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Archive for marzo 2014

La Jornada – Sabato 29 marzo 2014

Con le parole: Non può essere così! 25 anni fa il Frayba ha cominciato a farsi sentire

Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de las Casas, Chis., 28 marzo. Il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas, Frayba, è pioniere in Messico dell’esercizio della difesa dei diritti umani, della quale nessuno Stato che si dica democratico si può disinteressare. Fondato nel marzo del 1989 dal vescovo Samuel Ruiz García in Calle 5 de Febrero di questa città, nasce in un contesto locale di allarmante disuguaglianza, discriminazione e sfruttamento verso i popoli maya di un Chiapas ancora feudale. La vita degli indios non valeva più di quella di una gallina, secondo l’espressione di un allevatore ancora nel 1993. Fino a poco tempo fa qui esistevano ancora l’acasillamiento, il diritto alla prima notte, la brutalità deliberata, la schiavitù.

Ma si andava anche sviluppando un sempre meno isolato processo di coscienza, organizzazione, rivendicazione di identità e diritti collettivi tra i popoli tzotzil, chol, tzeltal, tojolabal. Attori chiave in questo processo sono stati il vescovo e l’organizzazione molto originale della sua diocesi, sul versante del Concilio Vaticano II° che col tempo si sarebbe chiamato della liberazione; ed anche organizzazioni contadine indipendenti legate a movimenti nazionali. Un altro attore, controverso, furono le chiese cristiane, in maggioranza diffuse inizialmente da missionari statunitensi, che promuovevano la ricerca della prosperità sulla base di valori individualisti, in contraddizione con il comunitarismo ancestrale che il cattolicesimo non ha sradicato.

Presieduto dal combattivo Raúl Vera López, ex vescovo ausiliare di Samuel Ruiz ed oggi titolare della diocesi di Saltillo, il Frayba si è emancipato dalla struttura ecclesiastica e si inserisce nello spazio urbano nelle montagne del Chiapas senza tradire il suo obiettivo originale del 1989: la difesa dei diritti delle persone, individuali e comunitarie, preferibilmente dei poveri. Comincia con il sessennio di Carlos Salinas de Gortari. E quello di Patrocinio González Garrido in Chiapas.

La prima cosa che denuncia il Frayba è il carattere antidemocratico ed anticostituzionale delle riforme del codice penale del dicembre del 1988 in Chiapas, e descrive la situazione di allora prendendo come punto di svolta il Congresso Nazionale Indigeno realizzato a San Andrés Larráinzar nel 1974, dove molti analisti collocano l’avvio del processo di liberazione dei popoli. Cita le rappresaglie: Questa situazione trova il suo punto algido agli inizi degli anni ’80, quando a Wolonchán la popolazione viene selvaggiamente repressa con un saldo di molti morti (nessuno li contò) e feriti. A El Paraíson, di Venustiano Carranza, vengono crudelmente massacrati nove contadini.

La storia grigia del Chiapas, disse il Frayba nel suo primo giorno, è difficile da valutare. Secondo fonti pubbliche, solo tra il gennaio del 1974 e luglio 1987 furono presentati 4.731 casi di azioni repressive: omicidi, ferimenti e lesioni, arresti, sequestri e torture, scomparsi, attentati, espulsioni di famiglie, violenze, percosse, sgomberi, violazioni di domicilio, saccheggio di uffici ed archivi, persecuzioni della polizia, furto di documenti agrari, repressione di manifestazioni, distruzione di abitazioni, chiese e scuole. Tutto un programma. Il lavoro era combattere contro il silenzio.

Indignazione e ribellione

Ci scontriamo con una realtà ingiusta e disumanizzante che provoca in noi un’indignazione ed una ribellione che ci fa dire: Non può essere! Sono le prime parole del Frayba 25 anni fa, quando una squadra, alla quale partecipavano Concepción Villafuerte, Gonzalo Ituarte e Francisco Hernández de los Santos comincia a raccontare le storie e risvegliare la memoria degli oltraggi e dell’illegalità del potere.

Nella capitale del paese nascevano centri simili. Lo stesso governo dovette creare la propria Commissione Nazionale dei Diritti Umani. Ma la difesa dei diritti umani in Chiapas era pericolosa quanto le lotte e la mera esistenza dei popoli indio. Senza l’ombrello della Chiesa cattolica non sarebbe stata possibile. Nel gennaio del 1994 le circostanze cambiarono drammaticamente per il centro con l’insurrezione dell’EZLN e la partecipazione del vescovo alla mediazione tra i ribelli ed il governo. Il Frayba, guidato dall’allora sacerdote Pablo Romo, è nell’occhio del ciclone. Ora doveva difendere i diritti dei popoli in mezzo ad una guerra che, sebbene i combattimenti durarono 12 giorni, si è protratta occulta su vari fronti, senza tregua per 20 anni con la militarizzazione.

Gonzalo Ituarte, stretto collaboratore di don Samuel, c nei giorni scorsi ha ricordato il contributo del Frayba all’evoluzione del Chiapas e del Messico, all’azione ed il pensiero dei popoli, delle comunità, della società civile e della Chiesa stessa. Oltre a coprire l’ambito della promozione e della difesa dei diritti umani, “con la sua azione ha portato al rafforzamento di iniziative popolari, di organismi non governativi, di attività di mediazione – in particolare con la Conai (Commissione Nazionale di Intermediazione) – con un ruolo molto rilevante e non sufficientemente analizzato nella complessità del conflitto armato non risolto in Chiapas ed i suoi multipli effetti colaterali”.

Acquisisce legittimità

A partire dal 1996 il Frayba è formato solo da laici, alcuni di loro indigeni. Lo dirigono successivamente due donne (Marina Patricia Jiménez e Blanca Martínez Bustos). Affronta le grandi tragedie del periodo (Chenalhó, El Bosque, la zona Nord) ed accresce la sua legittimità di fronte ai poveri, compresi i popoli zapatisti. Lo Stato si vede obbligato a prenderlo sul serio e per i successivi governatori si trasformerà in un’ossessione, come tutto ciò che sfugge dal suo radar propagandistico. Roberto Albores Guillén, Pablo Salazar Mendiguchía e Juan Sabines Guerrero, così come i servizi segreti federali, non lesinano risorse per controllarlo, intimidirlo, diffamarlo. I tentativi di cooptazione sono intensi e due ex direttori (Marina Patricia Jiménez e Diego Cadenas) si inseriscono nei governi statali, cosa che rafforza l’indipendenza del progetto collettivo come voce, accompagnatore, consulente, difensore legale di popoli e individui determinati a scuotersi dall’oppressione, l’abuso e l’umiliazione. http://www.jornada.unam.mx/2014/03/29/politica/013n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Venerdì 28 marzo 2014

In pericolo la CRAC-polizia comunitaria

Gilberto López y Rivas

La Coordinadora Regional de Autoridades Comunitarias (CRAC) e la sua polizia comunitaria, nello stato di Guerrero, costituiscono uno dei processi autonomistici più importanti del paese, in particolare per quanto riguarda le pratiche di giustizia e sicurezza, basate sulle assemblee comunitarie come massimi organi di autorità e decisione, e sui cosiddetti sistemi normativi, pluralismo giuridico di fatto, diritto tradizionale o costumi, propri di queste comunità indigene.

Il concetto indigeno di applicazione della giustizia si distingue notevolmente dai principi del diritto occidentale, imposto in tutte le nazioni della nostra America. Mentre il diritto positivo dà priorità alla difesa dei diritti individuali, il diritto indigeno daà priprità alla difesa dell’equilibrio sociale e dei valori comunitari. La funzione della giustizia indigena, al di là di emettere un giudizio e prima di imporre una decisione esterna, è mediare tra le parti per favorire la conciliazione. All’istruzione scritta del caso, i costumi preferiscono procedure che privilegiano il dialogo. All’applicazione universale della legge scritta, opta per l’applicazione flessibile di norme adattabili. Alle sanzioni economiche e coercitive (arresto e multe), antepone il criterio di riparazione, le manifestazioni di pentimento e le sanzioni morali, questo è la ri-educazione sociale dei trasgressori. In alcuni paesi europei, evoluzioni giudiziarie recenti, come l’istituzionalizzazione della mediazione come alternativa per ricorrere alla giustizia, o le pene sostitutive sotto forma di servizio sociale, riprendono forme di applicazione della giustizia che non sono mai state abbandonate tra le società indigene dell’America Latina.

