire. E, dato che parliamo di neo religione, l’apparato burocratico si democratizzerà affinché tutti se la bevano.

Appariranno i nuovi “boy scout”, i piccoli esploratori pronti a fare il bene, anche se ben attenti a chi farlo.

I “rappresentanti dei cittadini” a promuovere la cittadinizzazione: quello che vogliono gli “autoctoni” (mi sembra ci chiamino così) è essere come chi li depreda. Essere “uguali”, sia pure nella fugace temporalità dell’urna, e “liberi” nel momento di firmare la concessione per la miniera-hotel-ferrovia, il contratto di “lavoro”, i pagamenti a rate, il “fermo sostegno al nostro presidente”, la richiesta di “aiuti governativi”.

Ci sarà un’auge prevedibile di agenzie governative ma, invece di risorse, forniranno interlocuzione. E questo vale più dei soldi. Perché il modello degli “sportelli” si decentralizzerà. Non si dovrà più andare in un edificio, informarsi e capire, dopo una lunga coda, che manca la copia rosa. Ora lo sportello verrà da te: “chieda, noi facciamo; come ricevuta riceverà una promessa”.

Se c’è chi non ha niente, è probabile che riceverà la speranza. I nuovi truffatori si incaricheranno di amministrare questa speranza, di dosare la sua portata e di trasformarla nella chimera che consola ma non risolve.

Si riciclerà l’argomento utilizzato in un certo settore della lotta sociale secondo cui non è possibile cambiare il sistema, ma quello che bisogna fare è amministrare o limare gli spigoli affinché non feriscano troppo, cioè, che possiamo trasformarli in buoni capisquadra, perfino arrivare a creare un capitalismo buono e che è possibile cambiare il sistema da dentro.

Si indovina ormai la figura attraverso il guscio: si chiede la resa della ragione e del pensiero critico; l’esaltazione del nazionalismo con base nell’autoritarismo “buono”; la persecuzione del diverso; la legittimità ottenuta con le grida; la neo religione laica; l’unanimità imposta; la resa della critica ed il nuovo lemma nazionale: “Proibito Pensare”. Insomma: l’egemonia e l’omogeneità che sostengono i fascismi che negano di riconoscersi come tali.

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Sono concetti che permettono di capire (ed agire), quelli che vengono presentati? Termini come “cittadinanza”, “gioventù”, “donne”, “progresso”, “sviluppo”, “modernità”, “democrazia elettorale” sono sinonimi di democrazia?

Il termine “cittadino” non vale come concetto per capire quello che succede: “Cittadino” è Carlos Slim come lo è il contadino depredato dal nuovo aeroporto di Città del Messico. Lo è Ricardo Salinas Pliego e chi vive per strada dopo il terremoto del settembre 2017. Lo è Alfonso Romo ed i membri della comunità tzeltal che saranno spogliati delle loro terre affinché passi un treno su cui i turisti si facciano i “selfie”.

Un altro: “gioventù”. “Giovani” sono le figlie di Peña Nieto e le lavoratrici e le studentesse assassinate.

Un altro: “donne”. “Donne” sono la Aramburuzavala, la Gonda, la Sánchez Cordero, la González Blanco Ortiz Mena, la Merkel e la May e lo sono le assassinate di Ciudad Juárez, le violentate in ogni angolo del mondo, le picchiate, sfruttate, perseguite, incarcerate, desaparecidas.

Tutti i concetti che eliminino la divisione o che non aiutino a capire la divisione di classe tra dominatori e dominati sono un inganno e permettono che convivano, in uno, gli uni e gli altri. Questa trasversalità – come la chiamano – tra il capitale ed il lavoro, non serve a niente, non spiega niente e porta alla convivenza perversa tra sfruttatore e sfruttato e, per un attimo, sembra che siano la stessa cosa benché non lo sia.

C’è inoltre questo tentativo da tornare al sistema di prima, il salto impossibile all’indietro allo “Stato Assistenziale”, allo “Stato Benefattore” di Keynes, al vecchio PRI (per questo qualcuno scherzava dicendo che la prima trasformazione è stata PNR; quindi la seconda in PRM; la terza in PRI, ed ora la quarta trasformazione è PRIMOR).

E si arriva alla vecchia discussione tra riforma e rivoluzione. I “dibattiti” tra i “radicali” che lottavano per la rivoluzione e gli “snob” che erano per un cambiamento graduale, per le riforme graduali fino ad arrivare al regno della felicità. Queste discussioni avvenivano nei caffè. Le agorà di adesso sono le reti sociali e si può seguire questo esercizio di autoerotismo tra gli “influencers” (o come si chiamino).

Noi pensiamo che non è neppure necessario discuterne, perché la riforma non è più possibile; quello che il capitalismo ha distrutto non è più recuperabile, non può esserci un capitalismo buono (pensiamo che non sia mai esistita questa possibilità), dobbiamo distruggerlo totalmente.

E parafrasando quanto detto dalle zapatiste nell’Incontro delle Donne che Lottano: non basta dare fuoco al sistema: bisogna accertarsi che si consumi totalmente e che ne rimangano solo le ceneri.

Di questo parleremo in un’altra occasione. Per adesso vogliamo solo segnalare che la controrivoluzione sociale è possibile. Non solo è possibile, ma è continuamente all’erta e vigile perché vogliono annichilire ogni lotta esterna a questo processo di addomesticamento in corso, che deve essere annientata, soprattutto con la violenza.

No solo con emarginazione, non solo con calunnie, ma anche con attacchi paramilitari, militari, di polizia.

