Scambio epistolare su Etica e Politica
La guerra, la politica e l’etica
Riflessioni su una lettera
Carlos Antonio Aguirre Rojas
Febbraio 2011:
Don Carlos: Saluti. Le allego la prima lettera di uno scambio epistolare su Etica e Politica. Vogliamo invitarla ad unirsi e a portare il suo contributo su questo tema. Un abbraccio. SupMarcos.
(Ringrazio il SCI Marcos dell’invito a partecipare a questo scambio epistolare su un tema vitale come quello che tratta nella sua bella lettera a don Luis Villoro)
“E si tratta proprio di questo, che la parola vada e venga (…) e non importa se qualcuno la raccoglie e la rilancia (è per questo che sono fatte le parole e le idee)”.
(SUBCOMANDANTE INSURGENTE MARCOS, APPUNTI SULLE GUERRE, FEBBRAIO 2011)
Il contesto di uno scambio epistolare
Il testo del Subcomandante Insurgente Marcos intitolato “Appunti sulle guerre”, pensato per dare inizio ad uno scambio epistolare con Luis Villoro, ha l’esplicita pretesa di suscitare una riflessione più approfondita che ci aiuti a capire “quello che accade in Messico e nel mondo”. E lo fa, in particolare, dal singolare osservatorio dei vincoli che si stabiliscono tra la politica e l’etica, tra l’etica e la politica e, quindi, dal punto di vista di come viviamo oggi e di come assumiamo entrambe le dimensioni della realtà e anche di come da lì si generano le resistenze sociali in generale e la resistenza neozapatista in particolare.
Quindi, per dare la giusta la rilevanza a questo testo, è importante ricordare brevemente la storia che lo precede immediatamente, e da lì le circostanze in cui ora si presenta. Perché dopo il rapido ed enorme successo che ebbe l’iniziativa dell’Altra Campagna, durante il 2006 e il 2007, e come risposta all’imponente costruzione di una vasta Rete Nazionale di molteplici ribellioni che si articolarono nell’Altra Campagna, il governo di Felipe Calderón non trovò altra via d’uscita che quella di moltiplicare e aumentare in maniera considerevole l’attacco e l’aggressione alla basi d’appoggio e alle comunità indigene neozapatiste dello stato di Chiapas, perseguitandole allo stesso tempo attraverso diversi partiti politici (tra questi il PRD di Chiapas), l’azione contro-insurrezionale e ipocrita del governo statale chiapaneco, l’aumento delle truppe e delle attività militari dell’esercito federale, l’azione ogni volta più aperta e provocatoria dei gruppi paramilitari come la OPDDIC e altri simili.
Così, nel dicembre 2007, i compagni neozapatisti decisero di ritirarsi nei propri territori, per riorganizzare le basi d’appoggio e tutte le comunità neozapatiste, in maniera che fossero pronte a far fronte e rispondere, nel caso fosse necessario, a questa nuova e criminale offensiva del governo.
Con ciò, il processo già avviato della discussione e costruzione, dal basso e a sinistra, del Programma Nazionale di Lotta, che dovrà nascere dalle discussioni delle centinaia e migliaia di movimenti, collettivi, gruppi e individui che formano l’Altra Campagna, in quel momento è rimasto semi-posticipato e semi-sospeso, e si è aperto un tempo di attesa, interrotto solo per il Primer Festival de la Digna Rabia nel gennaio 2009 e durato tre anni che, speriamo, finisca ora con questa lettera e con questo sforzo di riflessione su ciò che oggi avviene nel nostro paese e in tutto il mondo.
E sebbene durante questi tre anni l’Altra Campagna abbia proseguito il suo paziente lavoro continuando a sviluppare molteplici lotte locali e regionali e continuando a tessere e alimentare quella diversa e multicolore Rete Nazionale Anticapitalista dei movimenti e delle organizzazioni che lottano in basso e a sinistra, al contrario, il lavoro sulla costruzione del Programma Nazionale di Lotta è diminuito considerevolmente o, in alcuni casi, è stato addirittura sospeso del tutto.
Perciò, è significativo che questo scambio epistolare, pensato per riflettere sulla situazione presente del Messico e del mondo, ruoti attorno alla relazione tra etica e politica. Perché, a nostro avviso, è da questa relazione che può trarre adeguatamente fondamento l’attività dell’Altra Politica rivendicata e sostenuta dall’Altra Campagna, Altra Politica che, riprendendo la costruzione del Programma Nazionale di Lotta e la riarticolazione del movimento nazionale anticapitalista dell’Altra Campagna, ricomincerà speriamo molto presto, con nuova forza ed energia, il processo interrotto poco più di tre anni fa. Per questo, crediamo, è importante pronunciarsi su questa lettera recente scritta dal Subcomandante Insurgente Marcos.