Ugualmente, le comunità della Costa Chica di Guerrero e della zona della Sierra hanno deciso di creare propri strumenti di sicurezza e protezione di fronte all’incapacità delle istanze governative di provvedere in merito. All’inizio, 56 comunità riunite nella Coordinadora Regional de Autoridades Comunitarias misero in moto un programma di sicurezza interna chiamato Policía Comunitaria, incaricato di vigilare sui villaggi che fanno parte del coordinamento. Inoltre, prestano aiuto ad altre comunità che non rientrano nella loro zona di influenza. In questo modo le comunità hanno intrapreso la pratica autonomistica per dotarsi della sicurezza che le autorità statali e federali non hanno voluto né potuto garantire. La polizia comunitaria ha portato tranquillità semplicemente i suoi membri semplicemente vivono nei territori sotto controllo e prestano un servizio organizzato da loro stessi. Il suo funzionamento si basa sulla visione di prestare servizi comunitari che gli indigeni hanno nella loro organizzazione sociale e politica. Questa caratteristica culturale ha permesso di costruire spazi reali di autonomia che rispondano alle loro necessità e, soprattutto, che le risposte siano soddisfacenti. In larga misura, i risultati positivi della polizia comunitaria si devono alla concezione che hanno della giustizia e del pubblico servizio. Questa polizia non riceve alcun compenso e l’unica gratificazione offerta è il riconoscimento sociale. Alberga un sentimento più profondo della retribuzione in sé: quello della dignità. Le dichiarazioni dei suoi membri sono categorici, perché impartiscono giustizia, non vendono giustizia, dato che la comunitaria non combatte il governo né gli altri poteri, la polizia comunitaria combatte la criminalità.

La polizia comunitaria ha scoperto i grossi interessi oculti tra le forze dell’ordine ed il narcotraffico. Non è più una novità comprendere gli affari rappresentati dalla sicurezza pubblica per chi la controlla e per chi, come poliziotti o militari, riscuotono lo stipendio a carico del contribuente e si dedicano ad organizzare bande criminali. Proprio per questo la polizia comunitaria è stata attaccata violentemente dai governi federale e statale e dall’Esercito, a tal punto che diversi suoi membri sono attualmente in prigione per aver offerto un servizio nei propri villaggi. I poliziotti comunitari hanno affermato che l’impartizione della giustizia secondo i loro usi e costumi non è cosa dell’altro mondo: il fatto è che il governo non vuole riconoscere la capacità autonoma che i popoli indio hanno per risolvere le loro problematiche. Ancora una volta, i popoli indigeni di Guerrero, come in altre parti della Repubblica, hanno dimostrato che possono risolvere i propri problemi se si smette di perseguitarli e vessarli. L’autonomia in questa regione, come in molti altre, dimostra nei fatti che sono capaci di guidarsi sulla base delle proprie regole e dare risultati incoraggianti. Gli indigeni di Guerrero hanno imparato che l’Esercito ed i poliziotti federali e statali non sono lì nelle loro comunità per sradicare il narcotraffico e la criminalità, ma per impedire, scoraggiare e combattere l’enorme potenziale che loro hanno come individui autonomi. La forza pubblica federale e statale è nel loro territorio non per combattere il crimine, ma essenzialmente per attaccare le comunità e le sue forme di autonomia.

C’è inoltre un altro elemento di non poca importanza che alimenta la campagna governativa contro il CRAC, ed è l’interesse delle imprese del settore minerario a cielo aperto per estendere la loro radicale pratica predatrice in Guerrero, favorita dalle concessioni rilasciate in maniera servile dal Ministero dell’Economia in tutto il paese, perché proprio a questo si è opposta in maniera categorica questa organizzazione.

La CRAC-polizia comunitaria è stata oggetto di ogni tipo di attacco, compresi i rinnovati tentativi di ufficializzarla, la cooptazione di alcuni dei suoi fondatori e la corruzione di chi, dall’interno, può provocare un’implosione che distruggerebbe questa straordinaria esperienza di autonomia. Per questo, sono gli stessi popoli che la compongono che, in questi momenti di grave crisi fomentata dallo Stato, devono fare uno sforzo supremo affinché la CRAC-polizia comunitaria prevalga, nonostante i suoi potenti nemici. http://www.jornada.unam.mx/2014/03/28/politica/024a1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Martedì 25 marzo 2014

Ostula: autodifesa e disarmo

Luis Hernández Navarro

Lusso, raffinatezza e qualità sono le caratteristiche dei veicoli Rolls Royce. Gli interni di molti dei suoi modelli sono realizzati con sangualica, un legno prezioso, duro e pesante, noto anche come granadillo che cresce sulle coste di Michoacan. Per la sua qualità e colore viene usato anche per costruire yacht, bisturi e strumenti musicali.

Considerato in Messico albero in via di estinzione, inserito nella lista NOM-059-SEMARNAT-2010 delle specie protette, il suo elevato prezzo e la grande domanda del mercato asiatico hanno favorito il suo saccheggio e l’esportazione illegale. Nel luglio scorso la Procura Federale per la Protezione all’Ambiente ha bloccato in via precauzionale nel porto di Manzanillo due container con poco più di 39 metri cubi di questa materia prima forestale pronti a partire per la Cina.

Come in tante altre attività illecite perpetrate nei 25 chilometri della regione costiera del municipio di Aquila, nel disboscamento irrazionale della sangualica e la sua vendita in Cina è coinvolta l’industria dei templari. Non è il loro unico affare nella regione. Da lì partono, per la stessa destinazione, anche tonnellate e tonnellate di ferro. Da queste spiagge si approda e si parte dalle zone più impervie della Tierra Caliente. Sulle sue rive sbarcano lance con carichi di coca provenienti dalla Colombia. Nelle fattorie private costruite illegalmente su terreni comunali atterrano aerei da turismo Cessna che trasportano armi e droga.

Su queste coste si disputano palmo a palmo e vita a vita la terra, il territorio e le risorse naturali. Da un lato, i comuneros nahua di Ostula e 22 villaggi vicini; dall’altro, insieme o separati, i piccoli proprietari privati, la compagnia mineraria Ternium-Las Encinas SA (la seconda per importanza nazionale) e Los caballeros templarios.

Questa lotta si trascina da mezzo secolo. È iniziata quando nel 1964, dopo che le sue terre ancestrali erano state riconosciute da un decreto presidenziale, errori tecnici nei documenti hanno permesso ai piccoli proprietari di La Placita di invadere il territorio comunale e di frazionarlo. Quegli invasori oggi sono spesso membri o alleati del crimine organizzato della regione.

È nella cornice di questa resistenza sordida e silente contro l’esproprio e lo sfruttamento che i comuneros di Ostula gridarono il loro primo basta! nella regione, anticipando le lotte dei comuneros di Cherán ed i gruppi di autodifesa della Tierra Caliente. Il 13 e 14 giugno 2009 è stata promulgato in quelle terre il Manifiesto de Ostula. Approvato da popoli e comunità indigene di nove stati della Repubblica presenti con i loro delegati alla 25° assemblea della regione Pacifico-sud del Congresso Nazionale Indigeno, si è proclamato che gli indigeni hanno l’inalienabile diritto, derivato dall’articolo 39 della Costituzione, di organizzarsi e realizzare la difesa della propria vita, sicurezza, libertà e diritti fondamentali e della loro cultura e territori.