Per tutto quello che sfidi queste nuove regole – che in realtà sono vecchie – non ci sarà amnistia, né perdono, né assoluzione, né abbracci, né foto; ci sarà la morte e la distruzione.

La lotta contro la corruzione (che non è altro che la lotta per una buona amministrazione del dominio) non solo non include la lotta per la libertà e la giustizia, ma le si contrappone, perché con l’alibi della lotta contro la corruzione si lotta per un apparato di Stato più efficiente nella quasi unica funzione che detiene lo Stato Nazionale: la repressione.

Il governo smetterà di essere il caposquadra ladro che si tiene qualche vitella e qualche torello che non consegna al finquero. Il nuovo caposquadra non ruberà, consegnerà al padrone l’intero profitto.

Si vogliono restituire allo Stato Nazionale, in questo caso il Messico, le sue funzioni reali. Cioè, quando si dice che c’è bisogno di sicurezza, è la sicurezza del capitale; è l’introduzione ed il perfezionamento di un nuovo stato di polizia: “farò bene le cose perché vigilerò su tutto“. La sicurezza reclamata per la “cittadinanza” è nei fatti il reimpianto di un sistema di polizia, un muro modernizzato e professionalizzato che sappia distinguere tra “i buoni” e “i cattivi”.

Si professionalizzerà la polizia della città del Capitale. Lì si diminuirà il tasso di criminalità e ci saranno poliziotti “bell@” che aiuteranno le/gli anzian@ ad attraversare la strada, cercheranno gli animali domestici smarriti e controlleranno che il traffico sia ordinato per chi importa: le automobili.

Fuori, in periferia, proseguirà il contubernio tra chi deve prevenire e perseguire il crimine e chi lo commette. Ma, in compenso, si fomenterà il turismo estremo: nella città del Capitale si organizzeranno “tour” e “safari” per conoscere quelle strane creature che vivono nell’ombra; i turisti potranno farsi un “selfie” col giovane fermato-picchiato-assassinato, col suo sangue che si confonde con i colori dei tatuaggi, che uccide il luccichio dei piercing e macchia il verde-viola-azzurro-rosso-arancio dei capelli. Chi era? A chi importa? In un “selfie” tutto quello che non sia “io” è pura scenografia, un aneddoto, un’emozione “forte” per brillare nel feis, su instagram, nelle chat, nelle autobiografie. E, dall’altoparlante del veicolo blindato, la gentile guida turistica avverte: “vi ricordiamo che il consumo di tacos, panini ed altri articoli sono a vostro rischio e pericolo; la società non è responsabile di indigestioni, gastriti ed infezioni intestinali. Per chi è sceso, qui abbiamo gel antibatterici”.

Il nuovo governo promette di recuperare il monopolio dell’uso della forza (che gli è stato sottratto dal “crimine organizzato”). Ma non più solo con poliziotti ed eserciti tradizionali. Anche con i “nuovi” vigilanti: le nuove “camicie brune” o ciliegia [il colore del movimento di Lopez Obrador – N.d.T.] nei quali si convertiranno gli affiliati alla nuova religione laica; la massa che sta attaccando i movimenti sociali che non si addomestichino. I riciclati “battaglioni rossi” (ora “ciliegia”, per l’IV trasformazione) che dovranno completare la “pulizia” degli sporch@, brutt@, cattivi@ e volgari, e tutto quello che resista all’ordine, al progresso e allo sviluppo.

-*-

Dunque, continuiamo a scendere, a vedere come stanno resistendo (insieme ad altre organizzazioni, gruppi e collettivi) le nostre comunità – adesso qui con noi c’è parte della direzione collettiva dell’EZLN, 90 comandanti; sono di più ma sono quelli che ci hanno accompagnato questa volta per onorare la vostra visita (le reti) -.

Noi continuiamo a camminare su due piedi: la ribellione e la resistenza, il no ed il sì; il no al sistema ed il sì alla nostra autonomia, che vuol dire che dobbiamo costruire la nostra strada verso la vita. La nostra ha base in alcune delle radici delle comunità originarie (o indigene): il collettivo, l’appoggio mutuo e solidale, l’attaccamento alla terra, la preservazione e cura delle arti e delle scienze e la vigilanza costante contro l’accumulazione di ricchezza. Questo, e le scienze e le arti, sono la nostra guida. È il nostro “modo”, ma pensiamo che in altre storie ed identità sia differente. Per questo noi diciamo che lo zapatismo non si può esportare, neanche nel territorio del Chiapas, ma ogni calendario e geografia deve seguire la propria logica.

I risultati del nostro camminare sono sotto gli occhi di chi voglia guardare, analizzare e criticare. Anche se, certo, la nostra ribellione è tanto, ma tanto piccola che ci vorrebbe un microscopio o, meglio ancora, un periscopio invertito per scoprirla.

E non è neppure un esercizio molto incoraggiante: le nostre possibilità sono minime.

Non arriviamo nemmeno lontanamente a 30 milioni.

Forse siamo solo in 300.

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(Continua…)

Traduzione “Maribel” – Bergamo

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300. Prima parte: UNA FINCA, UN MONDO, UNA GUERRA, POCHE PROBABILITÀ.

Subcomandante Insurgente Moisés, SupGaleano #EZLN

 

Intervento della Commissione Sexta dell’EZLN all’Incontro delle Reti di Appoggio al CIG ed alla sua Portavoce.

(Versione ampliata)

Per ragioni di tempo l’intervento zapatista non era stato completo. Avevamo promesso che avremmo inviato le parti mancanti: qui di seguito la versione originale che include parti della trascrizione più quanto non detto. Di nulla. Prego.

300.

