La Jornada – Sabato 29 marzo 2014
Con le parole: Non può essere così! 25 anni fa il Frayba ha cominciato a farsi sentire
Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de las Casas, Chis., 28 marzo. Il Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomé de las Casas, Frayba, è pioniere in Messico dell’esercizio della difesa dei diritti umani, della quale nessuno Stato che si dica democratico si può disinteressare. Fondato nel marzo del 1989 dal vescovo Samuel Ruiz García in Calle 5 de Febrero di questa città, nasce in un contesto locale di allarmante disuguaglianza, discriminazione e sfruttamento verso i popoli maya di un Chiapas ancora feudale. La vita degli indios non valeva più di quella di una gallina, secondo l’espressione di un allevatore ancora nel 1993. Fino a poco tempo fa qui esistevano ancora l’acasillamiento, il diritto alla prima notte, la brutalità deliberata, la schiavitù.
Ma si andava anche sviluppando un sempre meno isolato processo di coscienza, organizzazione, rivendicazione di identità e diritti collettivi tra i popoli tzotzil, chol, tzeltal, tojolabal. Attori chiave in questo processo sono stati il vescovo e l’organizzazione molto originale della sua diocesi, sul versante del Concilio Vaticano II° che col tempo si sarebbe chiamato della liberazione; ed anche organizzazioni contadine indipendenti legate a movimenti nazionali. Un altro attore, controverso, furono le chiese cristiane, in maggioranza diffuse inizialmente da missionari statunitensi, che promuovevano la ricerca della prosperità sulla base di valori individualisti, in contraddizione con il comunitarismo ancestrale che il cattolicesimo non ha sradicato.
Presieduto dal combattivo Raúl Vera López, ex vescovo ausiliare di Samuel Ruiz ed oggi titolare della diocesi di Saltillo, il Frayba si è emancipato dalla struttura ecclesiastica e si inserisce nello spazio urbano nelle montagne del Chiapas senza tradire il suo obiettivo originale del 1989: la difesa dei diritti delle persone, individuali e comunitarie, preferibilmente dei poveri. Comincia con il sessennio di Carlos Salinas de Gortari. E quello di Patrocinio González Garrido in Chiapas.
La prima cosa che denuncia il Frayba è il carattere antidemocratico ed anticostituzionale delle riforme del codice penale del dicembre del 1988 in Chiapas, e descrive la situazione di allora prendendo come punto di svolta il Congresso Nazionale Indigeno realizzato a San Andrés Larráinzar nel 1974, dove molti analisti collocano l’avvio del processo di liberazione dei popoli. Cita le rappresaglie: Questa situazione trova il suo punto algido agli inizi degli anni ’80, quando a Wolonchán la popolazione viene selvaggiamente repressa con un saldo di molti morti (nessuno li contò) e feriti. A El Paraíson, di Venustiano Carranza, vengono crudelmente massacrati nove contadini.
La storia grigia del Chiapas, disse il Frayba nel suo primo giorno, è difficile da valutare. Secondo fonti pubbliche, solo tra il gennaio del 1974 e luglio 1987 furono presentati 4.731 casi di azioni repressive: omicidi, ferimenti e lesioni, arresti, sequestri e torture, scomparsi, attentati, espulsioni di famiglie, violenze, percosse, sgomberi, violazioni di domicilio, saccheggio di uffici ed archivi, persecuzioni della polizia, furto di documenti agrari, repressione di manifestazioni, distruzione di abitazioni, chiese e scuole. Tutto un programma. Il lavoro era combattere contro il silenzio.
Indignazione e ribellione
Ci scontriamo con una realtà ingiusta e disumanizzante che provoca in noi un’indignazione ed una ribellione che ci fa dire: Non può essere! Sono le prime parole del Frayba 25 anni fa, quando una squadra, alla quale partecipavano Concepción Villafuerte, Gonzalo Ituarte e Francisco Hernández de los Santos comincia a raccontare le storie e risvegliare la memoria degli oltraggi e dell’illegalità del potere.
Nella capitale del paese nascevano centri simili. Lo stesso governo dovette creare la propria Commissione Nazionale dei Diritti Umani. Ma la difesa dei diritti umani in Chiapas era pericolosa quanto le lotte e la mera esistenza dei popoli indio. Senza l’ombrello della Chiesa cattolica non sarebbe stata possibile. Nel gennaio del 1994 le circostanze cambiarono drammaticamente per il centro con l’insurrezione dell’EZLN e la partecipazione del vescovo alla mediazione tra i ribelli ed il governo. Il Frayba, guidato dall’allora sacerdote Pablo Romo, è nell’occhio del ciclone. Ora doveva difendere i diritti dei popoli in mezzo ad una guerra che, sebbene i combattimenti durarono 12 giorni, si è protratta occulta su vari fronti, senza tregua per 20 anni con la militarizzazione.
Gonzalo Ituarte, stretto collaboratore di don Samuel, c nei giorni scorsi ha ricordato il contributo del Frayba all’evoluzione del Chiapas e del Messico, all’azione ed il pensiero dei popoli, delle comunità, della società civile e della Chiesa stessa. Oltre a coprire l’ambito della promozione e della difesa dei diritti umani, “con la sua azione ha portato al rafforzamento di iniziative popolari, di organismi non governativi, di attività di mediazione – in particolare con la Conai (Commissione Nazionale di Intermediazione) – con un ruolo molto rilevante e non sufficientemente analizzato nella complessità del conflitto armato non risolto in Chiapas ed i suoi multipli effetti colaterali”.
Acquisisce legittimità
A partire dal 1996 il Frayba è formato solo da laici, alcuni di loro indigeni. Lo dirigono successivamente due donne (Marina Patricia Jiménez e Blanca Martínez Bustos). Affronta le grandi tragedie del periodo (Chenalhó, El Bosque, la zona Nord) ed accresce la sua legittimità di fronte ai poveri, compresi i popoli zapatisti. Lo Stato si vede obbligato a prenderlo sul serio e per i successivi governatori si trasformerà in un’ossessione, come tutto ciò che sfugge dal suo radar propagandistico. Roberto Albores Guillén, Pablo Salazar Mendiguchía e Juan Sabines Guerrero, così come i servizi segreti federali, non lesinano risorse per controllarlo, intimidirlo, diffamarlo. I tentativi di cooptazione sono intensi e due ex direttori (Marina Patricia Jiménez e Diego Cadenas) si inseriscono nei governi statali, cosa che rafforza l’indipendenza del progetto collettivo come voce, accompagnatore, consulente, difensore legale di popoli e individui determinati a scuotersi dall’oppressione, l’abuso e l’umiliazione. http://www.jornada.unam.mx/2014/03/29/politica/013n1pol
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