Il recupero delle loro terre e l’organizzazione della polizia comunitaria sono stati osteggiati a ferro e fuoco dal narcotraffico e dai cacicchi. In tre anni sono stati assassinati 32 comuneros e fatti sparire altri cinque. Il 6 dicembre 2011 è stato torturato ed assassinato il comunero J. Trinidad de la Cruz, Don Trino, dopo un’aggressione alla Carovana del Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità, malgrado a 500 metri si trovasse un posto di blocco della Marina.

La formazione ed espansione dei gruppi di autodifesa nella Tierra Caliente e la loro guerra contro los caballeros templarios hanno creato le condizioni affinché i comuneros di Ostula si riorganizzassero e recuperassero il loro territorio. Lo scorso 8 febbraio, un gruppo di esiliati è tornato nella propria comunità, con l’appoggio dei gruppi di autodifesa dei villaggi vicini di Chinicuila, Coahuayán e Coalcomán hanno tenuto un’assemblea e deciso di ricostituire la propria polizia comunitaria.

La polizia comunitaria si distingue dai gruppi di autodifesa perché è nominata e soggetta alle decisioni dell’assemblea comunale alla quale deve rispondere. Invece, la maggioranza dei gruppi di autodifesa si formano per libera associazione dei suoi membri, senza alcun rapporto con assemblee comunitarie, e senza ordinamenti concordati con essa. Le armi, i veicoli e le risorse di cui dispongono i nahua di Ostula sono molto più modesti e precari di quelli che possiedono i gruppi di autodifesa.

Nonostante il ruolo svolto dai poliziotti comunitari nella lotta contro i templari, lo scorso 19 marzo circa 40 soldati della Marina, agli ordini del comandante Alfredo Valdés de León, hanno disarmato 14 poliziotti comunitari che proteggevano il villaggio di La Placita, fino a poche settimane fa bastione della criminalità organizzata, capeggiata da Federico González Merino, alias Lico, e Mario Álvarez.

In risposta, il giorno dopo circa mille 500 abitanti del villaggio di Santa María Ostula e dei municipi di Aquila, Chinicuila e Coahuayana, insieme a 300 poliziotti comunitari e gruppi di autodifesa, hanno bloccato per due ore la strada 200 Manzanillo-Lázaro Cárdenas all’altezza della base della Marina nel villaggio di La Placita. Chiedono la restituzione delle armi sequestrate.

L’azione dei marins contro le guardie comunitarie di Ostula fa parte dell’offensiva del governo federale per disarmare e smobilitare i gruppi di autodifesa di Michoacán. Ma è anche un ulteriore passo nell’offensiva per colpire e disarticolare i settori più politicizzati della mobilitazione indigena e civica in Michoacán, quelli che lottano per diritti storici e che si scontrano contri grossi interessi, come quello rappresentato dalle compagnie minerarie multinazionali.

La comunità di Ostula ha pagato un’enorme quota di sangue per tentare di difendersi dal crimine organizzato e conservare ricchezze naturali sul punto di estinzione come gli alberi di sagualica. Disarmando le sue guardie comunitarie il governo federale la pone in una posizione di pericolosa vulnerabilità.

Twitter: @lhan55

http://www.jornada.unam.mx/2014/03/25/politica/017a1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Lunedì 24 marzo 2014

L’omicidio del dirigente zapatista è la prova che il governo vuole distruggerci, accusano

Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de las Casas, Chis., 23 marzo. Venerdì 21 aprile, alle 9 circa del mattino, il giovane tzeltal Juan Carlos Gómez Silvano è stato assassinato con più di 20 colpi d’arma da fuoco di grosso calibro mentre era alla guida del suo furgone all’altezza del crocevia di San José Chapapuyil, in direzione della comunità autonoma Virgen de Dolores, fondata nel 2010 su terre recuperate dai contadini aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona.

Juan Carlos, 22 anni, era coordinatore regionale della Sexta dell’ejido San Sebastián Bachajón e padre di un bimbo di sei mesi, raccontano oggi gli ejidatarios riuniti ad Ocosingo per sporgere denuncia. Sul luogo dei fatti erano giunti poliziotti municipali di Chilón e statali, a scattare foto e video senza rispetto per il defunto e la sua famiglia. Il Pubblico Ministero di Chilón voleva prelevare il corpo per effettuare l’autopsia, ma non l’abbiamo permesso perché questi sono i nostri costumi, e l’abbiamo portato a riposare nella comunità di Virgen de Dolores per gli onori funebri, hanno dichiarato gli indigeni.

Da quando hanno fondato nel 2010 le comunità di Nah Choj e Virgen de Dolores, la nostra organizzazione è stata perseguitata dall’Esercito e dalla polizia con minacce di sgombero per le pressioni di quelli che si dicono proprietari, tra loro un ex presidente municipale.

La strategia governativa è stata fomentare la divisione e comperare le coscienze di qualche ex compagno con le sue briciole, come ha fatto con Carmen Aguilar Gómez e suo figlio dello stesso nome, che si sono venduti a Noé Castañón León, segretario di Governo di Juan Sabines Guerrero, ed hanno organizzato lo sgombero del nostro botteghino di riscossione il 2 febbraio 2011 per strapparci le nostre terre in complicità con l’ex commissario ejidale Francisco Guzmán Jiménez.

Il governo, sostengono, vuole distruggerci assassinando i nostri compagni, come ha fatto con Juan Vázquez Guzmán il 24 aprile 2013, utilizzando i suoi sicari paramilitari che in completa impunità, ormai notte e giorno, sono capaci di assassinare vilmente i nostri compagni che lavorano e lottano per costruire un mondo nel quale stanno altri mondi. Gómez Silvano, a sua volta, aveva partecipato alla fondazione e costruzione dell’autonomia a Virgen de Dolores.

I veri delinquenti, assassini e corrotti sono i politici dei partiti che, nonostante siano arrivati dove stanno con la frode e comprando voti, si ritengono i padroni di quello che esiste sulle nostre terre, vogliono diventare sempre più ricchi e non gli importa quanti indigeni dovranno ammazzare per raggiungere il loro obiettivo.

I querelanti rilevano che l’attuale sindaco di Chilón, Leonardo Guirao Aguilar, del Partito Verde Ecologista, “è uno degli autori dell’esproprio delle nostre terre, perché ha finanziato l’acquisto di armi del gruppo che ha sgomberato i nostri compagni dal botteghino di riscossione nel febbraio del 2011”, all’ingresso delle cascate di Agua Azul.

L’organizzazione della Sexta ha avuto la dignità di continuare a lottare malgrado molti siano stati imprigionati o assassinati. Non abbiamo paura perché stiamo proseguendo il cammino dei nostri antenati che ci hanno dato la saggezza per leggere i segnali della vita e dei tempi; i malgoverni vanno e vengono, ma i popoli che resistono sono qui e lottano.

A poche settimane dal primo anniversario dell’assassinio di Vázquez Guzmán, aggiungono gli ejidatarios, il malgoverno manda i suoi assassini a colpire la comunità Virgen de Dolores, nata con molto lavoro e sacrificio, dove ora crescono milpas e frutti per dare da mangiare ai nostri bambini e bambine.

Gli ejidatarios della Sexta concludono che Manuel Velasco Coello ed Enrique Peña Nieto si sbagliano se pensano di farci fuori con la violenza e la repressione. http://www.jornada.unam.mx/2014/03/24/politica/018n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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La Jornada – Domenica 23 marzo 2014

Assassinato un giovane dirigente indigeno a Chilón, Chiapas

Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de las Casas, Chis. 22 marzo. Juan Carlos Gómez Silvano, aderente alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona del municipio di Chilón, è stato assassinato nei pressi della località stessa. Secondo testimonianze raccolte da La Jornada, l’indigeno è stato colpito da 20 colpi d’arma da fuoco.

Koman Ilel, media alternativo di questa città, segnala che Gómez Silvano, contadino tzeltal di 21 anni, partecipava alla costruzione dell’autonomia nella terra recuperata del podere Virgen de Dolores ed era coordinatore regionale della Sesta Dichiarazione, lanciata dall’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN). La sua comunità è organizzata in resistenza con l’ejido San Sebastián Bachajón.