Guerra e politica nel secolo XXI
“E a questo punto, invertendo la proposizione di Clausewitz diremmo che la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi”.
(MICHEL FOUCAULT, PRIMA LEZIONE DEL CORSO AL COLLÈGE DE FRANCE, GENNAIO 1976)
Leggendo le riflessioni contenute nel testo “Appunti sulle guerre”, viene subito alla mente la tesi che postulò Michel Foucault invertendo la classica frase di Karl Clausewitz, nel libro Della Guerra, per affermare che “la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi”. Perché se alla base di tutte le società capitaliste contemporanee – per limitarci solamente ad un unico esempio – vi è una chiara e cruda guerra tra le classi principali opposte di questa società, allora una delle funzioni centrali della politica capitalista sarà precisamente quella di prolungare, occultandola e attenuandola, questa guerra costituente tra sfruttatori e sfruttati, tra oppressi ed oppressori, tra classi e gruppi egemonici e gruppi e settori subalterni di questa stessa società capitalista.
Per questo Foucault afferma che la politica è una sorta di “guerra silenziosa”, o in forma moderata, presentabile e più o meno sopportabile, della suddetta guerra o lotta di classe costituente e originaria. Tesi provocatoria e suggestiva dell’autore de Le parole e le cose, che a nostro avviso è facilmente compatibile con la concezione di Marx sulla centralità strutturale e sul carattere costituente della lotta di classe nell’epoca capitalista, e che nemmeno si allontana troppo dalla tesi sostenuta da Walter Benjamin, quando nel testo Sul concetto di storia afferma che “la tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato d’eccezione’ in cui viviamo oggi è in realtà la regola”.
Allora, se la politica capitalista è stata, per cinque secoli, questo avatar mistificatore e addolcito della guerra reale, dobbiamo chiederci perché e in quali condizioni questa politica è tornata a vestire, in tempi recenti, la sua forma originaria di guerra aperta e spietata. E la risposta a queste domande, dal nostro punto di vista, risiede in un doppio processo che, a partire dalla congiuntura iniziata con il doppio crack del 1968 e del 1973 e arrivata fino al giorno d’oggi, vive l’umanità tutta e l’intero sistema mondiale capitalista, doppio processo della crisi terminale del capitalismo mondiale, ma anche e oltre ciò, tra altri processi fondamentali sottostanti questa crisi terminale, il processo della morte stessa dell’attività umana della politica.
Così, come Marx sostiene in Miseria della filosofia, con la fine del capitalismo termina anche li lungo ciclo della storia delle società divise in classi sociali, e con esso termina anche la lotta di classe stessa come principio strutturale e organizzatore delle società umane. Ma concludendosi la lotta di classe, e scomparendo con essa le classi sociali stesse, scompaiono anche lo Stato e i partiti politici e allo stesso modo le classi politiche di qualsiasi sorta, insieme alla super struttura politica nel suo complesso. Con ciò, il “politico” si estingue per sempre, per essere di nuovo riassorbito dal sociale, sfera da cui derivò in maniera parassitaria 2 mila e 500 anni fa, e da cui finì per separarsi poco a poco.
Entrando così in questa tappa della crisi terminale del capitalismo, entriamo simultaneamente nella tappa della crisi, anch’essa ultima e definiva, della politica in quanto forma di espressione deformata e parassitaria della peculiarità del sociale, e in quanto attività umana in generale. E naturalmente, se assumiamo che il capitalismo è entrato nella sua fase terminale, ciò non significa che collasserà da solo, né che dobbiamo sederci ad aspettare il passaggio del suo cadavere, ma semmai che il nostro impegno di lotta raddoppia e diventa più complesso, poiché adesso non solo dobbiamo lottare per distruggere e seppellire il capitalismo che ancora subiamo a livello mondiale, ma anche lottare per cominciare a generare, qui ed ora, le premesse dei nuovi mondi e delle nuove relazioni sociali con cui dovremo sostituire il capitalismo di oggi in crisi.
