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Archive for febbraio 2011

La Jornada – Lunedì 28 Febbraio 2011

Scatena le proteste l’arresto in Chiapas degli avvocati del Centro Digna Ochoa

Hermann Bellinghausen

L’arresto in Chiapas dei tre avvocati del Centro dei Diritti Umani Digna Ochoa e la persecuzione al Consiglio Regionale Autonomo della Zona Costa ha generato numerose proteste su scale nazionale ed internazionale. Circa 25 organizzazioni dell’Altra Campagna, chiedendo la liberazione di questi “prigionieri politici”, fanno gravi denunce: “Il governo del Chiapas, guidato da Juan Sabines Guerrero, applica una politica aggressiva e repressiva mediante l’arresto di membri di organizzazioni e comunità indigene”.

Sostengono che, “mentre la strategia di persecuzione delle comunità zapatiste non si è fermata, agli inizi di questo mese, in chiara violazione dei diritti umani e di qualunque garanzia giuridica”, sono stati fermati ejidatarios tzeltales di San Sebastián Bachajón. Citano anche il recente attacco a componenti dell’Altra Campagna a Mitzitón “con la complicità delle autorità chiapaneche”.

Segnalano che, “mentre la retorica del governatore è piena di riconoscimenti per lo zapatismo, le sue azioni rafforzano la strategia contrainsurgente contro le sue comunità. Mentre nei discorsi il governatore nega la persecuzione e la repressione, oggi le prigioni si riempiono, per controllare e disarticolare chi lotta in maniera indipendente e si organizza. Mentre il governatore parla della riduzione della povertà, gli agenti operano per controllare e cooptare e contemporaneamente isolare chi in maniera degna e ribelle si rifiuta di essere controllato.

“Il vecchio priismo si è solo rivestito di giallo e rosso per governare alla maniera di sempre: con una mano il potere distribuisce soldi, con l’altra punisce chi si rifiuta di prenderli. Questa strategia di ‘governabilità’ si completa con l’amichevole alleanza col governo federale e l’Esercito”.

Questo 22 febbraio la persecuzione contro il Consiglio Autonomo Regionale della Zona Costa si è aggravata. “La sua lotta contro il caro tariffe della luce e per l’autorganizzazione di pescatori, comunità e donne, oltre ad una forte solidarietà con le lotte chiapaneche e nazionali, rappresenta ora uno degli obiettivi di questa politica repressiva. Il Consiglio è diventato un problema per il governo chiapaneco”.

Migliaia di persone si sono unite al consiglio ed ai suoi progetti, come la tortillería autonoma per far scendere il prezzo della tortilla, i corsi sui diritti delle donne, l’auto-organizzazione contro le alte tariffe.

Il Consiglio è uscito per le strade a manifestare il suo ripudio per i continui attacchi contro le comunità zapatiste, per appoggiare la liberazione dei prigionieri politici, così come altre comunità ed organizzazioni aderenti all’Altra Campagna come loro. Per questo, “il governo sa che tenere in prigione i tre avvocati Nataniel Hernández, José María Martínez Cruz ed Eduardo Alonso Martínez Silva significa colpire il Consiglio”.

Oltre a ripudiare “la strategia di criminalizzazione della protesta sociale” del governo chiapaneco “come meccanismo di controllo politico”, la persecuzione delle comunità zapatiste e gli arresti di membri della comunità di San Sebastián Bachajón, le organizzazioni chiedono la liberazione di tutti i “prigionieri politici” arrestati questo mese.

Il pronunciamento è sottoscritto da movimenti in resistenza contro l’autoritarismo di governi perredisti, come quello del Chiapas, che impongono autostrade, miniere, dighe, superstrade o repressione in Guerrero (Consiglio di Ejidos e Comunità Contro la Diga La Parota, Polizia Comunitaria e Radio Ñonmdaa La Palabra del Agua) ed il Distretto Federale (Collettivo Autonomia dei Quartieri di Magdalena Contreras, Fronte dei Popolo dell’Anáhuac-Tláhuac e Fronte Popolare Francisco Villa-UNOPII), così coome il municipio autonomo di San Juan Copala (Oaxaca), Fronte Ampio Contro la Miniera San Xavier (San Luis Potosí) e Fronte dei Popoli in Difesa della Terra (stato del Messico), tra gli altri. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/28/index.php?section=politica&article=020n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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Una lezione ed una speranza

Luis Villoro

Per il Subcomandante Insurgente Marcos

da Luis Villoro

Febbraio 2011

Ho accettato con piacere e interesse questo scambio di scritti. Condivido la preoccupazione per la situazione che attraversa il nostro paese ed ammiro, da tempo, quello che sta facendo il movimento zapatista.

Nel 1992, due anni prima della sollevazione zapatista, ho avuto l’opportunità di scrivere un libro dal titolo El Pensamiento Moderno. Filosofía del Renacimiento, edizioni del Fondo di Cultura Economica. Rileggendolo ora, ho trovato grandi affinità con quello che l’EZLN avrebbe detto e fatto più avanti, e questo conferma le nostre coincidenze fin dall’inizio. Quello che allora pensavo oggi è diventato ancor più pertinente ed urgente che mai: l’etica e la giustizia devono stare al centro della vita sociale. Non dobbiamo permettere che politici di tutto lo spettro ideologico le espellano da lì e le trasformino in mere frasi da discorso.

Incomincerò in primo luogo a menzionare la situazione attuale: il dominio del capitalismo mondiale. Questo controlla, con alcune eccezioni, le politiche economiche che determinano la vita delle grandi maggioranze così come i mezzi di comunicazione che vogliono giustificarle. Esprime, insomma, un pensiero di dominazione.

Si tratta, in effetti, di una guerra stabilita dal potere. Si suppone sia diretta contro il narcotraffico e contro il crimine organizzato, ma è una guerra di chi detiene il potere economico senza altro progetto che accrescere i guadagni del capitale.

Guerra dall’alto, morte in basso, come lei afferma. Si esprime in un pensiero di dominazione che potrebbe condurre effettivamente alla distruzione del tessuto sociale, essenza di ogni società.

Questa è, in sintesi, la situazione mondiale. Tuttavia, possiamo segnalare luoghi in cui si scorge l’inizio di una strada verso un mondo migliore. È questa una delle principali ragioni per cui la sua esperienza continua ad essere tanto importante. Lì, in Chiapas, a partire da antiche radici indigene, dalla cosmovisione e dai vostri particolari modi di nominare il mondo, voi avete dimostrato la possibilità di realizzazione anche di valori opposti. Mentre nel capitalismo vige l’individualismo (i sacrosanti diritti individuali) in questa alternativa sorge un altro tipo di valori: valori comunitari che rispettano la persona nella sua individualità e si realizzano in una comunità. Si manifesta così, in tutta chiarezza, “l’etica del bene comune”.

In queste piccole comunità, nel sudest messicano, esiste una nuova organizzazione politica: le cosiddette “Giunte di Buon Governo” (JBG) che cercano di realizzare valori etici differenti ed anche opposti a quelli del capitalismo. Sono valori collettivi basati sull’idea di comunità o comunanza. Di fronte all’individualismo occidentale moderno propizia la proprietà comune che prospera rispetto alla proprietà privata.

Ci dà una lezione anche in ordine giuridico: rispetto alla punizione con la prigione opta per l’assegnazione di un lavoro a beneficio della comunità per scontare la pena, a differenza della reclusione nelle nostre società.

Insomma, contro l’individualismo moderno, si potrebbe ricorrere ad un’altra tradizione precedente già esistente in Indoamerica, la tradizione comunitaria. Questo è un esempio che un altro mondo è possibile rispetto alla modernità occidentale.

Un altro esempio che segna una differenza sostanziale con l’Occidente, per quanto si riferisce ai valori, è la vostra gestione di concetti contrari come vincitore-vinto, buono-cattivo, ecc. Lo spiega molto bene il paradosso della guerra zapatista che lei, Sup Marcos, segnala alla fine del suo scritto e che mette in chiaro che l’obiettivo non è vincere distruggendo il nemico, perché, in realtà, nelle guerre non si può parlare di vincitori o vinti poiché, dal punto di vista umano, per le morti, il sangue versato e la distruzione materiale, entrambe le parti risultano perdenti.

Senza parlare dei sopravvissuti. Come lei dice: “La chiave è nel fatto che la nostra è una guerra che non vuole distruggere l’avversario nel significato classico. È una guerra che vuole annullare il terreno della sua realizzazione e le possibilità dei contendenti (noi compresi)”.

Con riferimento al tema dello Stato nazionale, la cui crisi si avvertiva già da decenni – come dico a pag.153 del mio libro qui citato – “era chiaro che i problemi planetari di allora superavano la sua capacità di risolverli e, d’altra parte, non riusciva ad affrontare le complesse domande delle diverse e particolari comunità, come la crescente attività di nazionalità, etnie, comunità e gruppi sociali che affermavano la propria identità ed esigevano il diritto della diversità dentro l’uguaglianza” (parole, quest’ultime, che mostrano un’indubbia affinità coi postulati zapatisti).

“Con ciò si annunciava un cambiamento profondo nel modo di considerare il posto dell’uomo nell’ordine sociale, che non si delineava più come risultato della volontà maggioritaria di individui uguali, bensì dalla interrelazione complessa tra comunità e gruppi eterogenei. Il potere politico sarà giustificato se sancirà, insieme all’uguaglianza, la differenza.” (Idem)

In quanto al tema tanto reiterato dei “diritti umani che condensano il diritto di ogni persona a realizzarsi pienamente, sembrano ignorare che la persona non può realizzarsi in solitudine; quindi implicano il riconoscimento dei valori specifici di ogni gruppo e comunità; implicano, per esempio, il diritto delle etnie allo sviluppo autonomo della propria cultura e dei propri stili di vita” (pag.154), esattamente il motivo che ha dato luogo alla storica marcia del colore della terra nel 2001, la cui sfortunata e vergognosa conclusione anche lei menziona nella sua missiva.

Tuttavia, gli indiscutibili progressi che abbiamo potuto vedere nelle nostre diverse visite ai Caracoles zapatisti (sedi delle JBG) dal 2003, frutto dell’esercizio della propria autonomia applicata ai campi dell’educazione, salute ed auto-governo, dimostra che un altro tipo di relazione umana è possibile dove governano la fraternità, il rispetto e la fiducia. E dove è possibile esercitare un altro tipo di democrazia più autentica: la democrazia partecipata, tanto distante da quella rappresentativa che noi conosciamo.

In quanto ai processi elettorali ed ai partiti politici, posso dire che non ho nessuna fiducia. Dato che si tratta di etica e giustizia e che è necessario incarnare i valori che ci sostengono, non posso depositare la mia speranza in chi lotta indefinitamente per i suoi piccoli pezzi di potere e tralascia ogni impegno serio di occuparsi del bene comune.

I risultati prima menzionati nella zona zapatista – ed in particolare tra la gioventù – mostrano una realtà assolutamente diversa da quello che i mezzi di comunicazione vogliono mostrarci col loro silenzio circa questo movimento che ha risvegliato un’impressionante solidarietà internazionale. Conosciamo bene la continua distorsione con cui informano e con la quale occultano la costante persecuzione rivolta contro le comunità e basi di appoggio, col fine di modellare l’opinione pubblica e cancellare la sua capacità critica.

Fortunatamente con la tecnologia moderna, sono sorte alternative che stanno cambiando questa realtà: dalle reti sociali fino alle radio comunitarie, impegnate nel portare alla luce quanto taciuto e manipolato dai media di massa, che promettono il recupero del pensiero critico che oggi sembra relegato ad un stato di eccezione.

Infine, posso dire che resta una lezione ed una speranza a chi ha avuto l’opportunità di seguire da vicino la resistenza zapatista negli ultimi 17 anni, così come la trasformazione che hanno apportato nel loro territorio a partire dalla loro autonomia per costruire comunità fraterne dove la paura, che oggi invade l’intero paese, non ha possibilità. Questo costituisce una voce di speranza in momenti come gli attuali in cui il degrado e la violenza sembrano aver offuscato il nostro panorama.

Saluti e avanti.

Luis Villoro

http://revistarebeldia.org/revistas/numero77/07villoro.pdf

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Scambio epistolare su Etica e Politica

L’etica ha bisogno di un luogo altro per mettere radici e fiorire

Raúl Zibechi

Febbraio 2011:
Don Raúl: Saluti. Abbiamo letto alcuni dei tuoi ultimi scritti e pensiamo di essere in sintonia. Per questo vogliamo invitarti ad unirti e a portare il tuo contributo sul tema Etica e Politica.

Un abbraccio.

SupMarcos

Su invito del SCI Marcos, dall’Uruguay, Raúl Zibechi si unisce con questa lettera allo scambio epistolare su Etica e Politica.

Lettera all’EZLN

Marzo 2011

Per: Subcomandante Insurgente Marcos – Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Da: Raúl Zibechi.

Un abbraccio alle compagne e ai compagni zapatisti da questo angolo del continente sudamericano. E un abbraccio di cuore a quelle bambine e a quei bambini che subiscono la guerra dell’alto, quella guerra alla cui direzione vanno alternandosi conservatori e progressisti, destre e pseudo sinistre che in comune hanno la propria avversione – e timore- a tutti quelli che stanno in basso. Che solamente vengono considerati come masse passive nei loro cortei, che adesso chiamano manifestazioni, e soprattutto nel sacrosanto giorno in cui si accorre alle urne.
Man mano che il mondo, il nostro continente e i nostri differenti modi di stare in basso sono sempre più colpiti dalle molteplici guerre di quelli in alto – la guerra della fame a causa della speculazione sugli alimenti, la guerra del silenzio informativo per cancellarci, la guerra delle politiche sociali per addomesticarci, e la guerra-guerra di pallottole e cannoni per eliminare ammazzando – diventa urgente tracciare “frontiere” tra i più svariati “noi” e “loro”, anche a rischio di trovarci con qualche sorpresa sgradita.
Di fronte ad ogni salto in avanti della rivolta mondiale di quelli in basso, quando moltitudini armate di pietre si scontrano con elicotteri d’attacco e cacciabombardieri, arriva il momento di chiedersi: da quale parte? con chi? Domande a cui si può solo rispondere con il cuore e il più elementare senso di solidarietà umana, anche se tutti i giorni vediamo quelli che occupano i piedistalli in alto fare calcoli di guadagni e perdite, con mediocri motivazioni utili a spiegare qualsiasi cosa perché alcune parole, come diceva León Felipe della giustizia, valgono di meno, infinitamente meno della piscia dei cani.
Quando migliaia e i milioni di persone conquistano le strade, come fecero nel gennaio 1994 in Messico e al Río de la Plata nel dicembre 2001, non bisogna far altro che festeggiare, accompagnare, lasciare le faccende del momento e uscire con loro condividendo allegria e dolore. “E dopo?”, era la domanda che ci facevano a bruciapelo intelligenti analisti e dirigenti di sinistra. Dopo, non si può sapere. L’unica cosa che possiamo dire è: adesso, e basta.
Mentre le acque sono calme, i margini per la speculazione si allargano fino a diventare oceani di discorsi; parole e ancora parole possono essere pronunciate una dopo l’altra, una e un’altra volta, perché non sono legate a fatti, azioni, decisioni, impegni. Sono, diciamo, parole. Come quelle del politico in alto, che rispondono al capriccio e all’interesse individuale.
Ma quando le acque si increspano, quando le onde esplodono in mareggiata, niente resta al proprio posto. I tempi per il calcolo e la speculazione lasciano il passo a risposte quasi automatiche, ed è lì dove ciascuno risponde secondo i valori che ha coltivato man mano. Nelle crisi, come nei naufragi, ci sono solo vie d’uscita collettive, per il semplice fatto che l’opzione individuale non contiene tutti. Questa è la prima lezione che stanno rispolverando le ribellioni che scuotono il mondo.