Prima parte:

UNA FINCA, UN MONDO, UNA GUERRA, POCHE PROBABILITÀ.

Agosto 2018.

Subcomandante Insurgente Galeano:

Buongiorno, grazie di essere venuti ed aver accettato il nostro invito e di condividere la vostra parola.

Iniziamo spiegando quale è il nostro modo di fare analisi e valutazioni.

Noi incominciamo con l’analizzare che cosa succede nel mondo, poi scendiamo a vedere che cosa succede nel continente, poi che cosa succede nel paese, poi nella regione e poi localmente. E da qui tiriamo fuori un’iniziativa e cominciamo a farla uscire dal contesto locale a quello regionale, poi nazionale, poi continentale e poi nel mondo intero.

Secondo il nostro pensiero, il sistema dominante a livello mondiale è il capitalismo. Per spiegarcelo e per spiegarlo agli altri, usiamo l’immagine di una finca, una tenuta.

Chiedo al Subcomandante Insurgente Moisés di parlarcene.

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Subcomandante Insurgente Moisés:

Dunque compagni, compagne, abbiamo intervistato compagni e compagne bisnonni e bisnonne che nella loro vita hanno vissuto nelle fincas – alcuni di loro sono ancora vivi e vive – Quello che ci hanno raccontato ci ha fatto pensare – diciamo ora – che i ricchi, i capitalisti, vogliono trasformare il mondo in una loro proprietà, una loro finca.

C’è il fattore, il proprietario terriero, il padrone di migliaia di ettari di terra che può anche non esserci perché il padrone ha il suo caposquadra che si prende cura della finca, ed il caposquadra cerca il suo maggiordomo che è quello che va a controllare che si lavori la sua terra; e questo caposquadra, su ordine del padrone, deve cercare un caporale che si occupa di controllare tutto intorno alla tenuta, alla sua casa. Ci hanno raccontato delle diverse cose che si fanno in una finca: c’è la finca dove si alleva il bestiame, c’è la finca dove si coltiva il caffè, c’è la finca della canna da zucchero, dove si fa il panetto di zucchero, e di milpa e di fagioli. Allora combinano il tutto; cioè in una proprietà di 10 mila ettari si fa tutto, c’è l’allevamento, la lavorazione della canna, la coltivazione di fagioli, la milpa. Allora per tutta la sua vita la gente circola lì, lavora lì – come servi, la gente che soffre lì -.

Il caposquadra arrotonda poi la sua paga rubando al padrone quello che produce la finca. Cioè, oltre a quello che gli dà il padrone, il finquero, il caposquadra ha il suo guadagno nel rubare. Per esempio, se nascono 10 vitelle e 4 torelli, il caposquadra non lo riferisce esattamente, ma dice al padrone che sono nate solo 5 vitelle e 2 torelli. Se il padrone poi si accorge dell’inganno caccia via il caposquadra e ne mette un altro. Ma il caposquadra ruba sempre qualcosa, e questa si chiama corruzione.

Ci raccontano che quando il padrone non c’è ed anche il caposquadra vuole uscire dalla finca, allora cerca qualcuno di lì, qualcuno stronzo come lui al quale lasciare l’incarico, andarsene e poi tornare a riprendere il suo ruolo di caposquadra.

Dunque, vediamo che il padrone non c’è, è da un’altra parte, ed il caposquadra è il Peña Nieto della situazione. Quindi noi diciamo che il maggiordomo sono i governatori, ed i caporali i presidenti municipali. Tutto è strutturato secondo una scala di potere.

Vediamo anche che caposquadra, maggiordomo e caporale sono quelli che pretendono dalla gente. E lì nella finca, ci raccontano i bisnonni, c’è un negozio che chiamano negozio a credito, vuol dire che nel negozio ci si indebita; quindi gli sfruttati e le sfruttate che vivono lì, servi o serve, comprano nel negozio il sale, il sapone, quello di cui necessitano, cioè, non hanno denaro; lì il padrone ha il suo negozio e lì si indebitano per comprare sale, sapone, machete, la zappa, e non pagano con denaro bensì con la loro forza lavoro.

I bisnonni ci raccontano, donne e uomini, che il padrone dava loro poco da mangiare, giusto il necessario per arrivare al giorno dopo e lavorare per lui, e così per tutta la loro vita.

E confermiamo quello che raccontano i nostri bisnonni perché quando siamo usciti nel ’94, quando abbiamo occupato le fincas per cacciare quegli sfruttatori, abbiamo incontrato capisquadra e acasillados che, abituati ai loro negozi a credito, ci dicevano che non sapevano cosa fare e dove andare a procurarsi il sale, il sapone, perché non c’era più il loro padrone. Ci domandavano chi sarebbe stato il nuovo padrone, perché non sapevano davvero cosa fare.

Allora noi dicemmo loro: adesso siete liberi, lavorate la terra, è vostra, come quando c’era il padrone a sfruttarvi ma ora lo fate per voi, per la vostra famiglia. Ma loro non capivano, dicevano no, che la terra era del padrone.

E lì abbiamo capito che c’è gente ormai assuefatta alla schiavitù. E se hanno la libertà, non sanno che farne perché sanno solo ubbidire.

E questo succedeva 100 anni fa, più di 100 anni, come ci hanno raccontato i nostri bisnonni – uno di loro ha più o meno 125, 126 anni adesso, e l’abbiamo intervistato più di un anno fa -.

E vediamo che ancora continua così. Oggi pensiamo che il capitalismo è così. Vuole trasformare il mondo in una finca. Cioè, gli impresari transnazionali: “Vado nella mia finca La Mexicana”, secondo come gli pare; “vado nella mia finca La Guatemalteca, L’Onduregna”, e così via.