Per ciò, questa doppia crisi terminale del capitalismo come sistema storico e della politica come forma classista separata di espressione dello stesso potere sociale, è forse quella che spiega il perché, in tempi più recenti, la politica cominci a degradarsi e perdere pezzi da tutte le parti, oscillando, a seconda delle circostanze storico-concrete di ogni paese, tra la forma cruda e spietata della guerra diretta tra classi e gruppi sociali, e la sua antica forma, sempre meno credibile e sempre più instabile, di guerra silenziosa, attenuata e fino ad un certo punto persino tollerabile e presentabile. Oscillando cioè, rapidamente e instabilmente, dalla politica cruda e guerrafondaia di Bush fino alle guerre ipocrite di Hillary Clinton e Barack Obama, o dal bellicismo ridicolo di Silvio Berlusconi o José María Aznar al bellicismo vergognoso e moderato di Romano Prodi o di José Luis Zapatero.
Oscillazione costante e caotica che nel caso del Messico diventa oltretutto singolare, da un lato per la frode gigantesca del 2006 e per la simultanea illegittimità assoluta di Felipe Calderón, e dall’altro il crescente fermento sociale di contestazione e ribellione delle classi subalterne messicane, quelle che lentamente ma costantemente hanno maturato una situazione che oggi è solo paragonabile alla vigilia del 1810 e del 1910, cioè, a una situazione di un vicino e imminente scoppio sociale di enormi proporzioni.
Così, l’attuale guerra di Felipe Calderón in realtà sono due guerre simultanee, o forse una sola, ma estesa su due fronti molto diversi tra loro. Il primo è quello della guerra contro il popolo messicano, popolo degno e ribelle, organizzato oggi nel movimento pacifico nazionale anticapitalista dell’Altra Campagna, e che si prepara con cura e attenzione all’imminente arrivo dell’anno 2010 storico, non cronologico. Anno 2010 storico in cui l’orologio messicano dovrà mettersi al passo con l’attuale orologio latinoamericano, dove i movimenti sociali degli ultimi anni pacificamente rovesciano presidenti e governi illegittimi e antipopolari, oggi ancora per dar spazio ai tiepidi governi socialdemocratici di Lula, Hugo Chávez, Evo Morales o Rafael Correa, ma molto presto, domani, per instaurare nuovi governi che realmente “comandino obbedendo” a partire dalla logica del vero autogoverno popolare.
Primo fronte della guerra di Calderón, contro tutte le classi sociali e i gruppi subalterni del Messico, che spiega il perché dell’estesa criminalizzazione della protesta sociale e la sistematica politica di diffusione della paura tra la popolazione in generale con lo scopo di inibire il crescente malcontento e l’organizzazione ogni volta maggiore dei popoli del Messico, così come si è reso evidente nelle recenti esperienze di Atenco e della APPO in Oaxaca, e in Chiapas dal 1994, ma anche dei nuovi Chiapas, Oaxaca e Atenco che proprio ora nascono in tutta la geografia messicana e che molto presto dovranno certamente irrompere sulla scena nazionale.
Però, un secondo fronte della guerra attuale di Felipe Calderón, o forse una seconda guerra, è quella che scatena verso altri settori delle classi dominanti, in un contesto dove il dominio di classe stesso comincia a sgretolarsi, arrivando così alla situazione prevista da Lenin in cui “quelli in basso non vogliono più vivere alla vecchia maniera e quelli in alto non possono più conservare e riprodurre quella maniera vecchia di dominio”. Contesto di crisi profonda dei meccanismi di potere sulle classi subalterne, nel quale, inoltre, i diversi settori o frazioni di questa classe dominante messicana si giocano apertamente il controllo dell’affare oggi più redditizio in Messico, e anche in molte altre parti del mondo, che è il business del traffico illegale di droga, nel nostro caso, dal Sudamerica verso gli Stai Uniti e l’Europa.
Poiché dietro il reale bagno di sangue in cui Calderón ha sprofondato tutto il Messico, ciò che si distende è anche la lotta per la costruzione di un possibile monopolio unico e centralizzato, come ogni monopolio, per l’espansione del traffico illegale di droga. E se nel Medio Evo, come ha ben spiegato Norbert Elías, i prìncipi lottavano tra loro all’interno di un cruento e radicale processo di selezione e affermazione del più forte su tutti, diventato poi Re, e che dal suo principato costruì l’allora emergente nuova nazione, subordinando e annettendo tutti i prìncipi e principati vicini, così, oggi i cartelli messicani della droga si combattono per provare a definire chi tra essi potrà essere all’altezza, eventualmente e nell’ipotetico caso che questa lotta possa realmente condurre a ciò, di quel monopolio esclusivo dei circuiti commerciali del narcotraffico che attraversano i territori e le acque del nostro paese.