Un sistema in disfacimento

Possiamo fare tutti gli sforzi intellettuali necessari a comprendere quello che sta accadendo nel mondo. Raccogliere dati, classificarli, analizzarli, rapportarli, sottoporli a verifica, e così via fino a circoscrivere alcune ipotesi su ciò che chiamiamo crisi sistemica, che assomiglia sempre più a un caos sistemico.
Come capire la crisi del sistema? Dicono che ci sono leggi economiche che mostrano tendenze e segnali inequivocabili del fatto che stiamo entrando in un periodo nel quale il capitale incontra limiti per la sua accumulazione. E ci sono altre teorie che dicono che la caduta del capitalismo è inevitabile e che il mondo unipolare, cioè il mondo basato sull’egemonia di un solo paese, gli Stati Uniti, non è più sostenibile.
Secondo alcuni, e possiamo sbagliarci, quella che chiamiamo crisi sistemica, non è né più né meno che un Ya Basta! collettivo, contundente e generalizzato di quelli in basso in tutti gli angoli del mondo. Crisi è: quando donne e giovani, bambini e bambine, contadini e operai, indigeni e studenti, non non tollerano oltre e le loro battaglie si fanno così forti che quelli in alto, i padroni del capitale, cominciano a portare i soldi in posti più sicuri. E quello che provocano è un casino gigantesco nel quale i capitalisti giocano a togliersi i soldi l’un l’altro, perché quelli in basso non si lasciano più derubare e sfruttare tanto facilmente.
Giovanni Arrighi e Beverly Silver, nel loro lavoro che abbraccia cinque secoli di storia del capitalismo, “Caos e governo del mondo“, dicono che questa crisi ha una caratteristica ben diversa da tutte quelle precedenti. Adesso la lotta di quelli in basso è così potente che da sola fa entrare in crisi il sistema. Così è successo in tutta l’America latina dal Caracazo del 1989 fino alla seconda guerra del gas in Bolivia nel 2005 e alla comune di Oaxaca nel 2006. Non sono state le “leggi oggettive” a mettere in crisi la forma di dominio, ma le persone nelle strade che hanno sconvolto il modello neoliberista.
Ciò che chiamiamo crisi sistemica sembra un uragano che ci colpisce tutti e tutte. Non c’è popolo o gruppo sociale che sia al sicuro, e molti degli strumenti che hanno saputo costruire nel corso dei secoli di resistenza sono diventati inutili. Non solo le prime organizzazioni “storiche” di quelli in basso, ma anche una parte delle più giovani, i cosiddetti movimenti sociali si sono trasformati poco a poco in obiettivi essi stessi, in gruppi guidati dalla logica della sopravvivenza. Per inerzia o per quel che sia, una parte di quanto inventato per resistere non sta servendo a resistere in questo periodo in cui tutto si scompone. Perfino il nostro mondo si sta disgregando. Per questo siamo costretti a reinventare i nostri attrezzi di resistenza e i nostri mondi.
Che dire delle teorie, le ideologie, le analisi scientifiche. Le previsioni dei “narratori” sociali e politici assomigliano a quei bollettini meteorologici dove l’unica cosa cosa che azzeccano è dire a che ora spuntano il sole e la luna e tutto il resto è incerto. I “narratori” sociali, come si addice, non si fanno carico dei propri pronostici. Non mettono il corpo insieme alle analisi.
Cosa fa un marinaio quando le mappe di navigazione si mostrano sbagliate, quando le bussole e gli orologi e i sestanti non segnano più con la precisione di un tempo? E cosa fanno i ribelli sociali quando non ci si può aspettare più niente dallo Stato e dalle istituzioni, dai partiti e dalle organizzazioni che parlano di cambiamento e rivoluzione ma in realtà stanno cercando il miglior modo di accomodarsi in questo mondo?
Possiamo confidare nell’etica come supporto e guida dei nostri movimenti, delle nostre scelte e come machete per aprire sentieri?

È possibile unire etica e politica

Gli zapatisti propongono di aprire un dibattito su etica e politica. “È possibile portare l’Etica nella guerra?”, ci chiede il Subcomandante Insurgente Marcos nella sua lettera a Luís Villoro. Possiamo allargare la domanda alla politica. Etica e politica possono andare assieme? La risposta non è così evidente.
Come sarebbe? C’è chi pensa di mettere qualche dose di etica in qualcuno dei partiti che occupano ministeri? E alla Camera dei deputati e dei senatori? Quanta? Fino a riempire quante pagine di discorsi? Quale dovrebbe essere la dosi necessaria di etica per rimuovere decenni di pratiche guidate dal calcolo meschino dei benefici quantificati in incarichi, viaggi e compensi straordinari? È evidente che là in alto l’etica è il convitato di pietra o argomento di conversazione. Sono due dimensioni che vivono in mondi diversi e che non possono dialogare né capirsi.
Una notte fredda del 1995, il comandante Tacho si rivolse alla folla nella piazza di San Andrés per spiegare quello che avevano discusso quel giorno con i rappresentanti del governo durante alcune trattative che alla fine sfociarono negli Accordi di San Andrés. “Ci hanno chiesto di spiegare cos’è la dignità”, disse, provocando un terremoto di risate. Con l’etica accade qualcosa di simile. È o non è, ma non può essere spiegata, anche se ho visto intere biblioteche di libri con la pretesa di analizzarla.
L’etica ha bisogno di un luogo altro per mettere radici e fiorire. E quel luogo è in basso e a sinistra, lì dove è nato poco a poco un altro modo di fare politica, dove la parola è intrecciata alla vita e la vita è fatta di realtà che fanno male, né grandi né piccoli, le realtà quotidiane di quelli in basso. Questa politica altra, quella che nasce nel sottosuolo per restarci, la politica che non cerca scale per arrivare in alto ma ponti per arrivare ad altri in basso, e con tutti quelli in basso cerca di costruire un mondo diverso, questa politica è etica, e solo lei può esserlo.
La barca della politica dell’alto, che è la stessa politica di quelli che vogliono arrivare in alto, vicino al timone ha un bussola enorme che punta sempre verso un nord che si chiama pragmatismo o realismo. Che è l’arte di giocare con gli elementi esistenti, con la “correlazione delle forze” (il frustino più usato delle sinistre in alto), con la reale realtà. Il pragmatico e realista misura con maggiore esattezza la congiuntura, la sventra per levarle tutto il succo possibile, per giocare con lei il gioco di sistemare le pedine degli scacchi sulla scacchiera per i propri interessi nel miglior modo possibile. (Si noti che il politico in alto non fa differenza tra politica ed economia, e utilizza gli stessi concetti in entrambi gli ambiti).
Il politico pragmatico e realista, quando si sollevano i popoli, quando contro i proiettili e i cannoni del tiranno ci mettono il corpo, non si turba per il sangue sparso. Si limita a calcolare a chi può beneficiare e a chi nuocere la caduta del tiranno e il trionfo degli insorti.
Fa i suoi calcoli, con lo stesso fervore e la stessa ripugnante indifferenza con cui conta i voti elettorali.
Rinuncia, per tanto, a creare un mondo nuovo. Che non può essere la semplice disposizione delle pedine esistenti, ma un’altra cosa, un altro gioco. Amministrare le cose che esistono, giocare con le pedine del sistema, implica l’accettare le regole del sistema e quelle regole si chiamano, in secondo luogo, elezioni. In primo, sottostare alla violenza dell’alto, quello che chiamano monopolio-della-violenza-legittima. (Gli zapatisti lo subiscono quotidianamente, è violenza tout court, e non vale la pena dilungarsi ora). La politica altra, la politica etica, rifiuta le pedine e le regole del gioco che vuole farci giocare la politica dell’alto.
Con quali pedine la politica altra prepara il gioco del nuovo mondo?
Nella politica altra, la politica dal basso e a sinistra, non ci sono pedine né gioco, a meno che metterci il corpo si chiami gioco.

Etica è metterci il corpo

Gli zapatisti dicono che il pensiero critico è stato rinviato, nuovamente, dall’urgenza dei calcoli del momento. Al suo posto guadagna spazio il marketing elettorale. Pensare criticamente non è altro che pensare contro se stessi, contro quello che siamo e facciamo; non per smettere di essere e fare, ma per crescere e avanzare. Il pensiero critico non può adeguarsi al luogo cui è arrivato, per quanto interessante esso sia.
Adesso le sinistre e gli “intellettuali Petrobras” (quelli che si fanno finanziare i libri dalle multinazionali progressiste e stampano il logo dell’azienda sulla quarta di copertina), si dedicano ad abbellire le supposte realizzazioni dei governi progressisti. Il loro “pensiero critico” è più che curioso: criticano l’imperialismo del Nord, come se al Sud non esistesse, e l'”estrema sinistra” che, dicono, lavora per le destre. Intere popolazioni sono state soggiogate da Petrobras, così avida di profitti da voler diventare la prima compagnia petrolifera del mondo (già è la seconda). Questi intellettuali parlano di pensiero critico ed emancipazione, come se non sapessero che le aziende che li finanziano sono macchiate di sangue.
Per noi il pensiero critico è sempre stato e sempre sarà autocritica. È il modo di levigare quello che siamo, di migliorarci, di farci migliori, più veri. Non siamo mai soddisfatti di quello che facciamo perché vogliamo sempre andare oltre. Non per smania di perfezionismo né di risalto. Quelli in basso hanno bisogno di quel motore che è la critica/autocritica perché non possono adeguarsi al posto che occupano in questo mondo. Non è un pensiero scientifico nel senso accademico, perché non viene convalidato da altri accademici ma dalla gente comune, quelli in basso organizzati in movimenti.
Il pensiero critico è un pensiero in transito, che non ha vocazione per ancorarsi ma per stare in movimento, non solo con i movimenti. Non è fine a se stesso, perché deve servire ai più per la loro resistenza sempre impegnata ad affrontare nuove sfide. Se no che senso ha il pensiero? Non si aggrappa alle idee che ha formulato in un determinato momento, è disposto a modificarle perché non vuole avere ragione per essere più di altri, ma con tutti.
È un pensiero a cielo aperto, nasce e cresce e sente vicino agli spazi delle resistenze. Non trova posto nelle accademie e negli uffici riscaldati/condizionati, e non dipende da bilanci. Se è vero, se è sincero e impegnato, insieme alle idee e ai ragionamenti ci mette il corpo. Non pensa e invia altri al fronte, come i generali codardi degli eserciti che spendono milioni di dollari in droni, quegli aerei senza pilota che radono al suolo villaggi evitando ogni rischio per la vita di chi attacca. Per chi fa la guerra, è un videogioco: i droni vengono manovrati sugli schermi da un altro continente, per adesso gli Stati Uniti. Per chi la subisce, è il genocidio impersonale.
Il pensiero critico, che è un pensiero etico, non può essere un videogioco dove il politico mette le idee e gli altri il corpo.
Nelle ultime pagine del romanzo di Alejo Carpentier, “Il secolo dei lumi“, Sofia si lancia nelle strade di una Madrid insorta contro le truppe di Napoleone, il 2 di maggio 1807. Esteban cerca di fermarla perché sarebbe stata morte certa: cannoni e fucili contro urla e coltelli. Entrambi uscivano sofferenti dal tradimento degli ideali della Rivoluzione Francese:
– Andiamo là!
– Non essere stupida: stanno mitragliando. Non ci farai niente con quei ferri vecchi.
– Resta se vuoi. Io vado!
– E per chi vai a combattere?
– Per quelli che si sono buttati nelle strade! Bisogna fare qualcosa.
– Cosa?
– Qualcosa!

L’etica come pensiero critico e viceversa

Per navigare a favore di corrente, per lasciarsi trasportare senza sforzo, non serve né pensiero critico né etica. Che senso possono avere la critica e l’etica se tutto consiste nel seguire la corrente? Se il sentiero è già tracciato, come dice la canzone di un amico uruguayano, e non resta che seguirlo, e in più è in discesa, la critica è un impiccio e l’etica, al massimo, un ornamento. La critica ci spinge ad uscire dal sentiero, a cercare pendenze scoscese, a entrare nel fango fino alle orecchie. L’etica non può fare compromessi con il conformismo.
Lo stesso può essere detto di quelle pratiche politiche condotte da dirigenti che concentrano tutto il sapere e il potere e che devono essere seguiti ciecamente. Chi abbia conosciuto da vicino l’esperienza di Sendero Luminoso in Perù, ha potuto constatare che la relazione tra i capi “rivoluzionari” e i militanti di base riproduceva fedelmente la relazione verticale e autoritaria tra i proprietari terrieri feudali e i loro braccianti. Lì non c’è mai stato cambiamento ma mera riproduzione di relazioni di oppressione, basate sul “partito d’avanguardia” i cui timonieri navigavano sospinti dal vento della storia.
“Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’idea che essa nuota con la corrente”, scrisse Walter Benjamin nelle “Tesi sulla Storia”. Le donne e gli indigeni, che non erano contemplati in quella Storia grande, hanno fatto il loro cammino contro corrente e per questo si sono trasformati nei soggetti delle proprie vite. Sarà che la politica elettorale è fedele erede di quella tradizione conformista in cui non serve metterci il corpo ma un foglio nell’urna ogni quattro cinque anni?
Nella frase di Benjamin il soggetto non è “essa”, la classe operaia, ma la corrente storica, così come in altre esperienze è il partito o il capo supremo. L’infallibile. Quelli che come me vengono dall’esperienza marxista/maoista ne sanno qualcosa. I soggetti non sono mai stati i contadini in carne ed ossa ma il Grande Timoniere, il Libretto Rosso (o era verde?) o la dirigenza superiore. La gente comune, quella che chiamiamo sempre massa, era quello: materiale blando modellabile dalla dirigenza e/o dalla linea corretta. Nella massa non abbiamo mai saputo vedere persone, non è mai apparso un Vecchio Antonio o una bambina di nome Patricia, uomini e donne veri con pensieri, tradizioni, identità, con le quali potessimo dialogare e dalle quali imparare. I pochi nomi propri che compaiono nei principali racconti del Grande Timoniere, sono personaggi stranieri o ben altri dirigenti dell’alto. Mai la persona comune, mai quelli in basso.
Di conseguenza, ci siamo dedicati a seguire i passi dei “grandi”, di quelli veramente importanti, dei capi storici (maschi, istruiti, abili nel maneggiare la parlata corretta). Ogni frase dei dirigenti era letta e riletta fino a cavarne un senso straordinario, ogni gesto veniva studiato, ogni fotografia scandagliata e quell’esercizio – guardare sempre verso l’alto – ci ha accorciato la capacità di vedere, ascoltare, sentire l’allegria e il dolore di quelli in basso. Di tutti quelli che non avevano un discorso pulito, che non frequentavano i luoghi e le forme del potere. Essi ed esse erano tanto invisibili per i “rivoluzionari” quanto lo erano stati per i funzionari imperiali. (Se mi inoltro in questa tradizione non è perché sia eccezionale, ma perché fa male, ferisce, e mantenerne vivo il dolore è l’unica forma che conosco per non ripeterlo).
Questa dolorosa tradizione arriva fino ai nostri giorni e assume forme molto più raffinate e cortesi, impersonali e scientifiche. Tra gli accademici: cifre e dati oggettivi che nascondono gli esseri umani dietro grafici e statistiche. Non c’è qualcosa in comune tra tutti i modi di fare e di pensare che nascondono il dolore umano?
Se è certo, come dice Benjamin, che la vita quotidiana degli oppressi è uno “stato d’eccezione” permanente, e per constatarlo basta andare in una comunità indigena o in qualsiasi quartiere povero di qualsiasi periferia urbana latinoamericana, sorge un imperativo etico. Non è più possibile pensare criticamente fuori dallo stato d’eccezione, lontano dal luogo dove viene esercitato il potere nudo della violenza fisica. Per prendere distanza, per parlare in nome di quelli in basso, sono state create le agenzie per lo sviluppo. Più in là, il pensiero critico nascerà nelle condizioni che ci vengono imposte dallo stato d’eccezione, o non sarà pensiero critico.
Diranno che così si perde il distacco necessario per poter esercitare la critica. Qui c’è una differenza fondamentale, che è inerente al modo con cui si elabora la conoscenza: da dove e in quali circostanze si parla, si pensa, si scrive. Ci sono due opzioni. O quelli in basso sono un pretesto perché altri facciano politica o elaborino tesi, oppure entrambe si sviluppano in minga, lavoro comunitario, con quelli in basso. “Non vogliamo continuare ad essere le vostre scale”, gridano gli aymara boliviani ai politici dell’alto; a quelli di destra, a quelli di sinistra e adesso anche ai politici “plurinazionali”, l’ultima fauna nata per parassitare i movimenti.
La maggiore ambizione che possiamo avere come militanti, pensatori, scrittori, quel che sia… è smettere di essere quello che siamo. Che gli altri ci superino, ci sorpassino, che diventando pensatori collettivi, scrittori collettivi, militanti che comandano obbedendo, “annullino il terreno della loro realizzazione”, come dice la lettera a don Luís Villoro. Quale gioia più grande di un pensiero che lanciato al vento arrivi a rappresentare i collettivi più disparati, i quali lo amplificherebbero, arricchirebbero e modificherebbero fino a far diventare irriconoscibile la sua origine, diventando così patrimonio di tutti e tutte!
Lascio alcune idee disordinate, scritte al calore della rabbia che provoca l’impotenza di constatare come la ribellione dei popoli cerca di essere negoziata sul mercato degli interessi geopolitici.
Salute agli indigeni del Chiapas che ci insegnano che la paura può essere vinta collettivamente.