Ed il capitalismo cominciava ad organizzarsi secondo i suoi interessi, come ci raccontano i nostri bisnonni in una finca ci può essere di tutto, caffè, bestiame, mais, fagioli, mentre in un’altra solo canna da zucchero o altro. Ogni finquero si organizzava.

Non ci sono padroni buoni, sono tutti cattivi.

Benché i nostri bisnonni ci raccontano che ce n’era qualcuno buono – dicono – ma analizzando bene, erano buoni perché semplicemente non c’era tanto maltrattamento fisico, per questo i nostri bisnonni dicono che ce n’era qualcuno buono, ma non si salvavano dallo sfruttamento. In altre fincas c’erano invece molti maltrattamenti.

Dunque pensiamo che tutto quello che hanno passato loro succederà a noi, ma ora non più solo nelle campagne, ma nelle città. Perché non è lo stesso capitalismo di 100, 200 anni fa, i suoi modi di sfruttamento sono diversi e non sfrutta più solo nelle campagne, ma anche nelle città. Il suo sfruttamento cambia modalità, ma è ugualmente sfruttamento. È la stessa gabbia di reclusione, ma ogni tanto la ridipingono, come nuova, ma è la stessa.

Ma c’è comunque gente che non vuole la libertà, ma si è già abituata ad ubbidire e vuole solo un cambio di padrone, di caposquadra, che non sia così stronzo, che la sfrutti ma che la tratti bene.

Ma noi non lo perdiamo di vista, è solo iniziato, già.

Quello che ci cattura l’attenzione è se ci sono altri, altre, che vedono, pensano: faranno così con noi?

E che cosa faranno queste sorelle e fratelli? Si accontenteranno di un cambio di caposquadra o di padrone, o vogliono la libertà?

Questo è quello che mi tocca spiegarvi ed è quello che pensiamo e vediamo con i compagni, e le compagne, come Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.

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Subcomandante Insurgente Galeano:

Quella che noi vediamo a livello mondiale è un’economia predatrice. Il sistema capitalista sta avanzando in modo da conquistare territori distruggendo più che può. Contemporaneamente c’è un’esaltazione del consumo. Sembra che il capitalismo non sembri più preoccupato per chi produce le cose, per questo ci sono le macchine, ma non ci sono macchine che consumano merci.

In realtà, questa esaltazione del consumo nasconde uno sfruttamento brutale e la depredazione sanguinaria dell’umanità che non appaiono nell’immediatezza della produzione moderna di merci.

La macchina che, automatizzata all’estremo e senza la partecipazione umana, fabbrica computer o cellulari non si regge sull’avanzamento scientifico e tecnologico, ma sul saccheggio delle risorse naturali (la necessaria distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordinamento di territori) e sulla disumana schiavitù di migliaia di infime, piccole e medie cellule di sfruttamento della forza lavoro umana.

Il mercato (questo gigantesco magazzino di merci) contribuisce al miraggio del consumo: le merci appaiono al consumatore come “aliene” al lavoro umano (cioè, al suo sfruttamento) ed una delle conseguenze “pratiche” è dare al consumatore (sempre individualizzato) l’opzione di “ribellarsi” scegliendo un mercato o un altro, un consumo o un altro, o rifiutando un consumo specifico. Non si vuole consumare cibo spazzatura? Non c’è problema, sono in vendita anche prodotti alimentari biologici ed ad un prezzo più elevato. Non consuma note bibite di cola perché sono dannose per la salute? Nessun problema, l’acqua imbottigliata è commercializzata dalla stessa azienda. Non vuole consumare nelle grandi catene di supermercati? Non c’è problema, la stessa azienda fornisce la boutique dietro l’angolo. E così via.

Dunque sta organizzando la società mondiale dando, apparentemente, priorità al consumo, tra altre cose. Il sistema funziona con questa contraddizione (tra le altre): vuole disfarsi della forza lavoro perché il suo “uso” presenta diversi problemi (per esempio: tende ad organizzarsi, protestare, fare presidi, scioperi, sabotaggi della produzione, allearsi con altr@); ma contemporaneamente ha bisogno del consumo di merci da parte di questa merce “speciale”.

Per quanto il sistema miri ad “automatizzarsi”, lo sfruttamento della forza lavoro gli è fondamentale. Non importa quanto consumo mandi alla periferia del processo produttivo, o quanto estenda la catena di produzione in modo che sembri (“simulare”) che il fattore umano sia assente: senza la merce essenziale (la forza lavoro) il capitalismo è impossibile. Un mondo capitalista senza lo sfruttamento, dove prevale solo il consumo, è buono per la fantascienza, le elucubrazioni sui social network ed i languidi sogni degli ammiratori dei suicidi della sinistra aristocratica.

Non è l’esistenza del lavoro che definisce il capitalismo, bensì la caratterizzazione della capacità di lavoro come una merce che si vende e si compra sul mercato del lavoro. Questo vuol dire che c’è chi vende e c’è chi compra; e, soprattutto, che c’è chi ha solo l’opzione di vendersi.