Secondo la stampa locale, Gómez Silvano sembra viaggiasse solo, su un furgoncino Nissan. Il suo corpo è stato trovato sulla strada per Chapapujil, vicino a Chilón. Secondo versioni ufficiose delle autorità giudiziarie dello stato, sul luogo era giunto l’agente del Pubblico Ministero, Octavio Bautista Martínez, per prelevare il corpo del giovane dirigente indigeno, ma un folto gruppo di incappucciati lo avrebbe portato via per dargli sepoltura.

Da parte sua, Koman Ilel ricorda che meno di un anno fa è stato giustiziato, sempre a Chilón, Juan Vázquez Guzmán, dirigente della Sexta di San Sebastián Bachajón. Perché li uccidono?, si domanda l’organo d’informazione, e racconta che l’ejido di San Sebastián Bachajón da anni è in lotta contro l’esproprio delle sue terre.

Segnala che diversi attori, tra i quali i governi municipale, statale e federale; multinazionali (Norton Consulting) e gruppi paramilitari mettono in atto strategie legali e illegali per realizzare uno dei progetti più ambiziosi della regione, parte del Plan Puebla-Panama: il Centro Integralmente Planeado Palenque, una rete di infrastrutture e servizi che vuole unire attrattive naturali ed archeologiche per un turismo di élite, trasformando la popolazione indigena in servi, nelle proprie comunità.

Una delle strategie governative per assicurare il controllo del territorio, aggiunge l’informazione di Koman Ilel, è stata la cooptazioneo intimidazione delle autorità ejidales, come la persecuzione giudiziaria e gli omicidi selettivi di coloro che si oppongono ad essere defraudati, come nel caso dei compagni Juan Carlos Gómez Silvano e Juan Vázquez Guzmán.

Chilón attualmente è governata, come il Chiapas stesso, dal Partito Verde Ecologista del Messico. Le autorità sono state complici o negligenti delle aggressioni subite sistematicamente dagli ejidatarios in resistenza. Il sindaco Rafael Guirao Aguilar presiede, inoltre, l’ente statale Fundación Chiapas Verde, che sostiene il suo correligionario, il governatore Manuel Velasco Coello.

http://www.jornada.unam.mx/2014/03/23/politica/017n1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

 

 

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Los de Abajo

Il Frayba: 25 anni

Gloria Muñoz Ramírez

Il Messico sarebbe ancor più senza difese senza organismi come il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas, meglio conosciuto come Frayba, che compie 25 anni difendendo radicalmente le sue posizioni e dichiarandosi, senza indugi, dalla parte dei poveri, esclusi ed organizzati.

Il Frayba arriva a questa data col vescovo Raúl Vera alla guida, in un paese che l’ha visto nascere nel 1989 e che, per sua stessa ammissione, non è più lo stesso, dove alla violenza e minacce dei paramilitari in Chiapas, e prima delle guardie bianche dei grandi finqueros, si somma ora l’esproprio dei territori per saccheggiarne le risorse naturali, come i minerali.

Anche il Chiapas non è lo stesso. L’abbandono, lo scherno e la violenza subiti dai popoli indigeni dell’entità ebbe un forte impatto fino a qui nei territori organizzati dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN), dove niente è più come prima. Lo Ya Basta zapatista è esploso al centro di quello che il Frayba denunciava.

Si deve comunque riconoscere che il lavoro del Frayba, lungi dal concludersi, aumenta, insieme alla violenza istituzionale e paramilitare. Oggi, come ieri, il centro creato su iniziativa del vescovo Samuel Ruiz, contribuisce alla costruzione di una società con pieni diritti per tutti. Questo è l’obiettivo.

Benché il governo dello stato gli neghi interlocuzione (mentre avvicina ex collaboratori del centro che ora occultano istituzionalmente quello che in altri tempi denunciavano), il Frayba rivela gli oltraggi di cui sono vittime i popoli maya. Il più recente, per esempio, l’esilio forzato degli abitanti dell’ejido Puebla, in Chenalhó, costretti a fuggire dalle loro case a causa del ritorno degli assassini di Acteal, liberati dalla Corte Suprema di Giustizia della Nazione. O l’esproprio agli ejidatarios di Bachajón, perseguiti ed assassinati per strappare loro le terre.

Don Raúl Vera dice che le principali sfide per i diritti umani in Chiapas sono l’autonomia e la pace, che sono legati al compimento degli accordi di San Andrés, gli stessi che il governo firmò con l’EZLN per poi tradirli. Le comunità zapatiste li hanno messi in pratica nelle loro comunità, ma in altre continuano ad essere la meta da raggiungere per difendere i propri territori.

Uno dei maggiori successi del Frayba, segnala il vescovo di Saltillo, è che il centro non lavora più per le comunità, ma appartiene loro. Per questo e per molte altre cose, la celebrazione del Frayba è la celebrazione dei popoli in basso.

www.desinformemonos.org

losylasdeabajo@yahoo.com.mx

http://www.jornada.unam.mx/2014/03/22/opinion/015o1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas
http://www.frayba.org.mx/archivo/boletines/140312_boletin_08_ejido_puebla.pdf

 Persiste la violenza contro gli sfollati dell’ejido Puebla

Incendiata la casa di una famiglia di sfollati 

Secondo informazione raccolte dal Centro dei Diritti Umani, Fray Bartolomé de Las Casas (Frayba), oggi, nell’ejido Puebla, Chenalhó, intorno alle ore 01:30, è stata incendiata la casa della famiglia di Normelina Hernández López e Macario Arias Gómez – profighi dal 23 agosto 2013 insieme ad altre 17 famiglie, in totali 100 persone, chi si trovano nella comunità di Acteal, Chenalhó -. Alcuni giorni prima, il 7 marzo 2014, alle ore 06:30, José Cruz Gómez aveva trovato incendiata la porta del salone di catechesi. Bisogna sottolineare che questi fatti sono avvenuti nonostante la presenza di circa 30 elementi della Polizia Statale Preventiva che non si sono accorti dell’accaduto.

Per quanto accaduto, questo Centro dei Diritti Umani esprime la sua preoccupazione per la persistenza del clima di violenza e per la situazione di rischio nella quale si trovano forzatamente le famiglie sfollate. Di fronte alla gravità degli ultimi avvenimenti, il loro ritorno risulta ancora più difficile.

Della situazione riteniamo responsabili per omissione le autorità di governo che, invece di applicare giustizia, mantengono e permettono l’impunità che genera tensione e violenza.1

Per citare alcuni esempi di impunità: il 20 luglio 2013, le stesse autorità dell’ejido Puebla avevano fermato arbitrariamente due Basi di Appoggio dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale: Mariano Méndez Méndez e Luciano Méndez Hernández ed un’altra persona dell’ejido: Juan López Méndez, con la falsa accusa di avere avvelenato l’acqua della comunità;2il 21 agosto 2013, Manuel Pérez Gómez, parroco di Chenalhó, è stato privato arbitrariamente della libertà per sette ore e mezza;3ed il 21 agosto 2013, per il livello di violenza raggiunto, sono forzatamente sfollate 17 famiglie.4

Come Frayba abbiamo manifestato, in maniera reiterata, la nostra preoccupazione per la mancanza di accesso alla giustizia che provoca l’aumento della violenza e lo stato di profughi delle 100 persone. Tutto questo significa la violazione continuata dei diritti: all’integrità personale, alla libertà di transito, di residenza ed alla casa, stabiliti in strumenti riconosciuti universalmente, vistati e ratificati dallo Stato messicano, tra i quali: la Convenzione Americana sui Diritti Umani agli articoli 5°, 22°; ed il Patto Internazionale dei Diritti Economici, Sociali e Culturali all’articolo 11°, paragrafo primo, oltre alla mancata applicazione dei Principi che regolano i profughi interni.