Raúl Zibechi
Montevideo, marzo 2011.

(traduzione a cura di rebeldefc@autistici.orghttp://www.caferebeldefc.org/)

.pdf dell’intervento di Zibechi in castigliano qui: http://revistarebeldia.org/revistas/numero77/09zibechi.pdf

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La Jornada – Domenica 27 Febbraio 2011

Sono nel carcere di El Amate, accusati di sommossa, i tre attivisti catturati in Chiapas il 22 scorso

Svolgevano azione di osservazione per possibili violazioni dei diritti umani

Gli avvocati denunciano l’uso fazioso del sistema giudiziario a scopo di intimidazione

HERMANN BELLINGHAUSEN

I tre giovani avvocati, difensori dei diritti umani, fermati a Pijijiapan (Chiapas) lo scorso 22 febbraio, sono stati rinchiusi nel carcere di El Amate, a Cintalapa. José María Martínez Cruz ed Eduardo Alonso Martínez Silva, del Centro dei Diritti Umani Digna Ochoa, così come Nataniel Hernández Núñez, direttore dello stesso, con sede nella città di Tonalá, sono accusati del reato di sommossa.

Il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de Las Casas (CDHFBC) ha espresso la sua preoccupazione per questi arresti, eseguiti mentre gli avvocati realizzavano “attività di osservazione e documentazione di possibili violazioni dei diritti umani da parte delle autorità statali mentre si svolgeva un blocco stradale sulla strada Tonalá-Pijijiapan, nel punto conosciuto come La Pilita”. Inizialmente, la polizia federale e statale aveva fermato mezzo centinaio di manifestanti.

Al blocco, organizzato dal Consiglio Autonomo Regionale della Zona Costa del Chiapas, partecipavano diverse comunità dei municipi di Mapastepec, Tonalá e Pijijiapan, nel contesto delle azioni di protesta di molte organizzazioni civili, comunità indigene e contadine per chiedere la liberazione di 10 ejidatarios tzeltales, aderenti all’Altra Campagna di San Sebastián Bachajón, municipio di Chilón, arrestati all’inizio di febbraio ed attualmente carcerati nella prigione di Playas de Catazajá.

Gli avvocati del Centro Digna Ochoa rinchiusi nel carcere di El Amate, municipio di Cintalapa, sono stati messi a disposizione del tribunale penale con procedimento 34/201. Il giudice ha ritirato le accuse di attentato contro la pace e l’integrità corporale e patrimoniale della collettività dello stato, e mantenuto solo il presunto reato di sommossa.

Il Centro Digna Ochoa da parte sua denuncia che l’arresto dei suoi compagni significa che “continua la criminalizzazione dei difensori dei diritti umani da parte del governo del Chiapas”.

La relatrice speciale sulla Situazione dei Difensori dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha dichiarato che i governi si servono dal sistema giudiziario come strumento di ostilità e punizione contro i difensori dei diritti umani. Secondo loro, la difesa dei diritti umani è un atto criminale, e “normalmente accusano i difensori dei diritti umani di reati contro la sicurezza dello Stato”.

Di conseguenza, il CDHFBC teme l’utilizzo di azioni legali contro i difensori “con l’obiettivo di vessarli giuridicamente e screditare il loro lavoro”. Pertanto, esige dal governo del Chiapas “che rispetti il suo obbligo di mettere fine a tutte le aggressione ed ostruzione al lavoro degli avvocati”.

Ricordiamo che a giugno del 2010, Nataniel Hernández Núñez era già stato oggetto di persecuzione giudiziaria, accusato di “attacco alle vie generali di comunicazione”, in relazione con altre proteste sulla costa chiapaneca. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/27/index.php?section=politica&article=017n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Venerdì 25 febbraio 2011

Arrestati membri del CARZCC e del Centro Digna Ochoa

Terza offensiva ufficiale contro L’Altra Campagna in Chiapas

HERMANN BELLINGHAUSEN

Con una nuova operazione repressiva iniziata martedì scorso in Chiapas contro aderenti dell’Altra Campagna, oggi si troverebbero in carcere 16 membri del Consiglio Autonomo Regionale della Zona Costa del Chiapas (CARZCC). Tra gli arrestati ci sono tre avvocati del Centro dei Diritti Umani Digna Ochoa, contadini e pescatori di almeno cinque comunità, appartenenti al Consiglio Autonomo Regionale. Dopo le sei del pomeriggio 13 di loro sono stati rilasciati, restano in prigione i giovani avvocati Nataniel Hernández, José María Martínez Cruz ed Eduardo Alonso Martínez Silva. che sarebbero stati trasferiti nel carcere di El Amate o in un domicilio coatto di Tuxtla Gutiérrez.

È la terza aggressione diretta contro L’Altra Campagna dall’inizio di febbraio, dopo il violento sgombero degli ejidatarios di San Sebastián Bachajón, all’entrata delle Cascate di Agua Azul (10 sono ancora in carcere con gravi accuse non provate) e l’attacco dell’Ejército de Dios a Mitzitón, con un saldo di due feriti gravi. Ora, sulla costa dello stato; lì, il CARZCC sta sostenendo una forte resistenza regionale contro gli abusi governativi.

Nel pomeriggio di oggi, il Consiglio Regionale ha sfilato nella città di Tonalá fino alla Procura di Distretto Istmo-Costa, per chiedere la liberazione degli arrestati. La manifestazione è proseguita in serata fino a bloccare per breve tempo la Panamericana.

Come riferisce lo stesso consiglio, lo scorso 22 febbraio “è stata bloccata la strada internazionale nel municipio di Pijijiapan, all’altezza di Las Pilitas, da un gruppo di 300 compagni del CARZCC che manifestavano contro le aggressioni, gli sgomberi e gli arresti avvenuti nella loro regione ed in solidarietà con i compagni di San Sebastián Bachajón e Mitzitón, con i quali condividono un sentimento di fratellanza”.

Quel giorno, verso le 16, “il blocco è stato rimosso perché a Tonalá si stava insediando un tavolo di dialogo con i rappresentanti del governo”.

Un’ora più tardi, mentre i delegati al dialogo tornavano nelle rispettive comunità, “avvenivano gli arresti da parte della PF aiutata dall’AFI, che durante il blocco, con l’aiuto di un elicottero della presunta Protezione Civile, aveva individuato i suoi obiettivi”.

Il consiglio riferisce che i fermi “sono stati indiscriminati ed hanno coinvolto perfino donne e minori, che più tardi sono stati fatti scendere dai camion a suon di spintoni e insulti”. Davanti a questi fatti, il direttore del Centro Digna Ochoa, Nataniel Hernández, insieme a Martínez Cruz e Martínez Silva, si sono presentati al blocco, “per scoprire che quelli del CARZCC erano stati circondati, impedendo loro di tornare a casa”. In quel momento gli agenti di polizia hanno fermato oltre 50 persone trasferendole su otto camion alla Procura Regionale Istmo Costa di Tonalá. Anche se durante il tragitto “lasciavano andare donne e bambini”, alla stazione di polizia sono arrivati anche due minorenni.

Ai fermati, coloni di La Central, Joaquín Amaro, El Carmen, Mapastepec e Tonalá, non sono state rispettate le garanzie legali ed il diritto di difesa, prosegue il CARZCC, “cosa che ha dato origine ad un presidio” per chiedere la loro liberazione. Diciannove di loro sono stati portati al comando di polizia, e 16 sono rimasti in custodia. Dopo ore “di attesa e mancanza di informazioni” si è saputo che gli avvocati dei diritti umani, che non sono stati rilasciati, sono stati accusati di: attacco alle vie di comunicazione, ammutinamento e cospirazione.

Si vogliono criminalizzare i difensori del centro Digna Ochoa come “massimi rappresentanti del movimento”, quando la loro funzione, segnala il consiglio, “è stato proteggere le garanzie delle comunità nel corretto esercizio delle loro funzioni, che dovrebbe essere la regola visti i tempi che corrono, poiché il governo utilizza la vecchia politica di ‘si el mensajero es malo, muerte al mensajero’” .

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada- Venerdì 18 febbraio 2011

Le donne del Chiapas sostengono gli indigeni arrestati dell’ejido di San Sebastián Bachajón

Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de las Casas, Chis., 17 febbraio. Collettivi di donne indigene organizzate della zona nord dello stato, comprese le appartenenti agli ejidos San Sebastián e San Jerónimo Bachajón, hanno manifestato il loro appoggio ai 10 arrestati di  San Sebastián Bachajón accusati di crimini che assicurano non aver mai commesso, ed hanno rivolto un eloquente messaggio al governo statale per chiedere la loro immediata liberazione.

“Non vogliamo centri turistici sulle nostre terre”, dicono. “Non vogliamo la privatizzazione della terra e delle risorse naturali, né minacce e repressione nelle nostre comunità. Non vogliamo divisioni e scontri per colpa vostra, e neanche la vostra compassione, ma il vostro rispetto. Non potete cacciarci dalle nostre terre, le coltiviamo e le difenderemo perché ci danno da mangiare e da vivere”.

Appartenenti ai collettivi Las Gaviotas, Las Golondrinas, Las Palomas, Las Colibrí, Mujeres de Johosil, ed all’Altra Campagna e donne comuni, le donne tzeltales e choles hanno dichiarato: “Sappiamo degli incidenti del 2 febbraio tra gruppi dell’Altra Campagna e del PRI (e PVEM) per la presa del botteghino per l’ingresso alle cascate di Agua Azul, e del morto, dei molti feriti e 117 fermati, dei quali 10 ora sono in carcere nella prigione di Playas de Catazaja”.

Respingono “la grave repressione contro i nostri compagni e compagne dell’Altra Campagna, e sappiamo che l’obiettivo del governo è comprare tutti e tutte, dividerci e impadronirsi delle nostre terre, ma non lo permetteremo”.

Avvertono il governo del Chiapas che continueranno ad organizzarsi “come donne nella difesa della nostra terra e della nostra dignità”. E gli dicono: “Deve capire che noi viviamo di quello che coltiviamo e la terra è la radice di una vita degna per noi e le nostre famiglie. Vogliamo una proprietà familiare e che le autorità siano del popolo, che rispettino quello che decide il popolo e la sua maniera di organizzarsi”.

In riferimento ai problemi legati alla situazione attuale, che hanno causato la repressione contro gli ejidatarios di San Sebastián perché si oppongono ai progetti di sviluppo turistico e riconversione produttiva, le donne organizzate dicono: “Non vogliamo più l’alcolismo nella nostra comunità, perché genera violenza verso le donne; non vogliamo che il governo dia il permesso di vendere alcool nelle comunità. Esigiamo rispetto e giustizia per i nostri popoli indigeni. Che la smetta di farci firmare accordi per la privatizzazione della terra. Sappiamo che abbiamo dei diritti e li difenderemo. Che smetta di dividerci. Sappiamo che i progetti e i programmi di governo servono per dividere le nostre comunità, affinché tra noi, uomini e donne indigene ci scontriamo”.

La Jornada ha potuto osservare un’alta incidenza di alcolismo e tossicodipendenza nel centro Alan Sacum, uno dei villaggi di San Sebastián Bachajón, dove il gruppo filogovernativo tiene le famiglie sotto la paura, e nei giorni scorsi ha obbligato molte di esse a firmare i verbali che hanno permesso al governo di ottenere un “accordo” sul botteghino di ingresso alle cascate di Agua Azul, cosa che contravviene la volontà degli ejidatarios aderenti all’Altra Campagna.

I collettivi chiedono il rispetto per le loro forme di organizzazione e decisione: “Non vogliamo che la Procura Agraria ci imponga le autorità nell’ejido. Vogliamo un commissario che rispetti la lotta per la difesa della nostra terra, perché anche i compagni dell’Altra Campagna stanno lottando per difenderla dalla privatizzazione”.

Chiedono che si garantisca il rispetto del diritto delle donne alla terra: “Che si ascolti la nostra parola nelle assemblee, perché la terra è anche nostra: l’abbiamo ereditata dai nostri nonni e nonne ed abbiamo il diritto anche di decidere riguardo ad essa, perché la coltiviamo. Che si fermi la repressione, le vessazioni e la violenza verso uomini e donne, non vogliamo più la presenza di militari e poliziotti nelle nostre comunità. Vogliamo dire al governo che come donne siamo organizzate, siamo forti e non saranno né le minacce né i progetti a fermarla”.