La possibilità di comprare la forza lavoro è data dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, di circolazione e consumo. Nella proprietà privata di questi mezzi sta il nucleo vitale del sistema. Su questa divisione di classe (proprietaria e diseredata) e per occultarla, si costruiscono tutte le simulazioni giuridiche e mediatiche, così come le evidenze dominanti: la cittadinanza e l’uguaglianza giuridica; il sistema penale e di polizia, la democrazia elettorale e l’intrattenimento (sempre di più difficili da distinguere); le nuove religioni e le presunte neutralità delle tecnologie, le scienze sociali e le arti; il libero accesso al mercato e al consumo; e le sciocchezze (più o meno elaborate) del “cambiamento sta in se stessi”, “ognuno è artefice del proprio destino”, “far buon viso a cattivo gioco”, “non dare un pesce all’affamato, ma insegnagli a pescare” (“e vendigli la canna da pesca”) e, ora di moda, i tentativi di “umanizzare” il capitalismo, renderlo buono, razionale, disinteressato, light.

Ma la macchina esige profitti ed è insaziabile. Non c’è limite alla sua ingordigia. E la smania di profitto non ha etica né razionalità. Se deve uccidere, uccide. Se deve distruggere, distrugge. Anche se fosse il mondo intero.

Il sistema avanza nella sua riconquista del mondo. Non importa quello che si distrugga, rimanga o avanzi: è eliminabile finché si ottiene il massimo profitto ed il più rapidamente possibile. La macchina sta tornando ai metodi che gli diedero origine – per questo vi raccomandiamo di leggere l’Accumulazione Originaria del Capitale – che è mediante la violenza e attraverso la guerra che si conquistano nuovi territori.

Ma il capitalismo, con il neoliberismo, ha lasciato in sospeso una parte della conquista del mondo ed ora deve completarlo. Nel suo sviluppo, il sistema “scopre” che sono apparse nuove merci e queste nuove merci si trovano nel territorio dei popoli originari: l’acqua, la terra, l’aria, la biodiversità; tutto ciò che ancora non è addomesticato si trova nei territori dei popoli originari e ci si buttano sopra. Quando il sistema cerca (e conquista) nuovi mercati, non sono solo mercati di consumo, di compra-vendita di merci; anche, e soprattutto, cerca e tenta di conquistare territori e popolazioni per tirarne fuori tutto il possibile, non importa che, alla fine, lasci dietro di se una landa desolata come eredità e traccia del suo passaggio.

Quando una società mineraria invade un territorio degli originari con la scusa di offrire “posti di lavoro” alla “popolazione autoctona” (mi sembra che ci chiamino così), non solo sta offrendo a questa gente i soldi per comprare un nuovo cellulare di gamma più alta, ma sta anche scartando una parte di questa popolazione e sta annichilendo (nel vero senso della parola) il territorio sul quale opera. Lo “sviluppo” ed il “progresso” che offre il sistema, in realtà nasconde che si tratta del proprio sviluppo e progresso e, cosa più importante, nasconde che questo sviluppo e progresso si ottengono a costo della morte e la distruzione di popolazioni e territori.

Su questo si fonda la cosiddetta “civiltà”: quello di cui hanno bisogno i popoli originari è “uscire dalla povertà”, cioè hanno bisogno di soldi. Quindi si offre “lavoro”, ovvero, imprese che “contrattino” (sfruttino) gli “aborigeni” (così ci chiamano).

“Civilizzare” una comunità originaria è trasformare la sua popolazione in forza lavoro salariata, cioè, con capacità di consumo. Per questo tutti i programmi dello Stato prevedono “l’incorporazione della popolazione emarginata alla civiltà”. E, di conseguenza, i popoli originari non chiedono rispetto per i loro tempi e modi di vita, ma “aiuti” per “collocare i loro prodotti sul mercato” e “per avere un lavoro”. In sintesi: l’ottimizzazione della povertà.

E per “popoli originari” ci riferiamo non solo ai cosiddetti “indigeni”, ma a tutti i popoli che originalmente si prendevano cura dei territori che oggi sono sotto le guerre di conquista, come il popolo curdo, e che sono sottomessi con la forza nei cosiddetti Stati Nazionali.

La cosiddetta “forma Nazione” dello Stato nasce con l’ascesa del capitalismo come sistema dominante. Il capitale aveva bisogno di protezione e aiuti per la sua crescita. Lo Stato assume così la sua funzione essenziale (la repressione), quella di essere garante di questo sviluppo. Certo, allora si disse che era per normare la barbarie, “razionalizzare” le relazioni sociali e “governare” per tutti; “mediare” tra dominatori e dominati.

La “libertà” era la libertà di comprare e vendere (vendersi) sul mercato; la “uguaglianza” era per rendere coeso il dominio omogeneizzando; e la “fraternità”, bene, tutt@ siamo fratelli, il padrone e il lavoratore, il finquero e i peones, la vittima e il boia.

Poi si disse che lo Stato Nazionale doveva “regolamentare” il sistema, metterlo in salvo dai propri eccessi e renderlo “più equo”. Le crisi era il risultato di difetti della macchina e lo Stato (ed il governo in questione) era il meccanico efficiente sempre allerta per sistemare questi difetti. Chiaramente alla lunga è risultato che lo Stato (ed il governo in questione) era parte del problema, non la soluzione.

Ma gli elementi fondamentali di questo Stato Nazione (polizia, esercito, lingua, moneta, sistema giuridico, territorio, governo, popolazione, frontiera, mercato interno, identità culturale, ecc.) oggi sono in crisi: i poliziotti non prevengono i reati, li commettono; gli eserciti non difendono la popolazione, la reprimono; le “lingue nazionali” sono invase e modificate (cioè, conquistate) dalla lingua dominante nello scambio; le monete nazionali si valutano secondo le monete che egemonizzano il mercato mondiale; i sistemi giuridici nazionali si mettono in subordine alle leggi internazionali; i territori si espandono e contraggono (e frammentano) conformemente alla nuova guerra mondiale; i governi nazionali subordinano le decisioni fondamentali ai dettami del capitale finanziario; le frontiere variano di porosità (aperte per il traffico di capitali e merci, chiuse per le persone); le popolazioni nazionali si “mischiano” con quelle provenienti da altri Stati; e così via.