Precedente:

Il 26 febbraio 2014, nell’ejido Puebla, Eduardo Ramírez Aguilar, Segretario Generale di Governo e Victor Hugo Sánchez Zebadúa, Sottosegretario per gli Affari Religiosi, hanno consegnato ufficialmente la proprietà dell’eremo cattolico alla Diocesi di San Cristóbal de Las Casas; a questa cerimonia era presente Agustín Cruz Gómez, Commissario Ejidale, quale rappresentante legale dell’ejido Puebla.

Inizio dei fatti:

Il 7 aprile 2013, nell’ejido Puebla, Chenalhó, 32 famiglie cattoliche iniziavano i lavori di ristrutturazione e ricostruzione del nuovo eremo, perché il vecchio era in pessimo stato e rappresentava un pericolo per la popolazione. Da quel giorno sono iniziati una serie di aggressioni fisiche, detenzioni arbitrarie, trattamenti crudeli, inumani e degradanti, distruzioni, furti e sgomberi forzati contro 17 famiglie.

 

1 Impunidad ante desplazamiento forzado de 98 personas del ejido Puebla, disponible en: http://frayba.org.mx/archivo/boletines/131017_pronunciamiento_puebla.doc.pdf

2Escala la violencia en el ejido Puebla, disponible en: http://frayba.org.mx/archivo/acciones_urgentes/130720_au_02_ejido_puebla.pdf; http://frayba.org.mx/archivo/acciones_urgentes/130721_act_au_02_puebla.pdf

3Liberan bajo presión al párroco de Chenalhó Manuel Pérez Gómez, disponible en: http://frayba.org.mx/archivo/boletines/130823_boletin_22_ejido_puebla.pdf

4 Desplazamiento forzado de 70 personas del ejido Puebla, disponible en: http://frayba.org.mx/archivo/acciones_urgentes/130823_au_04_desplazados_chenalho.pdf

Queman casa de familia desplazada del ejido Puebla http://chiapasdenuncia.blogspot.mx/2014/03/denuncian-quema-de-casa-de-familia.html

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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Gli USA, il Messico e la cattura del Chapo Guzmán

di Fabrizio Lorusso

chapo vote forIl capo dei capi dei narcos messicani, Joaquín Guzmán Loera, alias El Chapo, è stato arrestato da un gruppo scelto di militari della marina all’alba di sabato 22 febbraio mentre dormiva in un hotel di Mazatlán, località marittima della costa pacifica. L’operazione, realizzata in collaborazione con l’agenzia americana DEA (Drug  Enforcement Administration), è stata pulita, nessun colpo è stato sparato per catturare il re della droga messicano che è a capo dell’organizzazione più potente delle Americhe e probabilmente del mondo, il cartello di Sinaloa o del Pacifico. Ora il boss è rinchiuso nel penitenziario di massima sicurezza di Almoloya de Juárez, a un’ottantina di chilometri da Mexico City. Il potere e la fama del Chapo hanno superato persino quelle del mitico capo colombiano degli anni ottanta, Pablo Escobar, capo del cartello di Medellin ucciso nel 1993, per cui senza dubbio la sua cattura rappresenta un grosso colpo mediatico dall’alto valore simbolico. Ma le questioni aperte sono tante.

Il lavoro d’intelligence per scovare il boss, ricercato numero uno della DEA, è cominciato nell’ottobre 2013, quando le autorità americane e la marina messicana sono venute a sapere che il Chapo s’era stabilito a Culiacán, capitale dello stato nordoccidentale del Sinaloa, ma solo nel febbraio 2014 i rastrellamenti, i sorvolamenti e i controlli si sono intensificati in diverse zone dello stato. Di fatto la stampa speculava sulla possibilità che venisse preso il numero due dell’organizzazione, “El Mayo” Zambada, e non Guzmán. I capi d’accusa contro di lui sono vari: delitti contro la salute e narcotraffico, delinquenza organizzata, evasione (di prigione).

El Chapo era latitante dal 2001, quando scappò, o meglio fu lasciato uscire impunemente, dal penitenziario di massima sicurezza di Puente Grande, nello stato del Jalisco, in cui faceva la bella vita e controllava tutto e tutti con laute mazzette in dollari americani. Classe 1957 (ma alcune fonti indicano il 1954 come anno di nascita) e originario di Badiraguato, la “Corleone messicana” dello stato di Sinaloa, Joaquín Guzmán comincia a coltivare e trafficare marijuana sin da giovane, quindi negli anni settanta e ottanta si unisce al gruppo fondato dai boss Ernesto Fonseca Carillo “don Neto”, Rafael Caro Quintero e Miguel Ángel Félix Gallardo, el jefe de jefes, cioè il capo del cartello di Guadalajara o Federación. Nel 1989 Gallardo viene arrestato e il suo impero spartito tra alcuni fedelissimi come i fratelli Arellano Félix, che prendono Tijuana, il “Señor de los cielos” Amado Carrillo, che si tiene Ciudad Juárez, e il Chapo che resta nel Sinaloa.

Negli anni novanta, El Chapo sconta una condanna per l’omicidio del cardinale Juan Jesún Posadas Ocampo, commesso a Guadalajara nel 1993, ma la sua “carriera” non può finire in una cella. La versione ufficiale, secondo la quale il boss sarebbe evaso con una mossa astuta, semplicemente nascondendosi in un carrello della lavanderia e facendosi portare fuori, apparve inverosimile fin da principio, ma ebbe il merito di dare inizio alla sua leggenda. Versioni giornalistiche più attente e realiste, come quelle fornite da Anabel Hernandez, autrice de “Los señores del narco”, parlano invece di una totale connivenza delle autorità carcerarie, che erano praticamente sul libro paga di Guzmán, e di possibili implicazioni anche del governo conservatore di Vicente Fox e del suo partito, il PAN (Partido Accion Nacional).

chapo_guzman_detenidoDopo la fuga Guzmán riorganizza gli affari dell’organizzazione criminale, che negli anni settanta e ottanta era nota come La Federación o Cartello di Guadalajara, e la trasforma in una multinazionale della droga, il cartello di Sinaloa o del Pacifico. Introvabile e inarrestabile, El Chapo diventa un fantasma che controlla traffici in tutto il Messico occidentale e centrale, negli Stati Uniti e poi in Europa, grazie ai porti e agli scali sudamericani e africani. Dopo la morte di Bin Laden diventa il ricercato numero uno degli USA, ma il mito del Chapo cresce ancor più quando entra nella lista della rivista Forbes dei 500 uomini più ricchi e influenti della Terra, avendo superato un patrimonio stimato di un miliardo di dollari, condicio sine qua non per figurare nella famosa lista.

Proprio nei due sessenni in cui ha governato il PAN, con Fox e il suo successore Felipe Calderón, il cartello di Sinaloa s’è espanso e s’è stabilito come egemonico a livello nazionale, malgrado le dichiarazioni di guerra che arrivavano da Los Pinos, residenza del presidente messicano. Oggi l’organizzazione di Sinaloa è globale, presente in almeno tre continenti, e rifornisce di cocaina, marijuana e metanfetamine i mercati più grandi del mondo: gli USA e l’Europa, ma anche l’Oceania e l’America del Sud. Inoltre è presente in almeno 54 paesi con imprese legali.

Alcuni quotidiani, un po’ in tutto il mondo, hanno descritto il leader di Sinaloa come il responsabile principale della guerra al narcotraffico e degli oltre 80mila morti e 27mila desaparecidos registrati nel periodo più cruento, corrispondente alla gestione di Calderón (2006-2012). E’ un’operazione mediatica che ingigantisce la portata e le conseguenze dell’arresto e, in qualche modo, cerca di chiudere idealmente un capitolo, quella della narcoguerra, per aprirne un altro, quello dei successi dell’attuale presidente, Enrique Peña Nieto, che secondo il Time sta “salvando il Messico”.