Hanno manifestato per la liberazione dei prigionieri di San Sebastián anche altre organizzazioni comunitarie, quali Pueblos Unidos por la Defensa de la Energía Eléctrica a Tila ed il Consejo Regional Autónomo de la Región Costa, tra gli altri. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/18/index.php?section=politica&article=024n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Giovedì 17 Febbraio 2011

I genitori Jyri Jaakkola chiedono di far luce sulla sua morte e chiedono al Parlamento Europeo di vigilare

Víctor Ballinas

I genitori di Jyri Jaakkola, attivista finlandese ucciso il 27 aprile 2010 insieme all’attivista per i diritti umani Bety Cariño, quando il convoglio umanitario su cui viaggiavano è stato sulla strada per San Juan Copala, Oaxaca, hanno riferito che funzionari della Procura Generale della Repubblica (PGR) e della segreteria degli Interni e degli Esteri “si sono impegnati a completare l’indagine sull’omicidio a breve termine”.

David Peña, avvocato che si occupa di questi crimini, e il direttore di Amnesty International in Messico, Alberto Herrera, hanno espresso la speranza che l’inchiesta si concluda prima del primo anniversario della morte di Jyry e Bety Cariño, ed hanno chiesto che “questi due omicidi non restino impuniti”.

I genitori del giovane finlandese assassinato nel 2010, hanno detto in una conferenza stampa: “Martedì abbiamo incontrato i funzionari degli Affari Esteri, PGR e di governo, e siamo stati accompagnati dall’avvocato David Peña, da funzionari dell’Ambasciata di Finlandia e dell’Unione europea in Messico per conoscere lo stato delle indagini, ed abbiamo chiesto protezione per i testimoni degli omicidi e per i sopravvissuti all’agguato, perché è cruciale che vengano protetti”.

Eeve e Raimo Jaakkola hanno dichiarato che “chiederanno al Parlamento Europeo di inviare in Messico una missione di ispezione per dare continuità al caso. Ci troviamo in Messico per aggiornare il caso e presentarlo al Parlamento”.

Peña ha ricordato che “dai primi giorni dell’omicidio di Jyri e Bety Cariño, la procura di Oaxaca ha rinunciato alla facoltà di investigare mandado il caso alla PGR. Dai primi giorni di maggio del 2010 dei testimoni hanno dato forza alle indagini, ma vediamo che ci sono problemi di incapacità di indagare da parte della PGR”. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/17/index.php?section=politica&article=021n2pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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Scambio epistolare su Etica e Politica

La guerra, la politica e l’etica

Riflessioni su una lettera

Carlos Antonio Aguirre Rojas

Febbraio 2011:

Don Carlos: Saluti. Le allego la prima lettera di uno scambio epistolare su Etica e Politica. Vogliamo invitarla ad unirsi e a portare il suo contributo su questo tema. Un abbraccio. SupMarcos.

(Ringrazio il SCI Marcos dell’invito a partecipare a questo scambio epistolare su un tema vitale come quello che tratta nella sua bella lettera a don Luis Villoro)

“E si tratta proprio di questo, che la parola vada e venga (…) e non importa se qualcuno la raccoglie e la rilancia (è per questo che sono fatte le parole e le idee)”.

(SUBCOMANDANTE INSURGENTE MARCOS, APPUNTI SULLE GUERRE, FEBBRAIO 2011)

Il contesto di uno scambio epistolare

Il testo del Subcomandante Insurgente Marcos intitolato “Appunti sulle guerre”, pensato per dare inizio ad uno scambio epistolare con Luis Villoro, ha l’esplicita pretesa di suscitare una riflessione più approfondita che ci aiuti a capire “quello che accade in Messico e nel mondo”. E lo fa, in particolare, dal singolare osservatorio dei vincoli che si stabiliscono tra la politica e l’etica, tra l’etica e la politica e, quindi, dal punto di vista di come viviamo oggi e di come assumiamo entrambe le dimensioni della realtà e anche di come da lì si generano le resistenze sociali in generale e la resistenza neozapatista in particolare.

Quindi, per dare la giusta la rilevanza a questo testo, è importante ricordare brevemente la storia che lo precede immediatamente, e da lì le circostanze in cui ora si presenta. Perché dopo il rapido ed enorme successo che ebbe l’iniziativa dell’Altra Campagna, durante il 2006 e il 2007, e come risposta all’imponente costruzione di una vasta Rete Nazionale di molteplici ribellioni che si articolarono nell’Altra Campagna, il governo di Felipe Calderón non trovò altra via d’uscita che quella di moltiplicare e aumentare in maniera considerevole l’attacco e l’aggressione alla basi d’appoggio e alle comunità indigene neozapatiste dello stato di Chiapas, perseguitandole allo stesso tempo attraverso diversi partiti politici (tra questi il PRD di Chiapas), l’azione contro-insurrezionale e ipocrita del governo statale chiapaneco, l’aumento delle truppe e delle attività militari dell’esercito federale, l’azione ogni volta più aperta e provocatoria dei gruppi paramilitari come la OPDDIC e altri simili.

Così, nel dicembre 2007, i compagni neozapatisti decisero di ritirarsi nei propri territori, per riorganizzare le basi d’appoggio e tutte le comunità neozapatiste, in maniera che fossero pronte a far fronte e rispondere, nel caso fosse necessario, a questa nuova e criminale offensiva del governo.

Con ciò, il processo già avviato della discussione e costruzione, dal basso e a sinistra, del Programma Nazionale di Lotta, che dovrà nascere dalle discussioni delle centinaia e migliaia di movimenti, collettivi, gruppi e individui che formano l’Altra Campagna, in quel momento è rimasto semi-posticipato e semi-sospeso, e si è aperto un tempo di attesa, interrotto solo per il Primer Festival de la Digna Rabia nel gennaio 2009 e durato tre anni che, speriamo, finisca ora con questa lettera e con questo sforzo di riflessione su ciò che oggi avviene nel nostro paese e in tutto il mondo.

E sebbene durante questi tre anni l’Altra Campagna abbia proseguito il suo paziente lavoro continuando a sviluppare molteplici lotte locali e regionali e continuando a tessere e alimentare quella diversa e multicolore Rete Nazionale Anticapitalista dei movimenti e delle organizzazioni che lottano in basso e a sinistra, al contrario, il lavoro sulla costruzione del Programma Nazionale di Lotta è diminuito considerevolmente o, in alcuni casi, è stato addirittura sospeso del tutto.

Perciò, è significativo che questo scambio epistolare, pensato per riflettere sulla situazione presente del Messico e del mondo, ruoti attorno alla relazione tra etica e politica. Perché, a nostro avviso, è da questa relazione che può trarre adeguatamente fondamento l’attività dell’Altra Politica rivendicata e sostenuta dall’Altra Campagna, Altra Politica che, riprendendo la costruzione del Programma Nazionale di Lotta e la riarticolazione del movimento nazionale anticapitalista dell’Altra Campagna, ricomincerà speriamo molto presto, con nuova forza ed energia, il processo interrotto poco più di tre anni fa. Per questo, crediamo, è importante pronunciarsi su questa lettera recente scritta dal Subcomandante Insurgente Marcos.

Guerra e politica nel secolo XXI

“E a questo punto, invertendo la proposizione di Clausewitz diremmo che la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi”.

(MICHEL FOUCAULT, PRIMA LEZIONE DEL CORSO AL COLLÈGE DE FRANCE, GENNAIO 1976)

Leggendo le riflessioni contenute nel testo “Appunti sulle guerre”, viene subito alla mente la tesi che postulò Michel Foucault invertendo la classica frase di Karl Clausewitz, nel libro Della Guerra, per affermare che “la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi”. Perché se alla base di tutte le società capitaliste contemporanee – per limitarci solamente ad un unico esempio – vi è una chiara e cruda guerra tra le classi principali opposte di questa società, allora una delle funzioni centrali della politica capitalista sarà precisamente quella di prolungare, occultandola e attenuandola, questa guerra costituente tra sfruttatori e sfruttati, tra oppressi ed oppressori, tra classi e gruppi egemonici e gruppi e settori subalterni di questa stessa società capitalista.

Per questo Foucault afferma che la politica è una sorta di “guerra silenziosa”, o in forma moderata, presentabile e più o meno sopportabile, della suddetta guerra o lotta di classe costituente e originaria. Tesi provocatoria e suggestiva dell’autore de Le parole e le cose, che a nostro avviso è facilmente compatibile con la concezione di Marx sulla centralità strutturale e sul carattere costituente della lotta di classe nell’epoca capitalista, e che nemmeno si allontana troppo dalla tesi sostenuta da Walter Benjamin, quando nel testo Sul concetto di storia afferma che “la tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato d’eccezione’ in cui viviamo oggi è in realtà la regola”.

Allora, se la politica capitalista è stata, per cinque secoli, questo avatar mistificatore e addolcito della guerra reale, dobbiamo chiederci perché e in quali condizioni questa politica è tornata a vestire, in tempi recenti, la sua forma originaria di guerra aperta e spietata. E la risposta a queste domande, dal nostro punto di vista, risiede in un doppio processo che, a partire dalla congiuntura iniziata con il doppio crack del 1968 e del 1973 e arrivata fino al giorno d’oggi, vive l’umanità tutta e l’intero sistema mondiale capitalista, doppio processo della crisi terminale del capitalismo mondiale, ma anche e oltre ciò, tra altri processi fondamentali sottostanti questa crisi terminale, il processo della morte stessa dell’attività umana della politica.

Così, come Marx sostiene in Miseria della filosofia, con la fine del capitalismo termina anche li lungo ciclo della storia delle società divise in classi sociali, e con esso termina anche la lotta di classe stessa come principio strutturale e organizzatore delle società umane. Ma concludendosi la lotta di classe, e scomparendo con essa le classi sociali stesse, scompaiono anche lo Stato e i partiti politici e allo stesso modo le classi politiche di qualsiasi sorta, insieme alla super struttura politica nel suo complesso. Con ciò, il “politico” si estingue per sempre, per essere di nuovo riassorbito dal sociale, sfera da cui derivò in maniera parassitaria 2 mila e 500 anni fa, e da cui finì per separarsi poco a poco.

Entrando così in questa tappa della crisi terminale del capitalismo, entriamo simultaneamente nella tappa della crisi, anch’essa ultima e definiva, della politica in quanto forma di espressione deformata e parassitaria della peculiarità del sociale, e in quanto attività umana in generale. E naturalmente, se assumiamo che il capitalismo è entrato nella sua fase terminale, ciò non significa che collasserà da solo, né che dobbiamo sederci ad aspettare il passaggio del suo cadavere, ma semmai che il nostro impegno di lotta raddoppia e diventa più complesso, poiché adesso non solo dobbiamo lottare per distruggere e seppellire il capitalismo che ancora subiamo a livello mondiale, ma anche lottare per cominciare a generare, qui ed ora, le premesse dei nuovi mondi e delle nuove relazioni sociali con cui dovremo sostituire il capitalismo di oggi in crisi.

Per ciò, questa doppia crisi terminale del capitalismo come sistema storico e della politica come forma classista separata di espressione dello stesso potere sociale, è forse quella che spiega il perché, in tempi più recenti, la politica cominci a degradarsi e perdere pezzi da tutte le parti, oscillando, a seconda delle circostanze storico-concrete di ogni paese, tra la forma cruda e spietata della guerra diretta tra classi e gruppi sociali, e la sua antica forma, sempre meno credibile e sempre più instabile, di guerra silenziosa, attenuata e fino ad un certo punto persino tollerabile e presentabile. Oscillando cioè, rapidamente e instabilmente, dalla politica cruda e guerrafondaia di Bush fino alle guerre ipocrite di Hillary Clinton e Barack Obama, o dal bellicismo ridicolo di Silvio Berlusconi o José María Aznar al bellicismo vergognoso e moderato di Romano Prodi o di José Luis Zapatero.

Oscillazione costante e caotica che nel caso del Messico diventa oltretutto singolare, da un lato per la frode gigantesca del 2006 e per la simultanea illegittimità assoluta di Felipe Calderón, e dall’altro il crescente fermento sociale di contestazione e ribellione delle classi subalterne messicane, quelle che lentamente ma costantemente hanno maturato una situazione che oggi è solo paragonabile alla vigilia del 1810 e del 1910, cioè, a una situazione di un vicino e imminente scoppio sociale di enormi proporzioni.

Così, l’attuale guerra di Felipe Calderón in realtà sono due guerre simultanee, o forse una sola, ma estesa su due fronti molto diversi tra loro. Il primo è quello della guerra contro il popolo messicano, popolo degno e ribelle, organizzato oggi nel movimento pacifico nazionale anticapitalista dell’Altra Campagna, e che si prepara con cura e attenzione all’imminente arrivo dell’anno 2010 storico, non cronologico. Anno 2010 storico in cui l’orologio messicano dovrà mettersi al passo con l’attuale orologio latinoamericano, dove i movimenti sociali degli ultimi anni pacificamente rovesciano presidenti e governi illegittimi e antipopolari, oggi ancora per dar spazio ai tiepidi governi socialdemocratici di Lula, Hugo Chávez, Evo Morales o Rafael Correa, ma molto presto, domani, per instaurare nuovi governi che realmente “comandino obbedendo” a partire dalla logica del vero autogoverno popolare.

Primo fronte della guerra di Calderón, contro tutte le classi sociali e i gruppi subalterni del Messico, che spiega il perché dell’estesa criminalizzazione della protesta sociale e la sistematica politica di diffusione della paura tra la popolazione in generale con lo scopo di inibire il crescente malcontento e l’organizzazione ogni volta maggiore dei popoli del Messico, così come si è reso evidente nelle recenti esperienze di Atenco e della APPO in Oaxaca, e in Chiapas dal 1994, ma anche dei nuovi Chiapas, Oaxaca e Atenco che proprio ora nascono in tutta la geografia messicana e che molto presto dovranno certamente irrompere sulla scena nazionale.

Però, un secondo fronte della guerra attuale di Felipe Calderón, o forse una seconda guerra, è quella che scatena verso altri settori delle classi dominanti, in un contesto dove il dominio di classe stesso comincia a sgretolarsi, arrivando così alla situazione prevista da Lenin in cui “quelli in basso non vogliono più vivere alla vecchia maniera e quelli in alto non possono più conservare e riprodurre quella maniera vecchia di dominio”. Contesto di crisi profonda dei meccanismi di potere sulle classi subalterne, nel quale, inoltre, i diversi settori o frazioni di questa classe dominante messicana si giocano apertamente il controllo dell’affare oggi più redditizio in Messico, e anche in molte altre parti del mondo, che è il business del traffico illegale di droga, nel nostro caso, dal Sudamerica verso gli Stai Uniti e l’Europa.

Poiché dietro il reale bagno di sangue in cui Calderón ha sprofondato tutto il Messico, ciò che si distende è anche la lotta per la costruzione di un possibile monopolio unico e centralizzato, come ogni monopolio, per l’espansione del traffico illegale di droga. E se nel Medio Evo, come ha ben spiegato Norbert Elías, i prìncipi lottavano tra loro all’interno di un cruento e radicale processo di selezione e affermazione del più forte su tutti, diventato poi Re, e che dal suo principato costruì l’allora emergente nuova nazione, subordinando e annettendo tutti i prìncipi e principati vicini, così, oggi i cartelli messicani della droga si combattono per provare a definire chi tra essi potrà essere all’altezza, eventualmente e nell’ipotetico caso che questa lotta possa realmente condurre a ciò, di quel monopolio esclusivo dei circuiti commerciali del narcotraffico che attraversano i territori e le acque del nostro paese.