Lotta o concorrenza “intercapitalista” tra i distinti cartelli messicani, che non si sviluppa solo a livello sociale, pratico e militare, ma anche dallo Stato, nello Stato e attraverso lo Stato dei distinti livelli, corporazioni, gruppi e sfere dell’intero apparato statale messicano. Lotta estremamente violenta, sanguinosa e spietata, vera guerra senza quartiere, secondo fronte della guerra di Felipe Calderón in terra messicana.
E se la politica attuale si trova nella sua crisi terminale, oscillando dalla forma “moderata” e “presentabile” alla forma cruda e spietata della guerra aperta e diretta, questa crisi si esprime allora a tutti i livelli e in tutti i settori che compongono la politica contemporanea permettendoci di comprendere fenomeni mondiali, presenti anche in Messico, come quelli dei governi delegittimati e totalmente separati dalle proprie popolazioni, cosa che oggi si dimostra in maniera clamorosa in tutto il mondo arabo, ma anche e sempre più in Europa e da tempo in America Latina, ecc. E questo avviene insieme allo sviluppo di quello che Immanuel Wallerstein ha chiamato un chiaro “antistatalismo diffuso”, il quale fa in modo che l’insieme delle popolazioni del pianeta non abbiano più fiducia nei rispettivi Stati e nella loro attività anomala, così come nella possibilità di ottenere da essi nuove conquiste o istanze. E tutto questo, al di là dei governi, delegittima la stessa istituzione statale in tutto il mondo.
Però, allo stesso modo e oltre questa crisi dei governi, e ad un secondo livello anche degli Stati, vi sono un disfacimento e un degrado generalizzati di tutte le classi politiche del mondo intero, cosa che in Messico diventa evidente con la vergognosa controriforma indigena del 2001 e che, ad esempio, in Argentina diede vita all’emblematico grido “Andatevene via tutti”, indirizzato precisamente a tutto l’insieme della classe politica argentina. Alla fine, e oltre la crisi di questi tre livelli, si consuma anche la crisi del potere politico stesso e, soprattutto, la messa in discussione radicale della separazione tra potere sociale e potere politico, messa in discussione che avanza per vie molteplici, e che in termini positivi ha prodotto l’inizio della rottura e del superamento di questa separazione, ad esempio, tra i tanti casi, nelle recenti esperienze delle Giunte di Buon Governo neozapatiste, negli Insediamenti dei Sem Terra e anche nei quartieri piqueteros genuinamente autonomi dell’Argentina.
Con ciò, e partendo da questa molteplice crisi dei quattro livelli della politica e del politico, si può comprendere il fatto, segnalato a suo tempo da Gramsci, che nelle condizioni attuali, l’egemonia politica delle classi dominanti traballa e il suo baricentro oscilla, in generale, dalla ricerca soprattutto del consenso all’esercizio, invece, del crudo e brutale dominio oggi.
In questo modo, tutte le classi politiche del pianeta, muovendosi verso una situazione ogni volta più vicina a quella di un “dominio senza egemonia”, come il celebre titolo del libro di Ranajit Guha, fanno in modo che anche il consenso e la fabbrica del consenso si trasformino radicalmente, diventando più fragili, più effimeri, più strumentali e molto più funzionali. Per questo, la filosofia e l’ideologia possono oggi essere sostituite dal lavoro dei mezzi di comunicazione di massa, che non hanno più il compito di creare, come era prima, consensi stabili, più o meno duraturi, validi per periodi di dieci, venti, trenta o cinquanta anni, ma semmai oggi devono solo fabbricare consensi veloci ed effimeri e addirittura, a volte, si accontentano di fabbricare il consenso passivo e momentaneo ma sufficiente delle grandi maggioranze, così che lascino passare senza gran protesta questo o quel torto, questo o quell’errore delle classi dominanti.
Si tratta allora della creazione di un “consenso” effimero o puramente funzionale, valido esclusivamente per una sola azione o, forse, per una breve congiuntura di mesi o pochi anni, come dimostrano a livello mondiale la giustificazione dell’invasione dell’Iraq o, più recentemente, la gestione della crisi di fine 2008, che vogliono farci credere essere terminata, quando appena si trova al suo vero inizio. Ma anche in Messico, come dimostrano le campagne elettorali di turno o le repressioni ad Atenco e Oaxaca nel 2006 o, attualmente, il vergognoso e spudorato favoreggiamento e occultamento della guerra ad alta intensità, del governo di Chiapas e del governo federale, contro le degne comunità indigene neozapatiste.