Invece ci sono intere regioni, come Michoacán, fuori controllo e la guerra continua tuttora: i morti legati al conflitto nel 2013 sono stati stimati in circa 17mila. La violenza non può certo essere attribuita a un unico “operatore” o alla spietatezza di una banda. Esistono al contrario molteplici cause e fattori (sociali, storici, economici, politici) che la spiegano, tra i quali bisogna menzionare la strategia di lotta ai narcos adottata da Calderón, e per ora seguita da Peña Nieto, che consiste in una militarizzazione massiccia del territorio, non accompagnata da una politica adeguata contro il malessere sociale ed economico e l’assenza istituzionale che stanno alla base di una tragedia umanitaria senza precedenti nel paese.

Ma queste realtà, “indegne” di un paese “emergente” che sta ripulendo la sua immagine e si presenta come nuovo “global player”, sembrano essere sparite dai mass media, soprattutto fuori dal Messico, grazie a un’offensiva mediatica e diplomatica che vede in prima linea il governo messicano e le sue ambasciate e consolati nel mondo. Insomma non si parla più della narcoguerra, ma solo delle riforme strutturali che, secondo la narrativa ufficiale, in un anno avrebbero modernizzato il paese e attireranno investimenti e prosperità. Intanto le teste mozzate continuano a rotolare per le strade, lasciando dietro di sé strisce di sangue pulite alla meglio da un esercito di spazzini e scribacchini.

Il più grande mercato del mondo, gli Stati Uniti, spartisce 3000 km di frontiera col Messico che è un paese di transito per le droghe sintetiche, come metanfetamine e allucinogeni, e per la cocaina colombiana, peruviana e boliviana. Ma è anche un territorio di produzione di marijuana e papavero da oppio, da cui si ricavano la morfina e l’eroina. Questi “vantaggi competitivi”, la connivenza delle autorità a vari livelli e la storica debolezza istituzionale del Messico hanno da sempre costituito un terreno fertile per la proliferazione delle imprese criminali, foraggiate già negli anni trenta e quaranta del novecento dalla domanda militare statunitense e dalla relativa tolleranza sia dei governi messicani, statali-regionali e nazionali, sia degli USA, bisognosi di sostanze proibite in patria.

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In seguito le pressioni nordamericane contro la produzione e il commercio di stupefacenti si fecero più serie e negli anni settanta e ottanta, in particolare durante le amministrazioni di Ronald “Rambo” Reagan, la “war on drugs” s’affermò come retorica e politica di stato degli Stati Uniti verso l’America Latina, Colombia e paesi andini in testa. Il Messico non era escluso dall’interessamento americano e la DEA è sempre stata presente nel paese.

E così anche la CIA che, per combattere il regime rivoluzionario dei sandinisti in Nicaragua, non esitò a stipulare accordi con Félix Gallardo e la Federación, il progenitore del cartello di Sinaloa, grazie ai quali poteva ricavare dalla vendita della cocaina e della marijuana i fondi necessari per le armi delle Contras, le bande paramilitari e antinsurrezionali che operavano contro il regime nicaraguense partendo dal territorio honduregno. Le ricerche sul coinvolgimento della CIA e della DFS messicana (Dirección Federal de Seguridad, poi trasformata in AFI, Agencia Federal de Investigaciones, e oggi in PM, Policia Ministerial) coi narcos sono state riconfermate dalle rivelazioni, riportate dalla rivista Proceso alla fine del 2013, di ex agenti della DEA che lavoravano in Messico negli anni ottanta e vengono a chiarire almeno un po’ un quadro fosco e inquietante, rappresentato perfettamente dallo scrittore Don Winslow ne “Il potere del cane”: al noto scandalo Iran-Contras si aggiunge quindi quello Narcos-Contras.

L’operazione della marina armata messicana, ma soprattutto il lavoro d’intelligence previo, che ha portato all’arresto del Chapo Guzmán non ha coinvolto integralmente la procura o altri corpi della polizia e dell’esercito per un motivo preciso: la corruzione interna a questi organi e la filtrazione costante di notizie e informazioni riservate che compromettono le investigazioni.

Infatti, aldilà dell’impatto simbolico dell’arresto che probabilmente permetterà a Peña Nieto di prolungare ancora un po’ la sua “luna di miele” con gli elettori, la giornalista Anabel Hernández ha giustamente segnalato come la lotta ai narcos non sia affatto finita e non finirà presto perché il governo non sta toccando il sistema di corruzioni e connivenze che coinvolge politici, giudici, amministratori locali, prelati, burocrati, poliziotti, militari e alte sfere del governo e che ha permesso ai cartelli messicani di diventare quello sono durante decenni.

Inoltre non vengono toccati nemmeno i patrimoni personali dei capi, in Messico e all’estero, e tantomeno le migliaia di imprese legali attribuibili ai leader dell’organizzazione in tutto il mondo. Infine la successione è pronta, come suole accadere. Il cartello era ed è già gestito, in alcune sue diramazioni o “divisioni aziendali”, da diverse figure chiave riconosciute come Ismael “El Mayo” Zambada García e José Esparragoza Moreno, alias El Azul, due membri della vecchia guardia.

L’anno scorso era stata annunciata e celebrata in pompa magna la cattura del capo degli Zetas, il cartello nazionale più importante dopo Sinaloa, ma fondamentalmente le considerazioni e le critiche al trionfalismo andavano nella stessa direzione: continua la corruzione politica, non si attacca il riciclaggio del denaro sporco, né i beni dei boss, e la successione al vertice non sempre è un problema per l’organizzazione. Nel caso degli Zetas un vero e proprio vertice nemmeno esiste, ma si tratta di cellule, reti e alleanze locali collegate tra loro.

In questo senso ignorare le cause strutturali del fenomeno è controproducente così come lo è procrastinare un serio dibattito sulla depenalizzazione e regolazione della produzione, consumo e vendita delle droghe leggere e pesanti. Con l’Uruguay e due stati degli USA, il Colorado e Washington, che hanno legalizzato l’uso ricreativo della marijuana, sarebbe il minimo. Il colpo mediatico di un arresto importante è facile, ma deve essere seguito dall’implementazione di una serie di controlli per riempire i vuoti di potere che in molti stati messicani sono la regola.

chapo-guzman-illustration-story-bodyEdgardo Buscaglia, accademico autore del saggio “Vuoti di potere in Messico”, parla di quattro tipi di controlli che mancano in Messico e senza i quali non è possibile combattere la delinquenza organizzata: giudiziari, patrimoniali, della corruzione e sociali, pensati sia a livello nazionale che internazionale. La costruzione iconica del Chapo Guzmán come “capo dei capi”, sul podio della storia criminale insieme ad Al Capone e Pablo Escobar, si chiude ora con la fine del suo regno, ma non dei suoi affari, e con la richiesta di estradizione che presto arriverà dagli USA. Ma il Messico vuole prima processare il suo capo che, secondo alcuni, potrebbe anche diventare un collaboratore di giustizia e scoperchiare il vaso di Pandora.

L’ex direttore dell’intelligence della DEA, Phil Jordan, sabato scorso sul canale latino statunitense UniVision, ha dato al mondo un assaggio del tipo di rivelazioni che probabilmente un boss mafioso del calibro del Chapo potrebbe fornire in gran quantità. Jordan s’è detto stupito dell’arresto del capo che si sarebbe “lasciato andare”, sicuro di un patto che gli garantiva protezione e che, sorprendentemente, si sarebbe rotto in questi ultimi giorni. Inoltre ha parlato di informazioni d’intelligence che confermerebbero un coinvolgimento diretto del cartello di Sinaloa in politica, di finanziamenti alla campagna elettorale del presidente Peña Nieto, insomma di un’alleanza tra parti del mondo politico messicano e i mafiosi di Sinaloa. Non è un’ipotesi nuova, ma ad ogni conferma, per ogni tassello del puzzle che si incastra, l’idea diventa sempre più realistica e credibile.