Lotta o concorrenza “intercapitalista” tra i distinti cartelli messicani, che non si sviluppa solo a livello sociale, pratico e militare, ma anche dallo Stato, nello Stato e attraverso lo Stato dei distinti livelli, corporazioni, gruppi e sfere dell’intero apparato statale messicano. Lotta estremamente violenta, sanguinosa e spietata, vera guerra senza quartiere, secondo fronte della guerra di Felipe Calderón in terra messicana.

E se la politica attuale si trova nella sua crisi terminale, oscillando dalla forma “moderata” e “presentabile” alla forma cruda e spietata della guerra aperta e diretta, questa crisi si esprime allora a tutti i livelli e in tutti i settori che compongono la politica contemporanea permettendoci di comprendere fenomeni mondiali, presenti anche in Messico, come quelli dei governi delegittimati e totalmente separati dalle proprie popolazioni, cosa che oggi si dimostra in maniera clamorosa in tutto il mondo arabo, ma anche e sempre più in Europa e da tempo in America Latina, ecc. E questo avviene insieme allo sviluppo di quello che Immanuel Wallerstein ha chiamato un chiaro “antistatalismo diffuso”, il quale fa in modo che l’insieme delle popolazioni del pianeta non abbiano più fiducia nei rispettivi Stati e nella loro attività anomala, così come nella possibilità di ottenere da essi nuove conquiste o istanze. E tutto questo, al di là dei governi, delegittima la stessa istituzione statale in tutto il mondo.

Però, allo stesso modo e oltre questa crisi dei governi, e ad un secondo livello anche degli Stati, vi sono un disfacimento e un degrado generalizzati di tutte le classi politiche del mondo intero, cosa che in Messico diventa evidente con la vergognosa controriforma indigena del 2001 e che, ad esempio, in Argentina diede vita all’emblematico grido “Andatevene via tutti”, indirizzato precisamente a tutto l’insieme della classe politica argentina. Alla fine, e oltre la crisi di questi tre livelli, si consuma anche la crisi del potere politico stesso e, soprattutto, la messa in discussione radicale della separazione tra potere sociale e potere politico, messa in discussione che avanza per vie molteplici, e che in termini positivi ha prodotto l’inizio della rottura e del superamento di questa separazione, ad esempio, tra i tanti casi, nelle recenti esperienze delle Giunte di Buon Governo neozapatiste, negli Insediamenti dei Sem Terra e anche nei quartieri piqueteros genuinamente autonomi dell’Argentina.

Con ciò, e partendo da questa molteplice crisi dei quattro livelli della politica e del politico, si può comprendere il fatto, segnalato a suo tempo da Gramsci, che nelle condizioni attuali, l’egemonia politica delle classi dominanti traballa e il suo baricentro oscilla, in generale, dalla ricerca soprattutto del consenso all’esercizio, invece, del crudo e brutale dominio oggi.

In questo modo, tutte le classi politiche del pianeta, muovendosi verso una situazione ogni volta più vicina a quella di un “dominio senza egemonia”, come il celebre titolo del libro di Ranajit Guha, fanno in modo che anche il consenso e la fabbrica del consenso si trasformino radicalmente, diventando più fragili, più effimeri, più strumentali e molto più funzionali. Per questo, la filosofia e l’ideologia possono oggi essere sostituite dal lavoro dei mezzi di comunicazione di massa, che non hanno più il compito di creare, come era prima, consensi stabili, più o meno duraturi, validi per periodi di dieci, venti, trenta o cinquanta anni, ma semmai oggi devono solo fabbricare consensi veloci ed effimeri e addirittura, a volte, si accontentano di fabbricare il consenso passivo e momentaneo ma sufficiente delle grandi maggioranze, così che lascino passare senza gran protesta questo o quel torto, questo o quell’errore delle classi dominanti.

Si tratta allora della creazione di un “consenso” effimero o puramente funzionale, valido esclusivamente per una sola azione o, forse, per una breve congiuntura di mesi o pochi anni, come dimostrano a livello mondiale la giustificazione dell’invasione dell’Iraq o, più recentemente, la gestione della crisi di fine 2008, che vogliono farci credere essere terminata, quando appena si trova al suo vero inizio. Ma anche in Messico, come dimostrano le campagne elettorali di turno o le repressioni ad Atenco e Oaxaca nel 2006 o, attualmente, il vergognoso e spudorato favoreggiamento e occultamento della guerra ad alta intensità, del governo di Chiapas e del governo federale, contro le degne comunità indigene neozapatiste.

I limiti della guerra: la resistenza e l’etica

“Il guerriero deve esistere per il bene dell’umanità, per questo vive, per questo muore”.

(ELÍAS CONTRERAS, L’ETICA DEL GUERRIERO, 2006 CIRCA)

La guerra è senza dubbio un affare florido per i fabbricanti di armi, cioè, per il complesso industriale-militare degli Stati Uniti e anche di Inghilterra, Francia, ecc. Anche la distruzione di un paese è un buon affare per quelli che vogliono impossessarsi di quel territorio e riordinarlo a piacimento e secondo i propri interessi.

Tuttavia, al di là di questo complesso industriale-militare, la guerra non è un così buon affare per l’industria multinazionale non militare. Per questo A George Bush succede, circondato da false illusioni, Barack Obama, mentre Tony Blair viene rimpiazzato, senza illusione alcuna, da Gordon Brown. Perché il limite ultimo delle guerre, a rigor di logica capitalista, si attiva nel momento in cui le perdite cominciano a superare i profitti. E allora, quando le “sacche nere” dei propri cadaveri oltrepassano la soglia di ciò è che ancora tollerabile per la maggioranza della popolazione dello stesso stato aggressore, la guerra per il controllo di una nazione diventa difficile.

O anche quando la lotta intercapitalista per il controllo del monopolio di un affare succulento, ad esempio il traffico illegale di droga, comincia a paventare il possibile risultato del totale annientamento di tutte le parti in lotta.

Così come, quando la guerra della classe dominante contro le classi oppresse rischia di spezzare ogni equilibrio possibile e scatenare senza freno la risposta radicale e organizzata delle “moltitudini plebee”.

E anche se è ancora vero che il penultimo capitalista venderebbe la fune per impiccare l’ultimo capitalista, è anche chiaro che oggi, in Messico, un settore sempre più grande della stessa classe dominante, degli imprenditori e dei ricchi messicani, è già stanco della guerra di Felipe Calderón e considera assurda la sua strategia sanguinosa nell’affrontare le dispute intercapitaliste e interclassiste di quella stessa classe dominante nazionale, e anche la sua guerra di criminalizzazione assoluta di qualsiasi forma di protesta sociale.

D’altra parte, il limite della guerra permanente di classe e dei torti, velati o espliciti, della classe dominante verso le classi subalterne è sempre stato e continua ad esserlo oggi quello della resistenza popolare. Resistenza delle classi subalterne che, in Messico come in America latina e in tutto il mondo, cresce giorno dopo giorno come una sempre più degna rabbia mondiale, sempre più organizzata, nell’Altra Campagna come nei movimenti genuinamente antisistemici dell’America Latina e di tutto il mondo.

Per questo, di fronte alla crisi terminale della politica capitalista attuale e di fronte anche al disfacimento progressivo ed evidente della classe politica stessa in generale, la resistenza popolare contrappone e rivendica un’Altra Politica, una politica molto altra, che in fondo e a nostro avviso, non è altro che una forma storica di transizione verso la completa estinzione e scomparsa di qualsiasi politica possibile, verso la morte della politica, sia sotto forma addolcita e ancora presentabile, sia secondo la modalità guerrafondaia e spietata, e anche verso il completo riassorbimento di questa politica e delle sue funzioni legittime da parte del potere sociale e della sfera stessa del sociale in generale.

Un’Altra Politica che, naturalmente, può esistere solo se si unisce nuovamente con l’etica.

Perché la politica stessa, nel suo lungo corso secolare e millenario, dai tempi dell’antica Grecia fino ad oggi, andò poco a poco adottando un carattere di politica classista, allo stesso tempo che si separava dal sociale e si trasformava in una attività sempre più funzionale, pragmatica e strumentale. E questo processo che separa la politica dalla società divorzia in gran parte anche dai criteri sociali, dai principi etici e dalle cosmovisioni culturali più universali, così da far predominare i criteri di efficienza, i principi pragmatici e le concezioni più pratiche e strumentali.

E questi processi, che si dispiegano in tutta la storia delle società divise in classi sociali, si accentuano enormemente e raggiungono il culmine nella società capitalista. Per questo, la politica capitalista è una politica pragmatica, che pensa sia corretto scegliere tra due mali, optando per il presunto “male minore”, essendo inoltre una politica lontana dalle profondità della storia e della memoria, che vengono degradate e trasformate in semplici strumenti di legittimazione del proprio fare, impoverite a memoria e storia ufficiali, cioè, memoria glorificatrice del potere e storia dei vincitori.

Inoltre, e secondo la stessa logica, pensando che sia vero che il fine giustifica i mezzi, difendendo e affermando che è corretto dire che ciò che non è esplicitamente permesso è permesso, la politica capitalista è una politica lontana dall’etica, dalla morale e dalla vera giustizia. Politica capitalista lontana dal sociale, dalla storia e dall’etica, a cui naturalmente si contrappone l’Altra Politica, quella che rivendica apertamente la propria riconnessione e il vincolo stretto con il sociale, con la memoria e con la storia, e anche con la morale e l’etica.

Ma non con l’etica cristiana né con la morale religiosa, piuttosto con l’etica e con la morale popolari, con quello che lo storico Edward Palmer Thompson chiama precisamente “l’economia morale della moltitudine”. Un’etica popolare che è frutto del sapere popolare decantato nei millenni, sapere che, ad esempio, si manifesta nei discorsi e nelle posizioni del Vecchio Antonio e che riproduce anche i codici principali della cultura popolare, così brillantemente spiegati da Michail Bachtin, codici che stabiliscono quello che dal punto di vista delle classi subalterne è accettabile o non accettabile, ma anche ciò che è corretto e non corretto, quello che è etico e al contrario deve essere condannato eticamente.

Etica popolare la cui bussola più importante è quella del principio, a volte rivendicato da Mao Tse Tung, di “Servire il popolo”. O anche, quello che Elías Contreras teorizza per l’etica del guerriero, cioè “esistere per il bene dell’umanità”. Perché, se come stabilì Engels, l’etica e la morale sono sempre costruzioni storiche specifiche e non principi generali dalla validità atemporale, allora, in queste condizioni specifiche della crisi terminale del capitalismo e dell’attuale morte dell’attività politica, l’etica che deve alimentare L’Altra Politica è necessariamente l’etica di servire il popolo, di cercare la sua definitiva liberazione ed emancipazione, di perseguire il bene dell’umanità intera e di essere disposti per essa a vivere e anche morire.

Etica delle classi subalterne che, sulla stessa linea di servire il popolo e cercare il bene dell’umanità, deve sempre anteporre il “noi” all’”io”, superando l’egoismo possessivo del capitalismo e promuovendo, qui ed ora, la ricostruzione di nuovi vincoli comunitari e di nuove forme di comunità. Cosa che, nei fatti, comincia già a materializzarsi nelle Giunte di Buon Governo neozapatiste, in alcuni quartieri argentini di piqueteros, negli Accampamenti e Insediamenti del movimento brasiliano dei Sem Terra, o in alcune comunità indigene radicali dell’Ecuador o della Bolivia.

Morale ed etica di quelli in basso, che rinuncia alle ricompense materiali, ai benefici personali e individuali, materiali e simbolici, per sostituirli con la semplice “appagamento del dovere compiuto”, in una logica che, ancora una volta, cerca di trascendere, qui ed ora, la logica perversa del capitalismo di avere e possedere, affermando di fronte a essa la logica più profonda e duratura dell’essere. Cosa che allo stesso modo diventa realtà già ora nelle diverse esperienze dei movimenti antisistemici dell’America Latina appena sopracitati.

Etica degli oppressi, che ancora deve essere approfondita e sviluppata ampiamente, e che si esprime molto chiaramente, tanto nei sette principi dell’”Etica del Guerriero” copiati nel suo quaderno da Elías Contreras, come anche nei sette principi del Buon Governo neozapatista. Principi che, in maniera diretta, alimentano e articolano non solo l’Altra Politica neozapatista, ma anche l’importante, degna ed esemplare resistenza di quello stesso neozapatismo messicano che ventisette e diciassette anni dopo, non si arrende né si svende, ma con dignità resiste ancora e ancora combatte.

Città del Messico, 7 di marzo 2001.

(traduzione a cura di rebeldefc@autistici.org – http://www.caferebeldefc.org/)

.pdf dell’intervento di Aguirre Rojas in castigliano qui: http://revistarebeldia.org/revistas/numero77/08aguirre.pdf

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La Jornada – Mercoledì 16 febbraio 2011

Felipe Arizmendi: Porterà altri scontri il mancato riconoscimento degli Accordi di San Andrés

Per gli zapatisti sono vigenti, dice il vescovo a 15 anni dalla loro firma

Elio Henríquez. Corrispondente. San Cristóbal de Las Casas, Chis., 15 febbraio. Gli accordi di San Andrés, firmati 15 anni fa, il 16 di febbraio 1996, non devono restare ” congelati”, ha dichiarato il vescovo Felipe Arizmendi Esquivel, che ha chiesto “a tutte le parti di aprire la loroa mente ed il loro cuore e di mettersi nei panni degli indigeni per riconoscere i diritti che spettano loro”.

In unìintervista collettiva, ha aggiunto che i trattati sono delle linee per avanzare, poiché con gli accordi internazionali che il Messico ha firmato su diritti indigeni, la Costituzione federale “ne risulta un poco azzoppata”.

Arizmendi Esquivel sostiene che conflitti come quello successo nei giorni scorsi per la disputa del botteghino alle Cascate di Agua Azul, tra ejidatarios priisti ed aderenti all’Altra Campagna di San Sebastián Bachajón, municipio di Chilón – che ha provocato un morto, due feriti e 10 arresti – sono conseguenza dell’inadempimento degli accordi firmati dal governo federale e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) il 16 febbraio 1996.

“Per chi non è dell’EZLN, questi accordi non valgono, anche c’è chi li mette in pratica, anche giuridicamente; ma gli zapatisti li considerano validi, e questo crea confronti che possono arrivare allo spargimento di sangue che tutti deploriamo. Per questo conviene che si riprenda il tema”, afferma il gerarca cattolico.

(…)

Ha aggiunto che “non possiamo pensare che oggi siano assunti come si firmarono allora, perché alcune forze politiche non si fidano e pensano che se si approvassero così come sono questo produrrebbe una frattura nazionale, si legittimerebbero alcuni poteri che danneggerebbero la nazione, e quindi che bisogna discuterli, ma i fratelli zapatisti non hanno mai pensato di fondare un altro paese, ma di essere messicani come tutti, ma riconoscendo che gli indigeni hanno diritti molto particolari per la loro storia e cultura, e noi insistiamo affinché si riprendano quegli accordi come base per continuare nei dialoghi”.