Mentre “scopre” nuovi “continenti” (cioè: nuovi mercati per estrarre merci e per il consumo), il capitalismo affronta una crisi complessa (per composizione, estensione e profondità) che esso stesso ha prodotto con la sua smania predatrice.

È una combinazione di crisi:

Una è la crisi ambientale che sta affliggendo tutte le parti del mondo e che è anche il prodotto dello sviluppo del capitalismo: l’industrializzazione, il consumo ed il saccheggio della natura hanno un impatto ambientale che altera quello che si conosce come “pianeta Terra”. Il meteorite “capitalismo” è già caduto ed ha modificato radicalmente la superficie e le viscere del terzo pianeta del sistema solare.

L’altra, è l’immigrazione. Si stanno pauperizzando e distruggendo interi territori ed obbligando la gente ad emigrare in cerca di una vita. La guerra di conquista che è l’essenza stessa del sistema non occupa più territori e la loro popolazione, ma relega quella popolazione al rango di “avanzi”, “rovine”, “macerie”, per cui quelle popolazioni o periscono o emigrano verso la “civiltà” che, non bisogna dimenticarlo, si regge sulla distruzione di “altre” civiltà. Se queste persone non producono né consumano, sono d’avanzo. Il cosiddetto “fenomeno migratorio” è prodotto e alimentato dal sistema.

Un’altra – su cui concordiamo con vari analisti in tutto il mondo – è l’esaurimento delle risorse che fanno funzionare “la macchina”: le risorse energetiche. I “picchi” finali di riserve di petrolio e carbone, per esempio, sono ormai molto vicini. Queste risorse energetiche si esauriscono e sono molto limitate, per la loro riproduzione ci vorrebbero milioni di anni. Il prevedibile ed imminente esaurimento fa sì che i territori con le riserve – benché limitate – di risorse energetiche siano strategici. Lo sviluppo di fonti di energia “alternative” procede troppo lentamente per la semplice ragione che non è redditizio, cioè, non ripaga subito l’investimento.

Questi tre elementi di questa complessa crisi mettono in dubbio l’esistenza stessa del pianeta.

La crisi terminale del capitalismo? Nemmeno per sogno. Il sistema si è dimostrato capace di superare le proprie contraddizioni e, perfino, di funzionare con queste ed in esse.

Dunque, di fronte a queste crisi che lo stesso capitalismo provoca, che provoca migrazione, provoca catastrofi naturali; che si avvicina al limite delle sue risorse energetiche fondamentali (in questo caso il petrolio e il carbone), pare che il sistema si stia ripiegando verso l’interno, come un’antiglobalizzazione, per poter difendersi da sé stesso e sta usando la destra politica come garante di questo ripiegamento.

Questa apparente contrazione del sistema è come una molla che si ritrae per poi espandersi. In realtà, il sistema si sta preparando alla guerra. Un’altra guerra. Una guerra totale: da tutte le parti, tutto il tempo e con tutti i mezzi.

Si stanno costruendo muri legali, muri culturali e muri materiali per tentare di difendersi dalla migrazione che loro stessi hanno provocato; e si sta tentando di tornare a mappare il mondo, le sue risorse e le sue catastrofi, per gestire le prime affinché il capitale mantenga il suo funzionamento, e le seconde per fare sì che non colpiscano troppo pesantemente i centri di Potere.

Secondo noi, questi muri continueranno a proliferare fino a che si costruirà una specie di arcipelago “di sopra” dove, dentro “isole” protette ci siano i padroni, diciamo, quelli che posseggono la ricchezza; e fuori da quegli arcipelaghi rimangano tutti gli altri. Un arcipelago con isole per i padroni e con isole differenziate – come le fincas – con lavori specifici. E, molto a parte, le isole perse, quelle delle/degli eliminabili. Ed in mare aperto, milioni di chiatte che deambulano da un’isola all’altra cercando un luogo per attraccare.

Fantascienza di manifattura zapatista? Googlate “Nave Aquarius” e guardate la distanza che corre tra quello che descriviamo e la realtà. Alla nave Aquarius diverse nazioni d’Europa hanno negato l’attracco in porto. La ragione? Il carico letale che trasporta: centinaia di migranti provenienti da paesi “liberati” dall’Occidente con guerre di occupazione e da paesi governati da tiranni col beneplacito dell’Occidente.

“Occidente”, il simbolo della civiltà per auto definizione, va, distrugge, spopola e si ripiega e chiude, mentre il grande capitale prosegue nei suoi affari: ha prodotto e venduto le armi di distruzione, produce anche e vende le macchine per la ricostruzione.

E chi appoggia questo ripiegamento è la destra politica in varie parti. Cioè, i capisquadra “efficienti”, quelli che controllano la marmaglia ed assicurano il profitto al finquero… anche se più di uno, una, unoa, ruba parte delle vitelle e torelli. Inoltre, “maltrattano” troppo la loro rispettiva popolazione acasillada.

Tutti quelli che avanzano, o consumano o bisogna annichilirli, bisogna farli da parti, sono – diciamo noi – le/gli eliminabili. In questa guerra non contano neanche come “vittime collaterali”.

Non è che qualcosa sta cambiando, è già cambiato.