La pronta e simultanea smentita della DEA, dell’ambasciata americana e del governo messicano, attraverso il portavoce presidenziale Edoardo Sánchez, non serve a dissipare i sospetti. Evidentemente nessuno dei suddetti ha interesse a che si alzi un polverone politico-giudiziario che potrebbe rivelare al mondo trenta o quarant’anni di losche storie e “collaborazioni” da entrambi i lati della frontiera, oltreché l’ipocrisia di fondo della guerra alle droghe. I soldi in ballo sono troppi. Già ho menzionato le imprese legali, che sono migliaia, controllate dal cartello di Sinaloa in oltre 50 paesi, ma ci sono anche i capitali e gli investimenti finanziari depositati nelle banche americane.

Il 26 febbraio nel programma radio della giornalista Carmen Aristegui su MVS noticias Jordan ha rincarato la dose dicendo che “la verità a volte fa male” e che quando Caro Quintero, boss in prigione da trent’anni, è stato lasciato uscire nel 2013 in seguito all’ordine di un giudice, è sicuro che il PRI (Partido Revolucionario Institucional, al governo) lo sapeva, era ovvio. Per questo, secondo Jordan, “i cartelli hanno dato sempre del denaro ai politici per essere lasciati liberi di trafficare” e in passato il PRI “è sempre stato in buone relazioni coi trafficanti”, come confermato da documenti, testimoni e ricerche negli USA. “Il cartello di Sinaloa non è diverso da altri cartelli e ha messo soldi nella campagna del PRI, non dico direttamente a Peña Nieto”, ha dichiarato l’ex DEA che ha anche ribadito come “la corruzione c’è tanto in Messico come negli USA”.

“Spero che Peña non sia così coinvolto come i presidenti del passato, ma ciò che dico è che in passato il PRI stava nello stesso letto coi cartelli della droga”. Jordan ha fatto alcuni nomi di ex presidenti: Carlos Salinas de Gortari (1988-1994), suo fratello Raul, e Luis Echeverría (1970-1976), ma la lista potrebbe allungarsi. Lo stesso Chapo Guzmán era un sicario al soldo di Caro Quintero e degli altri capi negli anni 80. Quest’ultimo sarebbe stato rilasciato, secondo Jordan, in seguito al versamento di ingenti somme di denaro che avrebbero oliato il sistema politico e giudiziario, siglando un accordo, più o meno esplicito, con il crimine organizzato. Era impossibile, infatti, che Peña Nieto non sapesse che il boss Caro Quintero sarebbe stato rilasciato e non ha fatto nulla per impedirlo. Jordan ha lanciato l’ipotesi secondo cui se Guzmán resta in Messico, potrebbe prima o poi essere rilasciato, o lasciato fuggire, come Quintero. Il governo messicano nega categoricamente e definisce le dichiarazioni dell’americano come delle “sparate” non supportate da prove. Dunque la questione rimane aperta, irrisolta.

In un’intervista al giornalista Julio Schrerer García del 2010 il braccio destro del Chapo, “El Mayo” Zambada, aveva dichiarato: “Si me atrapan o me matan, nada cambia”, “Se mi prendono o mi ammazzano, nulla cambia”. Possiamo credergli.

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La Jornada – Giovedì 6 marzo 2014

Il commissario ejidale di Bachajón inganna gli indigeni tzeltal per sottrarre le loro terre

Hermann Bellinghausen

Ejidatari tzeltal di San Sebastián Bachajón, a Chilón, Chiapas, aderenti alla Sesta Dichiarazione della selva Lacandona, denunciano manovre illegali del commissario filogovernativo per formalizzare la sottrazione di terre ejidali a scopo turistico, contro cui gli ejidatari stanno lottando da anni.

Gli indigeni segnalano che il commissario filogovernativo, Alejandro Moreno Gómez, continua ad ingannare con false promesse la gente del villaggio di San Sebastián Bachajón, perché chiede loro di firmare copie di certificati di diritti agrari in cambio di briciole, dicendo che da governo otterrà progetto per coltivare caffè, ma è una bugia, perché sta raccogliendo firme e documenti per simulare dei verbali di assemblea di ejidatari e chiedere al tribunale settimo di distretto, di Tuxtla Gutiérrez, la cancellazione del nostro ricorso 274/2011, pendente da 3 anni proprio questo 3 marzo, e che il malgoverno non ha potuto ignorare grazie all’organizzazione dal nostro popolo.

Moreno Gómez ed il consigliere Samuel Díaz Guzmán vogliono costruire un verbale di assemblea generale, ma non è vero, perché lo stanno facendo di nascosto, alle spalle del villaggio, come veri delinquenti, aggiungono gli ejidatari della Sexta.

La nostra organizzazione non permetterà che le autorità ejidali filogovernative continuino a derubare il nostro villaggio insieme al malgoverno. Dal 2007 il malgoverno interviene nella vita interna della nostra comunità per imporre rappresentanti ejidali che fanno da cani da uardia per proteggere gli interessi capitalisti e non quelli del loro popolo indigeno. Segnalano che Moreno Gómez non conosce il suo popolo, perché ha vissuto fuori molto tempo, gli interessa solo riempirsi le tasche di soldi, per questo al malgoverno conviene tenere questo commissario, perché può manipolarlo a suo piacimento e per questo l’ha imposto.

Gli ejidatari informano che il 5 febbraio scorso hanno impugnato i verbali di assemblea di elezione degli organi rappresentativi ejidali, datati 18 aprile 2013, nei quali Moreno Gómez era stato imposto da rappresentanti del governo del Chiapas e dalla Procura Agraria di Ocosingo. Esistono irregolarità, come la falsificazione di firme e la mancanza di requisiti secondo la legge agraria, oltre alla mancanza dei bilanci del precedente commissario ejidale Francisco Guzmán Jiménez (alias Goyito).

Gli indigeni della Sexta concludono: Questi falsi rappresentanti sono complici del malgoverno, derubano il proprio popolo e vogliono reprimere la nostra organizzazione con la prigione e la morte. Non lo dicono in senso figurato. Molti di loro sono stati imprigionati (gli ultimi due sono usciti di prigione meno di tre mesi fa). Nell’aprile scorso, Juan Vázquez Guzmán, leader della resistenza, è stato assassinato sulla porta di casa a Bachajón; il crimine rimane impune, e le autorità giudiziarie non fingono nemmeno di indagare sul caso.

http://www.jornada.unam.mx/2014/03/06/politica/021n1pol

Denuncia dell’ejido San Sebastian Bachajón

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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06/03/2014

Filosofo delle cause sociali

Addio a Luis Villoro

Villoro

 

 

 

Luis Villoro Toranzo il 4 gennaio 2009 riceve dalle bimbe Lupita e Toñita il riconoscimento dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, in occasione del primo Festival Mondiale della Digna Rabia, celebrato a San Cristóbal de Las Casas, Chiapas Foto Moysés Zúñiga Santiago

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La Jornada – Domenica 2 marzo 2014

Appare Rebeldía Zapatista, pubblicazione per far conoscere la parola dell’EZLN

Hermann Bellinghausen

L’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha presentato la sua nuova pubblicazione, Rebeldía Zapatista, diretta dal subcomandante Moisés. Sarà un mezzo, si annuncia, per far conoscere la parola dell’EZLN.

Da ormai 30 anni stiamo lavorando per vivere meglio, è sotto gli occhi del popolo del Messico e del mondo. Umile ma sanamente deciso dalle comunità di decine di migliaia di donne e uomini, come vogliamo governarci autonomamente, spiega il comandante zapatista nell’editoriale del primo numero.

Niente nasconde ciò che stiamo facendo, che perseguiamo, che vogliamo, è sotto gli occhi di tutti. Non è uguale a quello che fanno i malgoverni, cioè i tre cattivi poteri, il sistema capitalista tutto a costo del popolo. Condividiamo con i compagni e le compagne del Messico e del mondo il nostro umile pensiero di un mondo nuovo che sognano e vogliamo.

Nel suo primo numero, Rebeldía Zapatista illustra le testimonianze di decine di guardiani dei cinque caracol ribelli che hanno partecipato ai tre turni della Escuelita Zapatista svolti fino ad ora.