Secondo Arizmendi Esquivel, “la cosa peggiore che può succedere è una rottura totale del dialogo, perché sappiamo che in questo caso si attiverebbero i mandati di cattura che furono sospesi durante i negoziati, ed in questo momento, ufficialmente il dialogo non è sospeso, ma in pausa, ma è per questioni puramente giuridiche; i pratica è come se non ci fosse niente”. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/16/index.php?section=politica&article=025n2pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Mercoledì 16 febbraio2011

Frayba: Sono state violate le garanzie legali dei dieci indigeni arrestati pera aver difeso le proprie terre

Molti degli accusati delle violenze a Bachajón non erano neppure sul posto quando sono avvenute

Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de las Casas, Chis., 15 febbraio. Dopo l’arresto formale dei 10 ejidatari che difendevano il loro territorio a San Sebastián Bachajón, il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas (CDHFBC) sostiene che nel procedimento “ci sono state violazioni delle garanzie legali degli arrestati, prigionieri politici perseguiti dal governo di Juan Sabines Guerrero”.

Come documentato dall’organizzazione, Jerónimo Guzmán Méndez, accusato di omicidio aggravato, e Domingo Pérez Álvaro, di tentato omicidio, così come molti degli accusati, “non si trovavano nemmeno sul luogo dei fatti” successi il 2 febbraio alle cascate di Agua Azul, dove ha perso la vita Marcos Moreno García ed è rimasto ferito Tomás Pérez Deara, entrambi del gruppo che aveva preso con le armi il botteghino dell’ejido.

Gli arrestati si dichiarano. Gli altri sono Pedro Hernández López, Miguel López Deara, Domingo García Gómez, Juan Aguilar Guzmán, Pedro López Gómez, Miguel Álvaro Deara, Pedro García Álvaro (con handicap mentale) ed il minorenne Mariano Demeza Silvano, accusati di “attentato contro la pace e l’integrità fisica del patrimonio dello stato e danneggiamenti”.

La Procura Generale di Giustizia dello Stato sostiene che almeno cinque di loro sono risultati positivi al guanto di paraffina, mentre questi negano di aver sparato ed il CDHFBC documenta la “infinità di violazioni processuali e dei diritti umani” compiute dalle autorità.

Rispondendo alla dichiarazione del governo statale che ai detenuti sono stati garantiti i diritti legali, il CDHFBC certifica, tra le altre cose, che l’avvocato d’ufficio Yolanda Álvarez Cruz – che li ha assistiti – è di lingua chol, e l’attuale avvocato, Darío Sánchez Escobar, ignora la lingua di suoi difesi (tzeltal). Inoltre, i testimoni che hanno testimoniato a favore degli arrestati “non sono stati assistiti da interpreti qualificati”, ma da poliziotti municipali in divisa, presentati come interpreti, “cosa che ha intimorito molti”.

Successivamente – aggiunge il CDHFBC – i 10 arrestati “hanno ricevuto pressioni affinché i loro familiari o autorità comunitarie, aderenti all’Altra Campagna, partecipassero ad un ‘tavolo di negoziazione’ promosso dal governatore e dal suo segretario generale di Governo, Noé Castañón León”. Le autorità hanno inscenato questo “tavolo” col piccolo gruppo di filogovernativi dell’ejido di San Sebastián (Chilón) e con i priisti del vicino Agua Azul (Tumbalá). Ad Ocosingo hanno firmato un “patto di civiltà e concertazione per la pace nel Centro Turistico Agua Azul”, escludendo i veri interessati: la maggioranza degli ejidatari di San Sebastián, dove passa la strada su cui sarebbe conteso il pedaggio turistico.

Le dichiarazioni delle persone che accusano i detenuti risultano “non chiare e confuse”. Almeno 25 dei 117 indigeni inizialmente fermati “hanno firmato dichiarazioni senza conoscerne il contenuto, dove (sembra) denunciavano i loro compagni”. Altri affermano che la loro libertà dipendeva dalla firma di quel documento, ed altri ancora, che sono stati minacciati: “Mi hanno detto che se non collaboravo mi avrebbero torturato e infilato la testa in un sacchetto di plastica”.

Gli oltre 100 uomini e donne di San Sebastián rilasciati il 4 febbraio sono stati denunciati e minacciati di venire arrestati “se non desistevano dalla lotta per la difesa del territorio e dalla loro organizzazione sociale e politica attraverso L’Altra Campagna”.

Per il CDHFBC, la cattura e le procedure contro le persone “ingiustamente” arrestate configura “uno scenario di repressione da parte delle autorità del governo dello stato, che priva arbitrariamente della libertà 10 persone per la loro azione politica e sociale a difesa dei propri diritti”.

(…)

Per questo mercoledì, collettivi ed organizzazioni dei diritti umani convocano una giornata di proteste ed azioni su scala nazionale ed internazionale per chiedere la liberazione degli ejidatari dell’Altra Campagna e la fine degli oltraggi nelle loro terre.

Tensione a Mitzitón

A Mitzitón (San Cristóbal) un’altro ejido dove gli indigeni aderenti all’Altra Campagna sono stati aggrediti recentemente da gruppi filogovernativi, il governo assicura che “è tornato l’ordine”. E nelle vicinanze del villaggio c’è una forte presenza di polizia.

I rappresentanti comunitari informano che c’è ancora tensione, perché persone del gruppo evangelico Ejército de Dios minacciano di “sequestrare” le donne per “scambiarle” con i 23 evangelici fermati dalla polizia all’alba di lunedì. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/16/index.php?section=politica&article=025n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Martedì 15 febbraio 2011

EZLN: la guerra di Calderón produrrà migliaia di morti e lauti guadagni economici

Marcos discute su chi beneficerà di questo affare e a quale cifra ammonta

Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de Las Casas, Chis., 14 febbraio. Se la guerra di Felipe Calderón Hinojosa (benché si sia cercato, invano, di addossarla a tutti i messicani) è un commercio (e lo è), manca la risposta alla domanda per chi o quale è l’affare, e a che cifra ammonta, perché non è poco quello che è in gioco, sostiene il subcomandante Marcos in uno scritto sulla guerra del Messico dell’alto, diffuso oggi.

Da questa guerra non solo ne verranno migliaia di morti e lucrosi guadagni economici. Ma anche, e soprattutto, ne verrà una nazione irrimediabilmente distrutta, spopolata, spezzata, avverte il capo militare dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN): La nostra realtà nazionale è invasa dalla guerra, per il resto persa dal governo perché concepita non come la soluzione ad un problema di insicurezza, ma ad un problema di mancanza di legittimità. Questa guerra ora distrugge l’ultima cosa che rimane di una nazione: il tessuto sociale.

L’esperienza bellica non solo non è più lontana per chi era abituato a vederla in geografie o calendari distanti, ma incomincia a governare le decisioni e le indecisioni di chi pensava che i conflitti stavano solo nei notiziari e nei documentari di luoghi lontani come Iraq, Afghanistan o Chiapas.

Scambio epistolare

Marcos sottolinea che la guerra si svolge ora in tutto il Messico. Grazie al patrocinio di Calderón Hinojosa non dobbiamo ricorrere alla geografia del Medio Oriente per riflettere criticamente sulla guerra, dice al filosofo Luis Villoro come parte di uno scambio epistolare in corso su etica e politica: Non è più necessario ripercorrere il calendario fino al Vietnam, Playa Girón, sempre la Palestina. E non cito il Chiapas e la guerra contro le comunità indigene zapatiste, perché si sa che non sono più di moda.

Per questo, aggiunge il capo zapatista, “il governo dello stato del Chiapas ha speso un mucchio di soldi per far sì che i media non lo collochino sull’orizzonte della guerra, ma dei ‘progressi’ nella produzione di biodiesel, nel ‘buon’ trattamento degli emigranti, dei ‘risultati’ in agricoltura ed altre storielle ingannevoli passate a comitati di redazione che firmano come proprie le veline governative povere di forma e contenuti”.

L’irruzione della guerra nella vita quotidiana del Messico attuale non arriva da un’insurrezione, né da movimenti indipendentisti o rivoluzionari. Secondo il subcomandante Marcos, viene, come tutte le guerre di conquista, dal Potere. E questa guerra ha in Felipe Calderón Hinojosa il suo iniziatore e promotore istituzionale (e vergognoso).

Calderón “si è impossessato della titolarità dell’esecutivo federale per le vie di fatto”, ma non si è accontentato del supporto mediatico ed è dovuto ricorrere a qualcosa di più per distrarre l’attenzione ed eludere la massiccia messa in discussione della sua legittimità: la guerra. Questo ha suscitato la sfiducia timorosa degli industriali messicani, l’entusiasta approvazione degli alti comandi militari ed il caloroso plauso di chi realmente comanda: il capitale straniero.

La critica a questa catastrofe nazionale chiamata “guerra contro il crimine organizzato”, riflette Marcos, dovrebbe essere completata da un’analisi approfondita dei suoi sostenitori economici. Non mi riferisco solo al vecchio assioma che in epoche di crisi e di guerra aumenta il consumo superfluo. Nemmeno “agli incentivi che ricevono i militari (in Chiapas, gli alti comandi militari ricevevano, o ricevono, un salario extra del 130% per essere in ‘zona di guerra’)”. Bisognerebbe cercare anche tra le licenze, i fornitori ed i crediti internazionali che non rientrano nella cosiddetta “Iniciativa Mérida”.

Ricorrendo a fonti d’inchieste giornalistiche e cifre ufficiali, il comandante ribelle rileva che nei primi quattro anni della guerra contro il crimine organizzato, gli enti governativi incaricati (Segreteria della Difesa Nazionale, Marina e Pubblica Sicurezza – SSP – e Procura Generale della Repubblica) hanno ricevuto dal Bilancio di Spesa della Federazione una somma superiore a 366 mila milioni di pesos (circa 23 miliardi di Euro al cambio attuale).

Il capo ribelle tira fuori cifre inquietanti: Nel 2010 un soldato semplice federale guadagnava circa 46.380 pesos l’anno (2.852 Euro); un generale di divisione 1 milione 603 mila 80 pesos l’anno (98.575 Euro), ed il Segretario della Difesa Nazionale percepiva redditi per 1.859.712 pesos (114.317 Euro). Con il bilancio bellico totale del 2009 (113 mila milioni di pesos per i 4 enti – 6.948.820.000 Euro) si sarebbero potuti pagare i salari annui di 2 milioni e mezzo di soldati semplici; o di 70.500 generali di divisione; o di 60.700 titolari della Segreteria della Difesa Nazionale.

Ovviamente, non tutto quello che è a bilancio viene speso per stipendi e prestazioni. C’è bisogno di armi, attrezzature, munizioni… perché quelle a disposizione non servono più o sono obsolete, aggiunge nell’analisi. “Lasciamo da parte la domanda ovvia di come è stato possibile che il capo supremo delle forze armate, Felipe Calderón Hinojosa, si lanciasse in una guerra (“di lungo respiro”, dice lui) senza avere le condizioni materiali minime per sostenerla, non diciamo per ‘vincerla’..”

Per il subcomandante zapatista, “il principale promotore di questa guerra è l’impero delle torbide stelle e strisce (a conti fatti, in realtà gli unici complimenti ricevuti da Felipe Calderón Hinojosa sono arrivati dal governo nordamericano)”. Stando così le cose, gli Stati Uniti vinceranno con questa guerra locale? La risposta è sì, sostiene.

Lasciando da parte i guadagni economici e gli investimenti monetari in armi, munizioni e equipaggiamenti, il risultato è la distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino geopolitico che li favorisce.

Marcos lamenta che la guerra (persa dal governo perché concepita non come la soluzione ad un problema di insicurezza, ma ad un problema di mancanza di legittimità), sta distruggendo l’ultima cosa che rimane di una nazione: il tessuto sociale. E questo, per il potere statunitense, è l’obiettivo da raggiungere.

Ritiene che ad ogni passo di questa guerra, per il governo federale è sempre più difficile spiegare dove stia il nemico. E questo non solo perché i mezzi di comunicazione di massa sono stati superati dalle forme di scambio di informazioni della gran parte della popolazione (non solo, ma anche dalle reti sociali e dalla telefonia mobile); ma anche e, soprattutto, perché il tono della propaganda governativa è passata dal tentativo di inganno allo scherzo. Nello stesso tempo, le “rivelazioni di Wikileaks sulle opinioni dell’alto comando statunitense circa le ‘deficienze’ dell’apparato repressivo messicano (la sua inefficienza ed il suo connubio con la criminalità) non sono nuovi”.

Fin dall’origine, questa guerra non ha una fine ed è persa, perché non ci sarà un vincitore messicano (a differenza del governo, il potere straniero ha sì un piano per per ricostruire / riordinare il territorio), e lo sconfitto sarà l’ultimo angolo dello Stato Nazionale agonizzante: le relazioni sociali che, dando identità comune, sono la base di una nazione. In conclusione, l’identità collettiva del Messico sta per essere distrutta e soppiantata da un’altra.

La versione completa di questo passaggio dello scritto Sulle Guerre si trova on-line. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/15/index.php?section=politica&article=017n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Martedì 15 febbraio 2011

Paramilitari sparano contro aderenti a Mitzitón, Chiapas

Elio Henríquez. Corrispondente. Mitzitón, Chis., 14 febbraio. Elementi del cosiddetto Ejército de Dios di questa comunità di San Cristóbal de Las Casas hanno attaccato a colpi d’arma da fuoco aderenti dell’Altra Campagna ferendo l’indigeno Carmen Jiménez Heredia.

Gli ejidatari denunciano che diversi uomini “tra le 22 e le 23 di domenica hanno circondato la casa ejidale, la cappella ed il campo di pallacanestro ed hanno sparato contro gli aderenti riuniti sul posto. Ci hanno sparato per ucciderci; la sparatoria è durata 15 minuti e la polizia che si trovava a pochi metri non ha fatto niente”, ha dichiarato uno dei rappresentanti di Mitzitón che ha chiesto l’anonimato.

Ha raccontato che l’aggressione è avvenuta dopo che i membri dell’Ejército de Dios avevano fermato l’aderente Andrés Heredia Hernández, col pretesto di aver insultato un uomo del gruppo avverso, cosa assolutamente falsa.

Ha detto che dopo essere stato fermato, Heredia Hernández è stato picchiato da alcuni uomini che viaggiavano su quattro veicoli, che l’hanno caricato su uno di questi e l’hanno portato nella prigione della comunità stessa gestita dal gruppo, guidato da Francisco Gómez e suo figlio Gregorio Gómez, alleati del gruppo evangelico Alas de Águila, appartenente all’Ejército de Dios.

Come risposta, ha aggiunto, quelli dell’Altra Campagna hanno fermato Miguel Jiménez González che hanno portato nella casa ejidale. Subito, entrambi i gruppi hanno bloccato la strada Panamericana che passa per Mitzitón, a 20 chilometri da San Cristóbal. Lì, a circa 200 metri di distanza gli uni dagli altri, entrambi i gruppi reclamavano la liberazione dei rispettivi compagni.