I limiti della guerra: la resistenza e l’etica
“Il guerriero deve esistere per il bene dell’umanità, per questo vive, per questo muore”.
(ELÍAS CONTRERAS, L’ETICA DEL GUERRIERO, 2006 CIRCA)
La guerra è senza dubbio un affare florido per i fabbricanti di armi, cioè, per il complesso industriale-militare degli Stati Uniti e anche di Inghilterra, Francia, ecc. Anche la distruzione di un paese è un buon affare per quelli che vogliono impossessarsi di quel territorio e riordinarlo a piacimento e secondo i propri interessi.
Tuttavia, al di là di questo complesso industriale-militare, la guerra non è un così buon affare per l’industria multinazionale non militare. Per questo A George Bush succede, circondato da false illusioni, Barack Obama, mentre Tony Blair viene rimpiazzato, senza illusione alcuna, da Gordon Brown. Perché il limite ultimo delle guerre, a rigor di logica capitalista, si attiva nel momento in cui le perdite cominciano a superare i profitti. E allora, quando le “sacche nere” dei propri cadaveri oltrepassano la soglia di ciò è che ancora tollerabile per la maggioranza della popolazione dello stesso stato aggressore, la guerra per il controllo di una nazione diventa difficile.
O anche quando la lotta intercapitalista per il controllo del monopolio di un affare succulento, ad esempio il traffico illegale di droga, comincia a paventare il possibile risultato del totale annientamento di tutte le parti in lotta.
Così come, quando la guerra della classe dominante contro le classi oppresse rischia di spezzare ogni equilibrio possibile e scatenare senza freno la risposta radicale e organizzata delle “moltitudini plebee”.
E anche se è ancora vero che il penultimo capitalista venderebbe la fune per impiccare l’ultimo capitalista, è anche chiaro che oggi, in Messico, un settore sempre più grande della stessa classe dominante, degli imprenditori e dei ricchi messicani, è già stanco della guerra di Felipe Calderón e considera assurda la sua strategia sanguinosa nell’affrontare le dispute intercapitaliste e interclassiste di quella stessa classe dominante nazionale, e anche la sua guerra di criminalizzazione assoluta di qualsiasi forma di protesta sociale.
D’altra parte, il limite della guerra permanente di classe e dei torti, velati o espliciti, della classe dominante verso le classi subalterne è sempre stato e continua ad esserlo oggi quello della resistenza popolare. Resistenza delle classi subalterne che, in Messico come in America latina e in tutto il mondo, cresce giorno dopo giorno come una sempre più degna rabbia mondiale, sempre più organizzata, nell’Altra Campagna come nei movimenti genuinamente antisistemici dell’America Latina e di tutto il mondo.
Per questo, di fronte alla crisi terminale della politica capitalista attuale e di fronte anche al disfacimento progressivo ed evidente della classe politica stessa in generale, la resistenza popolare contrappone e rivendica un’Altra Politica, una politica molto altra, che in fondo e a nostro avviso, non è altro che una forma storica di transizione verso la completa estinzione e scomparsa di qualsiasi politica possibile, verso la morte della politica, sia sotto forma addolcita e ancora presentabile, sia secondo la modalità guerrafondaia e spietata, e anche verso il completo riassorbimento di questa politica e delle sue funzioni legittime da parte del potere sociale e della sfera stessa del sociale in generale.
Un’Altra Politica che, naturalmente, può esistere solo se si unisce nuovamente con l’etica.
Perché la politica stessa, nel suo lungo corso secolare e millenario, dai tempi dell’antica Grecia fino ad oggi, andò poco a poco adottando un carattere di politica classista, allo stesso tempo che si separava dal sociale e si trasformava in una attività sempre più funzionale, pragmatica e strumentale. E questo processo che separa la politica dalla società divorzia in gran parte anche dai criteri sociali, dai principi etici e dalle cosmovisioni culturali più universali, così da far predominare i criteri di efficienza, i principi pragmatici e le concezioni più pratiche e strumentali.