Le zapatiste e gli zapatisti, ribelli nella nostra patria messicana perché minacciati di distruzione insieme alla nostra madre terra, sotto il suolo e sopra il nostro suolo, dalle cattive persone ricche e dai malgoverni che vogliono trasformare in merce tutto quello che vedono, che si chiamano capitalisti neoliberali. Vogliono essere padroni di tutto, scrive Moisés.

Sono distruttori, assassini, criminali, violentatori. Sono crudeli, inumani, torturatori, rapitori, sono corrotti e tutto quello che si può pensare di male, loro sono così, non pensano all’umanità. Sono inumani. Tra loro, alcuni decidono come dominare i popoli che si lasciano dominare, hanno trasformato in loro proprietà i paesi sottosviluppati, hanno designato i loro capoccia nei cosiddetti governi capitalisti sottosviluppati di ogni paese. Nel nostro, segnala, ci sono il presidente Enrique Peña Nieto ed il governatore del Chiapas Manuel Velasco Coello.

In questa lotta e queste pagine, sottolinea il subcomandante Moisés, si tratta di libertà e di costruzione di un mondo nuovo diverso da quello imposto dai capitalisti neoliberali. E quindi è il popolo che si esprime, cioè direttamente la base del popolo, non solo i suoi rappresentanti.

Una parte del numero inaugurale di Rebeldía Zapatista pubblica espressioni e messaggi di ribelli, in questo numero anarchici, che non sono indigeni e dicono ciò che pensano e come vedono questo sistema che vuole distruggere il pianeta terra.

Innanzitutto nella rivista, prevede l’EZLN, cominceranno ad essere scritte le parole ed i pensieri delle nostre compagne e compagni basi di appoggio zapatiste, famiglie, guardiane e guardiani, maestre e maestri della escuelita. Nei primi numeri appariranno “le valutazioni di maestri, votanes, famiglie e coordinatori della escuelita nelle zone dei cinque caracol“. http://www.jornada.unam.mx/2014/03/02/politica/013n1pol

Testo completo del subcomandante Moisés – Traduzione in italiano del testo del subcomandante Moisés

Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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Editoriale. Rebeldía Zapatista, la parola dell’EZLN

Noi ribelli zapatisti, insieme alla nostra madre terra, siamo minacciati di distruzione nella nostra Patria messicana. Sia sopra che sotto la superficie della terra, i malgoverni ed i cattivi ricchi, tutti i capitalisti neoliberali, vogliono mercificare tutto quello che vedono.

Vogliono possedere tutto.

Sono distruttivi, sono assassini, criminali, stupratori. Sono crudeli e disumani, torturano e fano sparire le persone e sono corrotti. Sono ogni cosa brutta che si possa immaginare, non si preoccupano per l’umanità. Infatti, loro sono inumani.

Sono pochi, ma decidono tutto ciò che riguarda il modo in cui domineranno i paesi che si lasciano dominare. Hanno fatto dei paesi sottosviluppati i loro poderi, e trasformato i cosiddetti governi capitalisti sottosviluppati di questi paesi, nei loro sorveglianti

Questo è quanto è successo in Messico. Le corporazioni transnazionali neoliberiste sono i padroni, il loro podere si chiama Messico, il sorvegliante attuale si chiama Enrique Peña Nieto, gli amministratori sono Manuel Velasco in Chiapas e gli altri cosiddetti governatori statali, ed i mal nominati “presidenti” comunali sono i capoccia.

Questo è il motivo per cui ci siamo sollevati contro questo sistema all’alba del 1° gennaio 1994.

Per 30 anni abbiamo costruito quello che noi pensiamo sia un modo migliore di vivere, e quello che abbiamo costruito è sotto gli occhi del popolo del Messico e del mondo. È umile ma sanamente determinato da decine di migliaia di uomini e donne che decidono insieme come vogliamo governarci autonomamente.

Niente nasconde quello che facciamo, quello che vogliamo, quello che perseguiamo, ma è tutto visibile.

Il mal governo, vale a dire i tre cattivi poteri ed il sistema capitalista, fa tutto alle spalle del popolo.

Stiamo condividendo la nostra umile idea del nuovo mondo che noi immaginiamo e il desiderio di compagni e compagne provenienti dal Messico e da tutto il mondo.

Ecco perché abbiamo deciso di fare la Escuelita Zapatista.

La Escuelita parla di libertà e della costruzione di un nuovo mondo diverso da quello dei capitalisti neoliberali.

Inoltre, è il popolo stesso, cioè, le basi di appoggio, che condividono queste idee, non solo i loro rappresentanti. Queste persone, non i loro rappresentanti, sono quelle che diranno se stanno facendo bene o se il modo in cui sono organizzati sta funzionando. In questo modo gli altri possono vedere se le cose sono veramente come dicono i rappresentanti del popolo.

Questa grande “condivisione” tra tutti noi, compagni della città e della campagna, è necessaria perché noi siamo quelli che devono pensare a come dovrebbe essere il mondo che vogliamo. Non possono essere solo i nostri rappresentanti o dirigenti a pensare e decidere come dovrebbe essere questo mondo e certamente non possono essere loro a dirci cosa dobbiamo fare come organizzazione. È il popolo, la base, che deve parlare di questo.

Potete dirci se questo è stato utile a coloro che hanno partecipato.

Come potrete leggere negli scritti di questa edizione della nostra rivista REBELDÍA ZAPATISTA, questo processo ha aiutato i compagni e le compagne che sono basi di appoggio ad incontrare brave persone provenienti da altre parti del Messico e di tutto il mondo. Questo è importante perché in Messico non c’è un governo che riconosce gli indigeni in questo paese. Il governo si ricorda di loro solo in tempo di elezioni, come se fossero strumenti elettorali.

È solo attraverso l’organizzazione e la lotta che le basi di appoggio si sono difesi per 30 anni.

Le basi di appoggio hanno fatto tutto il possibile, e tutto ciò che sembrava impossibile, in questi 30 anni e questo è ciò che condividono.

Abbiamo lavorato per creare la Escuelita in modo che le parole delle compagne e compagni che sono le basi di appoggio zapatiste, potessero raggiungere molti di più. Con la Escuelita le loro voci percorrono migliaia e migliaia di chilometri, non come i nostri proiettili il 1° gennaio 1994, che arrivavano solo a 50 metri, o 100 metri, e forse alcuni a 300 o 400 metri. Gli insegnamenti della Escuelita attraversano gli oceani, i confini ed i cieli per raggiungere voi, compagne, compagni.

Noi ribelli indigeni sappiamo che ci sono altre ribellioni indigene che sanno bene cos’è il capitalismo neoliberista.

Ci sono anche fratelli e sorelle ribelli che non sono indigeni, ma che scrivono per condividere in questa edizione cosa pensano e come vedono questo sistema che sta distruggendo il pianeta terra. Ecco perché noi includiamo le parole dei nostri compagni e compagne anarchici in questa edizione della rivista.

Bene, compagni della Sexta, è bene che chi è venuto abbia visto con i propri occhi e sentito con le proprie orecchie quello che succede qui, e sia partito con la volontà di comunicare tutto questo a coloro che non sono potuti venire.

In questa prima edizione della rivista inizieremo a condividere alcune delle parole e delle idee dei nostri compagni e compagne che sono le basi di appoggio zapatiste, famiglie, guardiani e guardiane e insegnanti, su come loro hanno visto gli studenti nella Escuelita. Nel corso delle prime edizioni della nostra pubblicazione condivideremo le valutazioni effettuate dagli insegnanti, votanes, famiglie e coordinatori della Escuelita delle zone dei cinque caracoles.

Proprio come avete parlato o pubblicato quello che avete vissuto, sentito e visto nel nostro territorio zapatista, qui potete leggere come abbiamo visto e sentito quelli che sono venuti ed hanno innalzato la bandiera della REBELDIA ZAPATISTA.

Subcomandante Insurgente Moisés

Messico, Gennaio 2014, 20 anni dall’inizio della guerra contro l’oblio.

(Traduzione “Maribel” – Bergamo)

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