Qualche minuto dopo sono arrivati dei funzionari del governo statale per esortarli a liberare i fermati e rimuovere il blocco. Noi abbiamo detto che se loro liberavano Andrés noi avremmo fatto lo stesso con Miguel, e così è stato, ma quando abbiamo visto il nostro compagno malmenato la gente era molto contrariata, ha raccontato il rappresentante di Mitzitón.

Ha raccontato che alle 22 si era deciso di portare al’ospedale di San Cristóbal l’indigeno colpito, affinché fosse visto da un medico, mentre si liberava la strada.

Ha dichiarato che quelli dell’Altra Campagna si trovavano nella cappella e sul campo  in attesa del parere medico, quando siamo stati attaccati dai paramilitari dell’Ejército de Dios, che hanno ferito al petto Carmen Jiménez Heredia, di 23 anni, che è stato portato all’ospedale di San Cristóbal.

Nella cappella si trovavano Pedro Raúl López, membro del Consiglio Statale dei Diritti Umani e Luis Aguilar, operatore politico del Sottosegretariato di Governo, che hanno visto sparare i paramilitari.

Il rappresentante di Mitzitón ha dichiarato che perfino un veicolo della polizia è stato colpito da due pallottole. Dopo l’aggressione sono arrivati altri poliziotti che hanno fermato 23 membri dell’Ejército de Dios consegnandoli poi al Pubblico Ministero. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/15/index.php?section=politica&article=020n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Lunedì 14 febbraio 2011

Maderas del Pueblo accusa la Oppdic di vessare gli ejidatari di Bachajón e chiede la fine degli aiuti governativi a questa organizzazione

Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de las Casas, Chis., 13 febbraio. L’organizzazione ambientalista Maderas del Pueblo del Sureste ha denunciato che “le azioni di vessazione e provocazione” contro gli ejidatari di San Sebastián Bachajón (Chilón), che “sono culminate con l’esproprio violento del botteghino di ingresso alle cascate di Agua Azul, sono state perpetrate impunemente da gruppi filogovernativi, appartenenti all’Organizzazione per la Difesa dei Diritti Indigeni e Contadini (Opddic)”, o vincolati ad essa.

L’organizzazione civile chiede la “sospensione immediata” di ogni “appoggio e copertura” governativa agli ejidatari filogovernativi ed ai membri della Opddic, e sottolinea: “Non possiamo slegare le azioni repressive del governo statale dagli interessi nazionali e transnazionali per il possesso dei territori indigeni chiapanechi, ricchi di risorse naturali strategiche”. La loro intenzione è “privatizzarle per il lucro miliardario di impresari e politici associati”. Questo “affare” è mascherato “dall’ingannevole schema di ‘pagamento per servizi ambientali’”.

Maderas del Pueblo sostiene che, anche se negato dalle autorità, “il bottino conteso è l’acqua e la bellezza paesaggistica di questa zona”, la ragione di “queste aggressioni impuni”, adducendo “un falso ‘ecoturismo’ (in realtà un turismo elitario d’avventura)”, e sotto la copertura “legale ma illegittima” di Area Naturale Protetta.

L’analisi ricorda la Dichiarazione di Comitán, elaborata dall’ex governatore Roberto Albores Guillén e firmata nel 2006 davanti al notaio pubblico dall’allora candidato perredista Juan Sabines Guerrero, che si impegnava ad includerla nel suo piano di governo. Detta dichiarazione si pronunciava per “costruire una nuova Cancun” nel nord del Chiapas, perché il governo federale “deve impegnarsi a sviluppare nei prossimi anni un programma turistico integrale che comprenda Palenque, Agua Azul, Misol-há, Toniná, Yaxchilán, Bonampak e Playas de Catazajá”.

Nella sua analisi documentale, Maderas del Pueblo riassume che lo scorso 3 febbraio sono stati fermati “in maniera arbitraria” 117 indigeni aderenti all’Altra Campagna, e sono stati oggetto “di gravi irregolarità durante la loro cattura e durante il loro arresto, subendo minacce e maltrattamenti”. Quel giorno, mentre gli ejidatari erano riuniti per concordare una risposta da dare al governo statale “sull’offerta di un tavolo di dialogo”, un gran numero di poliziotti statali “hanno eseguito un operativo a sorpresa con il risultato dell’arresto in massa, inseguendo perfino quelli che cercavano rifugio nelle case dei vicini”.

Felícitas Treue, del Collettivo Contro la Tortura e L’Impunità (CCTI) ritiene che “sono stati violati i diritti all’integrità personale, alla presunzione di innocenza, al giusto processo, garanzie giudiziarie e protezione legale”, e denunciando la “privazione arbitraria della libertà degli ejidatari”, segnala che “tra altre irregolarità, non hanno avuto un avvocato né un interprete qualificato, e sono stati minacciati da poliziotti statali e vessati dal Pubblico Ministero”.

Il CCTI specifica che il 5 febbraio scorso la Procura Generale di Giustizia dello Stato ha liberato 107 ejidatari, ed il giorno 11 è stato decretato l’arresto per dieci di loro, e condivide la preoccupazione per gli ejidatari tzeltales con la Segreteria Internazionale dell’Organizzazione Mondiale Contro la Tortura (La Jornada, 13-02-11).

Il giorno 6, il governo del Chiapas aveva annunciato un tavolo di de dialogo “tra le parti”, senza la presenzia degli ejidatari dell’Altra Campagna, che sostengono che non è stato rispettato il processo di dialogo interno in corso per la decisione comunitaria. Oltre ad essere stati “violentemente derubati del botteghino da un gruppo di ejidatari filogovernativi”, la polizia occupa le loro terre e dieci indigeni, tra loro un minorenne, sono in carcere nel Centro Statale di Reinserimento Sociale N. 17, con le accuse di omicidio aggravato, tentato omicidio, attentato contro la pace e l’integrità fisica e del patrimonio dello Stato (Istruttoria penale 39/2011) http://www.jornada.unam.mx/2011/02/14/index.php?section=politica&article=019n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Lunedì 14 febbraio 2011

Il Fisco amministrerà il capitale e lo consegnerà in forma equa alle comunità

Abitanti di Chilón e Tumbalá pattuiscono la gestione del botteghino d’ingresso as Agua Azul

Chilón, Chiapas., 13 febbraio. Ejidatari di San Sebastián Bachajón ed Agua Azul hanno firmato il Patto de civiltà e concertazione per la pace, col quale concordano l’installazione del botteghino unico per l’ingresso al sito turistico che sarà amministrato dalla Segreteria del Fisco che darà certezza e trasparenza alla gestione delle risorse, tutto con l’impegno che le entrate saranno suddivise in parti uguali tra i due gruppi. Al tavolo di dialogo dove è stato mostrato il verbale dell’assemblea firmato da 3 mila ejidatario di Bachajón ed Agua Azul, era presente il governatore Juan Sabines (….).  A partire da questo lunedì inizierà la costruzione del nuovo botteghino che sarà collocato al confine dei municipi di Chilón e Tumbalá e che sarà l’unico ingresso al sito turistico delle Cascate di Agua Azul. (…) L’incontro si è svolto in assenza di coloro che si proclamano dell’Altra Campagna, ai quali il governatore Juan Sabines Guerrero ha rinnovato l’invito al dialogo.  Il governatore Juan Sabines ha comunicato di aver istituito un vitalizio alla madre della persona deceduta durante gli scontri del 2 febbraio scorso. (…) http://www.jornada.unam.mx/2011/02/14/index.php?section=politica&article=018n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Domenica 13 febbraio 2011

Si dichiarano innocenti gli indigeni arrestati in Chiapas per omicidio

Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de las Casas, Chis. 12 febbraio. In contraddizione con la versione ufficiale che attribuisce loro un omicidio ed altri presunti reati, i 10 indigeni aderenti all’Altra Campagna dell’ejido San Sebastián Bachajón, attualmente detenuti nella prigione di Playas de Catazajá, si dichiarano innocenti. In questo stesso senso si è espressa l’assemblea degli ejidatarios di San Sebastián, che giovedì 10 ha installato un presidio di denuncia al crocevia per le cascate di Agua Azul, e sostengono che “i detenuti sono ostaggi del governo dello stato per obbligarli ad accettare il dialogo”.

Secondo l’assemblea degli ejidatarios tzeltales, “quelli che avevano le armi, erano del gruppo di priisti, con Carmen Aguilar Gómez e suo figlio, ed i suoi compagni, che ci sparavano addosso, e loro dichiarano che c’è stato un morto e dei feriti dando la colpa ai compagni dell’Altra Campagna”.

Nei fatti, successi lo scorso 3 febbraio, effettivamente ha perso la vita Marcos Moreno García, del gruppo priista che il giorno prima aveva preso con la forza la cabina di riscossione di accesso alle cascate. Poco dopo erano stati “fermati” dalla polizia 117 ejidatarios dell’Altra Campagna, con un misto di minacce ed inganni. Questi negano di avere ucciso (né sparando, né in altro modo) Moreno García. E denunciano di essere stati torturati.

Dalla fine di gennaio gli ejidatari denunciano minacce del gruppo priista (minoritario e senza rappresentanza legittima), che avrebbe preso la cabina di pedaggio che l’ejido gestisce dal 2008, e che è stato già causa di conflitti e repressioni poliziesche. La minaccia si è compiuta il 2 febbraio. Il giorno seguente gli ejidatari dell’Altra Campagna hanno tentato di recuperare il posto e sono stati affrontati dagli invasori, che come in altre occasioni contavano sul sostegno di poliziotti municipali e statali.

Dal carcere n.17, a Catazajá, gli indigeni formalmente arrestati sostengono che a provocare le violenze è stato il gruppo del “secondo commissario ufficiale” Francisco Guzmán Jiménez (Goyito), “e sono stati loro a bloccare la strada”. Bisogna ricordare che questo gruppo, filogovernativo, serve da punta di lancia per il progetto turistico privato Visión 2030, che comprende lo stabilimento balneare dell’ejido Agua Azul ed i terreni di San Sebastián.

Riferiscono che il giorno 3 gli ejidatari dell’Altra Campagna si erano riuniti vicino al crocevia: “I gruppi legati ai partiti avevano abbattuto degli alberi per impedirci di passare ed andare a recuperare la cabina di riscossione. Qualche ora dopo siamo stati circondati da centinaia di poliziotti e ci hanno chiesto se volevamo discutere della cabina, ma gli ejidatari hanno risposto di no”.

I comandanti di polizia hanno deciso che “se non volevamo parlarne era meglio portarci in un ‘posto sicuro’”. Così, gli indigeni sono stati obbligati “a mettersi in fila e salire uno alla volta su due autobus, su uno sono saliti 58 ejidatarios e sull’altro 59 e, trattati come animali siamo stati portati a Palenque, nella colonia Pakalná”. Lì “quelli che non capivano lo spagnolo” sono stati torturati.

In carcere attualmente si trovano Mariano Demeza Silvano (minorenne), Domingo Pérez Álvaro, Pedro Hernández López, Miguel López Deara, Domingo García Gómez, Juan Aguilar Guzmán, Pedro García Álvaro, Jerónimo Guzmán Méndez, Pedro López Gómez e Miguel Álvaro Deara.

Questi erano stati portati alla Procura Distretto Selva per rilasciare le loro dichiarazioni, come il resto dei fermati, “e siccome hanno visto che sapevamo un po’ leggere e scrivere, i Pubblici Ministeri insistevano che mettessimo per iscritto su un foglio il nome del colpevole dei fatti successi il 2 febbraio, ed uno di noi ha detto che non lo sapevamo perché quel giorno eravamo al lavoro” (pertanto, alcuni degli inquisiti non si trovavano nemmeno sul luogo dei fatti).

Jerónimo Guzmán Méndez, “uno degli ultimi ad essere stati ascoltati”, come altri suoi compagni, non ha avuto un adeguato interprete legale e gli sono state attribuite dichiarazioni false senza possibilità di smentirle, in uno scritto che “pur di accusarlo, gli hanno dato la colpa di tutto quanto è accaduto, ed è anche scritto che non sa parlare castigliano, né scrivere”. Gli ejidatari concludono definendosi “prigionieri politici in difesa delle nostre terre”. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/13/index.php?section=politica&article=019n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Lunedì 7 febbraio 2011

Il Frayba accusa il governo di criminalizzare L’Altra Campagna

Elio Henríquez. Corrispondente . San Cristóbal de Las Casas, Chis., 6 febbraio. Il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de Las Casas (Frayba) ha documentato “violazioni al giusto processo” durante il fermo dei 116 indigeni dell’Altra Campagna del municipio de Chilón, nel centro turistico delle cascate di Agua Azul, 10 dei quali sono stati arrestati la notte di sabato come presunti omicidi e rinchiusi nel Carcere di Playas de Catazajá.

In un comunicato, segnala che secondo le testimonianze degli indigeni, è falsa la versione ufficiale secondo la quale avrebbero bloccato la strada San Cristóbal-Palenque e che ci fossero 17 turisti in ostaggio.

L’organizzazione presieduta dal vescovo di Saltillo, Coahuila, Raúl Vera López, sostiene che i fermati non sono 116, come assicurato dalla Procura Generale di Giustizia dello Stato (PGJE), bensì 117, quindi le persone liberate sabato sono 107, tra queste un minorenne.

Sostiene che le autorità statali “perseguono e criminalizzano gli ejidatarios, aderenti all’Altra Campagna, ogni volta che sono loro stessi ad essere aggrediti e derubati in maniera violenta della cabina di riscossione da parte di un gruppo numeroso di ejidatarios priisti”.

Aderenti e priisti dell’ejido San Sebastián Bachajón, Chilón, si sono scontrati il 2 febbraio scorso ad Agua Azul – a circa 150 chilometri da questa città – per il controllo della cabina di riscossione, con risultato di un morto ed almeno due feriti, militanti del PRI.

Il Frayba afferma che “il fermo delle 117 persone è avvenuto il 3 febbraio, alle 11:30 circa, quando il gruppo di ejidatarios si trovava in strada, all’altezza dell’entrata alle cascate di Agua Azul, per concordare la risposta da dare al governo statale riguardo l’offerta di dialogo e negoziazione che gli operatori politici della zona avevano presentato loro”.

Citando gli aderenti, aggiunge che erano in riunione quando “si sono avvicinati circa 300 poliziotti che hanno lanciato un lacrimogeno che è caduto in una dalle pentole di fagioli che stavano cuocendo, e poi un comandante del corpo si è avvicinato per chiedere la risposta”, che è stata negativa, nel senso di non accettare il dialogo proposto dal governo.

Segnala che “la risposta negativa degli ejidatarios era dovuta al fatto che prima avevano denunciato pubblicamente i piani del governo statale di creare uno scenario di scontro per reprimere e poi gestire il conflitto, prendendo il controllo definitivo della zona, perché ci sono interessi territoriali strategici di investimenti turistici e di esproprio contro le comunità che abitano in questo luogo”.