Ed ora usiamo i simili ai popoli originari perché per molto tempo, nella tappa precedente lo sviluppo del capitalismo, i popoli originari erano rimasti dimenticati. Prima noi abbiamo usato l’esempio dei neonati indigeni che erano i non-nati perché nascevano e morivano senza che nessuno ne tenesse il conto, e quei non-nati vivevano in queste zone, per esempio, in queste montagne che prima non interessavano a loro. Le terre buone (le “planadas“, le chiamiamo noi) furono occupate dalle fincas, le grandi tenute dei grandi proprietari, e cacciarono gli indigeni sulle montagne, e adesso risulta che quelle montagne hanno delle ricchezze, merci che vuole anche il capitale e quindi non c’è più un posto dove andare per i popoli originari.

O lottano e difendono fino alla morte questi territori, o non c’è altra strada. Perché non ci sarà una nave che li raccolga quando navighino nelle intemperie tra le acque e le terre del mondo.

È in marcia una nuova guerra di conquista dei territori degli originari e la bandiera che sventola l’esercito invasore a volte ha anche i colori della sinistra istituzionale.

Questo cambiamento nella macchina per quanto riguarda le campagne o “zone rurali” che si può vedere perfino ad un’analisi superficiale, si presenta anche nelle città o “zone urbane”. Le grandi città si sono riordinate o si trovano in questo processo, dopo o durante una guerra spietata contro i suoi abitanti marginali. Ogni città ne contiene molte altre, ma una centrale: la città del capitale. I muri che circondano questa città sono formati da leggi, piani di urbanizzazione, poliziotti e gruppi di scontro.

Il mondo intero si frammenta; proliferano i muri; la macchina avanza nella sua nuova guerra di occupazione; centinaia di migliaia di persone scoprono che la nuova casa promessa loro dalla modernità è una chiatta in alto mare, il bordo di una strada, o l’affollamento di un centro di detenzione per “clandestini”; milioni di donne imparano che il mondo è un gigantesco club di caccia dove loro sono la preda da catturare; l’infanzia si alfabetizza come merce sessuale e lavorativa e la natura presenta il conto del lungo debito che, nel suo saldo in rosso, accumula il capitalismo nella sua breve storia come sistema dominante.

Certo, manca quello che dicono le donne che lottano, loas otroas del basso (per le quali ci sono solo disprezzo, persecuzione e morte), chi passa le notti nei quartieri popolari e trascorre il giorno a lavorare nella città del capitale, le/i migranti che ricordano che questo muro non è lì dalla notte dei tempi, i famigliari di desaparecid@s, assassinat@ ed incarcerat@ che non dimenticano né perdonano, le comunità rurali che scoprono di essere state ingannate, le identità che si scoprono differenti e suppliscono alla vergogna con l’orgoglio, e tutte, tutti, todoas le/gli eliminabili che comprendono che il destino non deve essere quello della schiavitù, dell’oblio o della morte mortale.

Perché un’altra crisi che passa inosservata è l’emergenza e la proliferazione di ribellioni, di nuclei umani organizzati che sfidano non solo il Potere ma anche la sua logica perversa e disumana. Diversa nella sua identità, cioè, nella sua storia, questa irruzione appare come un’anomalia del sistema. Questa crisi non conta per le leggi delle probabilità. Le sue possibilità di mantenersi ed approfondirsi sono minime, quasi impossibili. Per questo, dall’alto non la considerano.

Delle ribellioni, per la macchina, non c’è da preoccuparsi. Sono pochi, poche e pocoas, forse arrivano a 300.

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È sicuro che questa visione del mondo, la nostra, sia incompleta e che, con un alto grado di probabilità, sia erronea. Ma così è come vediamo il sistema a livello mondiale. E da questa valutazione segue quello che guardiamo e valutiamo ai livelli continentale, nazionale, regionale e locale.

(Continua…)

 

Traduzione “Maribel” – Bergamo

Testo originale: http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2018/08/20/300-primera-parte-una-finca-un-mundo-una-guerra-pocas-probabilidades-subcomandante-insurgente-moises-supgaleano/

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Qui l’intervento completo delle proposto dell’EZLN https://www.facebook.com/regeneracionradio/videos/224511961740144/

Galeano: I progetti di AMLO distruggeranno i territori indigeni
Il governo ha scelto tra i quattro candidati quello più a destra, ha dichiarato il  subcomandante Galeano dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), considerando che i programmi che il presidente eletto Andrés Manuel López Obrador intende attuare, come la piantumazione di migliaia di ettari di alberi, la costruzione del Treno Maya e il corridoio sull’istmo di Tehuantepec, non faranno altro che distruggere i territori delle popolazioni indigene.
Dopo l’incontro delle Reti di Appoggio del Consiglio Indigeno di Governo (CIG), in cui è stata  proposta la creazione di una Rete di Resistenza e Ribellione Internazionale, il subcomandante insurgente ha affermato, il 5 agosto nel caracol di Morelia, che la quarta trasformazione promessa da López Obrador è in realtà la quarta trasformazione del PRI. I governi possono cambiare, ma se il sistema di dominio viene mantenuto, succederanno le stesse cose, ha criticato.
A questo  proposito, Galeano ha fatto allusione alla società che fornirà gli esemplari per il progetto dei mille ettari di alberi da frutto e legname, il cui proprietario, ha detto, è Alfonso Romo, capo di gabinetto durante il prossimo governo.
Ha anche parlato del muro proposto da Donald Trump, che, dice, non è quello sul confine settentrionale, ma quello a sud, il fiume Suchiate, con la negazione dell’ingresso dei centroamericani in Messico. “Ecco perché Trump ha salutato Juanito Trump per aver vinto le elezioni”, ha detto.
Allo  stesso modo, ha condanato l’oblio subito dai popoli indigeni, sottolineando che erano già stati mandati sulle montagne in passato, quando furono privati delle loro terre; ora si scopre che queste montagne hanno una grande ricchezza e le vogliono per la nazione. Dobbiamo difenderle fino alla morte, perché temo che il governo si difenderà con violenza, sostiene.
Galeano ha esposto la proposta di consolidare una Rete di Resistenza e Ribellione Internazionale. Ritiene che il Consiglio Nazionale Indigeno cesserà di essere un movimento  esclusivo di gruppi nativi, poiché si cercherà di aggiungere qualsiasi gruppo o individuo esterno a questo processo governativo che ha qualificato “di addomesticamento”.
Inoltre, questa Rete si espanderà anche ad altre nazioni, cercando in qualsiasi angolo del mondo coloro che resistono al proprio sistema di governo.
Oltre a questa azione principale, il subcomandante insurgente ha riferito su altre sette, tra cui l’integrazione di uomini dalle campagne e gruppi di combattimento storici nella rete di supporto al CIG; la discussione di ciascuno dei comitati formati ha lo scopo di coordinare gli sforzi tra le reti, così come un incontro internazionale in uno dei cinque caracoles zapatisti a dicembre.
Articolo di Sandra Gayou / La Jornada Maya. Mercoledì 15 agosto 2018, p. 6
Traduzione Rebecca Rovoletto  Foto di Ojo de Alma su Semillitas Zapatista