E questi processi, che si dispiegano in tutta la storia delle società divise in classi sociali, si accentuano enormemente e raggiungono il culmine nella società capitalista. Per questo, la politica capitalista è una politica pragmatica, che pensa sia corretto scegliere tra due mali, optando per il presunto “male minore”, essendo inoltre una politica lontana dalle profondità della storia e della memoria, che vengono degradate e trasformate in semplici strumenti di legittimazione del proprio fare, impoverite a memoria e storia ufficiali, cioè, memoria glorificatrice del potere e storia dei vincitori.
Inoltre, e secondo la stessa logica, pensando che sia vero che il fine giustifica i mezzi, difendendo e affermando che è corretto dire che ciò che non è esplicitamente permesso è permesso, la politica capitalista è una politica lontana dall’etica, dalla morale e dalla vera giustizia. Politica capitalista lontana dal sociale, dalla storia e dall’etica, a cui naturalmente si contrappone l’Altra Politica, quella che rivendica apertamente la propria riconnessione e il vincolo stretto con il sociale, con la memoria e con la storia, e anche con la morale e l’etica.
Ma non con l’etica cristiana né con la morale religiosa, piuttosto con l’etica e con la morale popolari, con quello che lo storico Edward Palmer Thompson chiama precisamente “l’economia morale della moltitudine”. Un’etica popolare che è frutto del sapere popolare decantato nei millenni, sapere che, ad esempio, si manifesta nei discorsi e nelle posizioni del Vecchio Antonio e che riproduce anche i codici principali della cultura popolare, così brillantemente spiegati da Michail Bachtin, codici che stabiliscono quello che dal punto di vista delle classi subalterne è accettabile o non accettabile, ma anche ciò che è corretto e non corretto, quello che è etico e al contrario deve essere condannato eticamente.
Etica popolare la cui bussola più importante è quella del principio, a volte rivendicato da Mao Tse Tung, di “Servire il popolo”. O anche, quello che Elías Contreras teorizza per l’etica del guerriero, cioè “esistere per il bene dell’umanità”. Perché, se come stabilì Engels, l’etica e la morale sono sempre costruzioni storiche specifiche e non principi generali dalla validità atemporale, allora, in queste condizioni specifiche della crisi terminale del capitalismo e dell’attuale morte dell’attività politica, l’etica che deve alimentare L’Altra Politica è necessariamente l’etica di servire il popolo, di cercare la sua definitiva liberazione ed emancipazione, di perseguire il bene dell’umanità intera e di essere disposti per essa a vivere e anche morire.
Etica delle classi subalterne che, sulla stessa linea di servire il popolo e cercare il bene dell’umanità, deve sempre anteporre il “noi” all’”io”, superando l’egoismo possessivo del capitalismo e promuovendo, qui ed ora, la ricostruzione di nuovi vincoli comunitari e di nuove forme di comunità. Cosa che, nei fatti, comincia già a materializzarsi nelle Giunte di Buon Governo neozapatiste, in alcuni quartieri argentini di piqueteros, negli Accampamenti e Insediamenti del movimento brasiliano dei Sem Terra, o in alcune comunità indigene radicali dell’Ecuador o della Bolivia.
Morale ed etica di quelli in basso, che rinuncia alle ricompense materiali, ai benefici personali e individuali, materiali e simbolici, per sostituirli con la semplice “appagamento del dovere compiuto”, in una logica che, ancora una volta, cerca di trascendere, qui ed ora, la logica perversa del capitalismo di avere e possedere, affermando di fronte a essa la logica più profonda e duratura dell’essere. Cosa che allo stesso modo diventa realtà già ora nelle diverse esperienze dei movimenti antisistemici dell’America Latina appena sopracitati.
Etica degli oppressi, che ancora deve essere approfondita e sviluppata ampiamente, e che si esprime molto chiaramente, tanto nei sette principi dell’”Etica del Guerriero” copiati nel suo quaderno da Elías Contreras, come anche nei sette principi del Buon Governo neozapatista. Principi che, in maniera diretta, alimentano e articolano non solo l’Altra Politica neozapatista, ma anche l’importante, degna ed esemplare resistenza di quello stesso neozapatismo messicano che ventisette e diciassette anni dopo, non si arrende né si svende, ma con dignità resiste ancora e ancora combatte.
Città del Messico, 7 di marzo 2001.
(traduzione a cura di rebeldefc@autistici.org – http://www.caferebeldefc.org/)
.pdf dell’intervento di Aguirre Rojas in castigliano qui: http://revistarebeldia.org/revistas/numero77/08aguirre.pdf
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