“Sulla base delle informazioni documentata che possiede, questo Centro conferma le violazioni al giusto processo che tutte le persone fermate hanno subito, consistenti nel non avere un avvocato o un rappresentante legale, né un traduttore, tra le altre. È chiara l’azione repressiva del governo dello stato, il quale agisce insieme alle autorità ufficiali (priiste) per segnalare e fermare in maniera arbitraria gli ejidatarios aderentiall’Altra Campagna”, conclude. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/07/index.php?section=politica&article=017n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Venerdì 4 Febbraio 2011

Gilberto López y Rivas

Il piano della campagna del 1994 contro l’EZLN

In tempi di rilevazioni di documenti degli ambiti del potere, recentemente mi è passato per le mani un testo importante per capire la prospettiva strategica e le azioni tattiche dei militari messicani di fronte alla storica sollevazione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale iniziata il primo gennaio del 1994. Si tratta della campagna del comando generale della VII Regione Militare della Segreteria della Difesa Nazionale (Sedena) di stanza a Tuxtla Gutiérrez, Chiapas, datato ottobre di quell’anno.

Redatto da chi ostentava il nome in codice S-3 e con il lasciapassare del comandante della VII Regione Militare e del generale segretario della Difesa Nazionale, il piano stabilisce che l’obiettivo strategico-operativo è distruggere la volontà di combattere dell’EZLN, isolarlo dalla popolazione civile, ottenendo l’appoggio di questa a beneficio delle operazioni, mentre l’obiettivo tattico è distruggere e/o disorganizzare la struttura politica militare di quell’organizzazione. In tutto il documento si usano i termini di “sovversivi”, “trasgressori della legge” e “sovvertitori dell’ordine” riferiti agli zapatisti o alla sigla E.Z.L.N. Al riguardo, in quegli anni, e nella mia qualità di membro della Commissione di Concordia e Pacificazione, ricordo le ripetute affermazioni dei militari dei ranghi superiori: “in Messico c’è solo un esercito, quello messicano!”

Dopo aver esposto i propositi centrali del piano, i dirigenti dell’alto comando stabilivano quanto segue: evitare un conflitto internazionale con il Guatemala, gestire i rapporti con i mezzi di comunicazione a beneficio delle forze armate e limitare gli effetti negativi capaci di sviluppare le organizzazioni dei diritti umani e gli organismi non governativi, nazionali ed internazionali. Per fare ciò, si devono svolgere in forma coordinata azioni tattiche, di intelligenza, psicologiche, di questioni civili, tra le altre, ed una che richiama potentemente l’attenzione di chi denunciava allora l’appoggio della Sedena ai gruppi paramilitari: l’assistenza e l’organizzazione delle forze di autodifesa. Su questo argomento, si esplicita quanto segue: “Organizzare segretamente alcuni settori della popolazione civile, tra altri, allevatori, piccoli proprietari ed individui caratterizzati da un alto senso patriottico (sic), chi saranno impiegati agli ordini e a sostegno delle nostre operazioni”. Più avanti si citano allegati di riferimento che però non sono inclusi nel documento; il contenuto di uno di questo era il seguente: “Descrive attività dell’Esercito nell’addestramento ed appoggio delle forze di autodifesa o di altre organizzazioni paramilitari, che può essere il principio fondamentale della mobilitazione per le operazioni militari e di sviluppo. Comprende inoltre la consulenza e l’aiuto che si presta ad altre dipendenze del governo ed a funzionari governativi locali, municipali, statali e federali. Nel caso non esistessero forze di autodifesa, è necessario crearle”. Infine, per chi si affannava a negare la validità della nostra denuncia alla PGR riguardo all’esistenza di gruppi paramilitari addestrati ed appoggiati dall’Esercito, il piano sostiene: “Le operazioni militari includono l’addestramento di forze locali di autodifesa, affinché partecipino ai programmi di sicurezza e sviluppo”.

La lista degli alleati degli zapatisti o dei settori da neutralizzare con mezzi diversi e le misure da prendere, secondo i militari, è significativa: “In coordinamento col governo dello stato e le altre autorità, si dovrà applicare la censura ai diversi mezzi di diffusione di massa (…) I principali mezzi ad usare (per i trasgressori) continueranno ad essere la stampa nazionale e straniera, gli organismi non governativi, organizzazioni di sinistra e religiose che propugnano la teologia della liberazione”. Per la campagna offensiva si ordina: “1. – La sospensione delle garanzie individuali nell’entità: a) sgombero forzato della popolazione sotto l’influenza zapatista verso rifugi o zone di rifugio ufficiali; b) neutralizzazione dell’organizzazione e dell’attività della Diocesi di San Cristóbal del Las Casas; c) la cattura e arresto di messicani identificati con l’E.Z.L.N; d) la cattura e l’espulsione di stranieri perniciosi; (…) g) la morte o il controllo di bestiame equino e vaccino; h) la distruzione di semine e raccolti; i) l’impiego dell’autodifesa civile…1. – la rottura delle relazioni di appoggio esistenti tra la popolazione ed i trasgressori della legge”.

Anche la visione castrense dell’EZLN come organizzazione, nell’ambiente politico e militare, richiama l’attenzione: “L’auto-denominato E.Z.L.N, come ogni organizzazione maoista (sic), è costituita da una direzione politica, dalle forze armate e dalle organizzazioni di massa”, le quali sono: “la parte fondamentale ed il più importante elemento della strategia maoista, (e) si struttura con organizzazioni reali o di facciata, nei settori: magistrale, studentesco, popolare, lavorativo, etnico, religioso, contadino ed altri. In queste organizzazioni operano i comandi, le milizie messicane e le guerriglie locali”. Per l’aspetto militare dice che l’EZLN è organizzato con un comando generale, col suo stato maggiore, opera su tre fronti: nord, centro e sud, ognuno con un reggimento ed i rispettivi battaglioni, oltre ai comandi urbani e rurali (forze speciali scelte), guerriglie locali e milizie messicane, dando numeri precisi dei membri di ognuno di essi.

Il piano di questa campagna prova che, mentre il governo messicano fingeva di avviare il dialogo con i maya zapatisti, i militari spiegavano la fallita strategia di annichilimento che Zedillo ordinava il 9 febbraio 1995. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/04/index.php?section=opinion&article=025a1pol

Al compagno Samuel Ruiz

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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121 Arresti ad Agua Azul.

La Jornada – Venerdì 4 Febbraio 2011

Sgomberato il presidio dell’Altra Campagna sulla strada Ocosingo-Palenque

121 indigeni arrestati dopo gli scontri con i priisti

Elio Henríquez

San Cristóbal de Las Casas, Chis., 3 febbraio. Vicino a mezzo migliaio di poliziotti statali e federali, appoggiati da elementi dell’Esercito Messicano, hanno sgomberato centinaia di indigeni del municipio di Chilón, aderenti all’Altra Campagna, che bloccavano la strada Ocosingo-Palenque, ed hanno arrestato 121 persone, hanno comunicato fonti non ufficiali.

Gli indigeni avevano bloccato la strada in segno di protesta perché decine di priisti dello stesso municipio di Chilón mercoledì scorso avevano tolto loro il controllo della cabina di riscossione al sito turistico delle Cascate di Agua Azul, ad oltre 150 chilometri da questa città, controllo che mantenevano da due anni.

Secondo alcuni informatori, autorità statali e federali alle ore 10 di giovedì hanno trasferito per via aerea 17 turisti di Stati Uniti, Francia, Argentina e Messico, che non erano riusciti a lasciare il sito.

 

Un morto e due feriti

 

Membri dell’Altra Campagna, abitanti dell’ejido San Sebastián Bachajón, nel municipio Chilón, si erano scontrati con i priisti del luogo per il controllo della cabina di riscossione per entrare nel sito turistico; negli scontri c’è stato un morto (Marcos Moreno García), due feriti (Tomás Pérez de Ara ed un’altra persona di cui non si conosce il nome), militanti del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI).

Le autorità statali in un comunicato hanno dichiarato che l’operativo congiunto per il ritiro dei manifestanti è stato realizzato in maniera “pacifica”, e conformemente al “protocollo degli sgomberi”. Aggiungono che la Procura Generale di Giustizia del Chiapas, su mandato della Procura del Distretto Selva, ha avviato l’istruttoria numero 80/SE74-T2/2011 “per determinare i responsabili dei reati di omicidio, lesioni, danni, privazione illegale della libertà ed attacco alle vie di comunicazione”.

Sottolineano che il sito turistico è stato recuperato ed è protetto da elementi della Polizia di Pubblica Sicurezza e Protezione Civile, che la comunità di Agua Azul “è tornata alla normalità, e si mantengono le misure preventive corrispondenti, come il rafforzamento della presenza delle forze dell’ordine”.

Dichiarano che i 121 fermati sono stati portati a Palenque affinché rilascino le loro dichiarazioni al pubblico ministero e siano sottoposti alla prova del guanto di paraffina.

Il priista Francisco Guzmán, presidente del commissariato ejidale di San Sebastián, ha assicurato che, come rappresentante del gruppo, seguirà le vie legali per risolvere il conflitto, e che era programmata un’assemblea per il 18 di questo mese, allo scopo di decidere “che strada prendere, ma un gruppo di ejidatarios non ha aspettato” ed ha deciso di prendere la cabina, perché si devono riscuotere ancora 190 mila pesos di imposte.

Alla radio locale Guzmán ha detto che i suoi compagni sono tranquilli “perché hanno cacciato quelli dell’Altra Campagna; ci sono 120 arrestati che si trovano a Palenque. Le autorità sono intervenute grazie al governatore Juan Sabines Guerrero”. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/04/index.php?section=politica&article=023n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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Un morto e feriti in Chiapas.

La Jornada – Giovedì 3 febbraio 2011

Scontro tra indigeni in Chiapas: un morto e due feriti

Elio Henríquez

San Cristóbal de Las Casas, Chis., 2 febbraio. Un morto e due feriti è il risultato dello scontro avvenuto questo pomeriggio tra indigeni aderenti all’Altra Campagna ed un gruppo priista per il controllo della cabina di riscossione all’ingresso del sito turistico delle cascate di Agua Azul, municipio di Chilón.

Una fonte ufficiosa rivela che il problema era sorto nella mattina, quando ejidatarios priisti di San Sebastián Bachajón, Chilón, avevano sgomberato in maniera “violenta” gli aderenti che da due anni tenevano sotto il loro controllo la cabina di riscossione.

Aggiunge che nel pomeriggio questi ultimi si erano organizzati per tentare di recuperare la cabina e questo ha generato lo scontro che ha lasciato diversi feriti che sono stati trasportati all’ospedale di Palenque.

Ha inoltre detto che sul posto è deceduto il priista Marcos Moreno García, di 26 anni, mentre Tomás Pérez di Ara è in gravi condizioni. Un altro indigeno, il cui nome non è stato fornito, è ferito alla testa da una pietra lanciata con una fionda, ed è ricoverato.

La fonte ha raccontato che poco dopo l’inizio degli scontri è arrivata la polizia statale per tentare di ristabilire l’ordine, ma la situazione questa notte era molto tesa.

Non è stato detto se gli aderenti hanno recuperato il controllo della cabina di Agua Azul – che si trovano a più di 150 chilometri da questa città – o se la polizia l’ha protetta.

Prima dello scontro gli aderenti dell’Altra Campagna in un comunicato avevano informato che: “noi come organizzazione non facciamo provocazioni e tanto meno insultiamo nessuno; stiamo lavorando e cercando altre alternative per proteggere le nostre risorse naturali e costruire l’autonomia interna, ma questi delinquenti (i priisti) agiscono agli ordini degli funzionari del governo”. http://www.jornada.unam.mx/2011/02/03/index.php?section=politica&article=020n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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PROCESO – 1 Feb 2011
http://www.proceso.com.mx/rv/modHome/detalleExclusiva/87963

Militari colpiscono attivisti che protestano per la visita di Calderón alla tomba di Tatic

Isaín Mandujano

San Cristóbal de Las Casas, Chiapas, 1 febbraio (apro).- Elementi dello Stato Maggiore Presidenziale (EMP) hanno picchiato due attivisti chiapanechi che protestavano durante la visita che questo pomeriggio ha effettuato il presidente Felipe Calderón alla tomba del vescovo emerito di San Cristóbal, Samuel Ruiz García, scomparso lo scorso lunedì 24 gennaio.

Come se non bastasse, i militari hanno anche aggredito un cittadino argentino che era intervenuto per far cessare il pestaggio contro l’attivista Concepción Avendaño Villafuerte ed il suo compagno Rusbel Lara González.

Intorno alle 17:15, protetto da uno spettacolare dispositivo di sicurezza, Calderón ha visitato la tomba di Tatic Samuel Ruiz nella cattedrale di San Cristóbal, dove ha posto una corona di fiori. Al termine dell’atto, alcuni attivisti seguaci del vescovo emerito hanno chiesto al presidente “di pregare per i 30 mia morti della sua amministrazione”.

Calderón era in visita nello stato per girare alcuni filmati promozionali sulle ricchezze naturali del paese ed ha inserito in agenda una visita alla cattedrale di San Cristóbal de Las Casas. Il sontuoso dispositivo di sicurezzaha disturbò gli abitanti del luogo e circa 40 persone che si trovavano in cattedrale.

Calderón Hinojosa è arrivato nella cattedrale di San Cristóbal, guidata da Samuel Ruiz per 40 anni e dove ora riposano i suoi resti, accompagnato dalla moglie Margarita Zavala e dal governatore del Chiapas, Juan Sabines Guerrero con la moglie, Isabel Aguilera.

I mandatari sono stati ricevuti dal vescovo della Diocesi di San Cristóbal, Felipe Arizmendi Esquivel, dal parroco della cattedrale Eugenio Figueroa, e da José Ruiz García, l’unico fratello vivente del vescovo emerito. (…)

All’interno della cattedrale c’erano circa 40 fedeli in attesa della messa delle sei del pomeriggio per la novena a Tatic, ed alcuni giornalisti ai quali è stato impedito di scattare fotografie.

All’esterno della cattedrale Concepción Avendaño Villafuerte ha gridato a Calderón “chiedi a Tatic di pregare per i 30 mila morti del tuo regime!”.

Immediatamente, elementi dello Stato Maggiore Presidenziale hanno preso Avendaño Villafuerte iniziando a picchiarla. Lei ha cercato riparo nel suo compagno, Rusbel Lara Gonzalez, che è stato anche lui picchiato ed allontanato.

Intervistata, l’attivista ha dichiarato di essersi sentita offesa dalla visita dei due personaggi politici.

Durante l’aggressione è intervenuto un turista argentino gridando che lasciassero in pace  Avendaño Villafuerte, dicendo che non avessero smetto di picchiarla, tutta la comunità internazionale sarebbe venuta a conoscenza di questa aggressione. Questo è bastato perché i militari picchiassero violentemente l’argentino che dopo essere stato sbattuto contro un muro è stato prelevato. Fino a questa notte non si ignora dove si trovi.

Avendaño ha ricordato che per Samuel Ruiz non ci sono mai state guardie del corpo che si interponevano tra lui e la sua parrocchia, ed ha criticato che fin dal suo funerale è stato evidente la volontà di sottrarre l’accesso alla tomba del vescovo ai suoi fedeli. L’attivista questo pomeriggio si è recato alla Procura Generale di Giustizia dello stato (PGJ) per presentare una denuncia penale per lesioni ed abuso d’ufficio contro gli elementi dello Stato Maggiore Presidenziale.

(Traduzione “Maribel” – Bergamo

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