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La strategia del caracol. 

Hermann Bellinghausen. 

Quindici anni fa l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale annunciava la creazione dei caracoles e delle Giunte di Buon Governo (JBG).

Oggi, quando il governo entrante enuncia come sua meta il compimento di detti accordi, sarebbe bene che sapesse che si sono già realizzati. Ora serve molto altro, gli Accordi di San Andrés erano solo la prima di quattro tappe di un negoziato interrotto per negoziare la pace coi ribelli e risolvere le istanze storiche dei popoli originari della nazione. Di fronte alle politiche neoliberali che hanno imposto la depredazione e l’estrazione aggressiva nei loro territori, molte comunità indigene hanno smesso di aspettare. Il rischio della politica indigenista di AMLO è che parte già vecchia, sarà clientelare e rivolta alla povertà, prevede un’autonomia solo di un certo tipo e indirizzata verso la creazione di importanti divisioni. Come se non ce ne fossero già abbastanza.

Lento, silenzioso ed efficiente, il caracol ribelle funziona da 15 anni, si adatta e si muove, si attualizza, si contrae e allarga, e sembra si diverta. Le sue richieste non fanno la coda alla Sedesol. Inoltre, la sua strategia è arrivata più lontano e dentro, incarna una cultura che lo Stato è obbligato a rispettare.

Andrés Aubry, grande interprete del movimento ribelle del Chiapas, su Ojarasca scriveva che “la festa dei caracoles ha dimostrato che i ribelli hanno preso sul serio la rottura del silenzio proclamata da 30 mila zapatisti ed i loro comandanti il primo gennaio del 2003 a San Cristóbal.

“Ora sappiamo che ciò che ha riempito questo lungo silenzio in clandestinità non era altro che un disciplinato e progressivo compimento degli Accordi di San Andrés http://www.jornada.com.mx/2003/11/24/oja-caracoles.html. Di fronte alle pesanti omissioni della classe politica e dei poteri ufficiali, gli zapatisti hanno proclamato che da ora in poi questa aperta ribellione non si praticherà più in silenzio ma con i media di una resistenza trasparente.”

Nel pieno degli eventi, anche Pablo González Casanova scriveva: “Dei ricchi contributi che il movimento zapatista ha apportato alla costruzione di un’alternativa, il progetto dei caracoles sfata molte false discussioni di politici e intellettuali” [https://www.jornada.com.mx/2003/09/26/per-texto.html e in italiano http://chiapas.meravigliao.it/2003/260903jp.htm].

Nelle parole del comandante Javier (lo stesso che il primo gennaio 1994 lesse la Prima Dichiarazione della Selva Lacandona a San Cristóbal de Las Casas) citate da González Casanova nel suo splendido Saggio di interpretazione dei caracoles, questi aprono nuove possibilità di resistenza e autonomia dei popoli indigeni del Messico e del mondo che include tutti i settori sociali che lottano per la democrazia, la libertà e la giustizia per tutti.

Dietro la creazione dei caracoles e delle JBG formate dalla struttura civile dell’EZLN nei municipi autonomi ribelli zapatisti (che si erano evoluti dal 19 dicembre del 1994), González Casanova sottolinea che il progetto postula che le comunità ed i popoli devono esercitarsi nell’alternativa per acquisire esperienza. Non aspettare di acquisire più potere per ridefinire il nuovo modo di esercitarlo. Non si costruisce sotto la logica del potere dello Stato. Neanche per creare una società anarchica. È un progetto di popoli-governo che si articolano tra loro e cercano di imporre percorsi di pace… senza disarmare moralmente o materialmente i popoli-governo.

È corretto dire che le JBG e loro simili sono governo e scuola di governo. Si sono aperte alla partecipazione centrale di donne e giovani ed hanno orizzontalizzato il servizio pubblico comunitario che non ha niente a che vedere con i partiti né con il sistema dominante.

La conclusione di González Casanova era di lungo respiro: “Più che un’ideologia del potere dei popoli-governi, i caracoles costruiscono ed esprimono una cultura del potere che sorge da cinquecento anni di resistenza dei popoli indios d’America”.

Testo originale http://www.jornada.com.mx/2018/08/06/opinion/a08a1cul

 

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