Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for dicembre 2018

25 anni dell’EZLN: Lo zapatismo è vivo e può reagire ai megaprogetti di AMLO

A dispetto delle sue trasformazioni, l’EZLN che irruppe in Chiapas il 1° gennaio 1994, è un riferimento obbligato nelle analisi sociali, dice a Proceso lo storiografo Antonio García de León, facendo un bilancio degli ultimi 25 anni dello zapatismo. Lui che fu anche consulente degli zapatisti, ritiene che rispetto ai silenzi del governo di Andrés Manuel López Obrador sugli accordi di San Andrés e le sue iniziative come i megaprogetti del Treno Maya e dell’Istmo di Tehuantepec, l’EZLN può guadagnare più rilevanza di fronte all’eventuale crescita della resistenza indigena in questo contesto.

 , CIUDAD DE MÉXICO (Proceso).- El Ejército Zapatista de Liberación Nacional (EZLN) podría convertirse en una “caja de resonancia” de los movimientos indígenas contestatarios a los proyectos del gobierno federal, sostiene el historiador Antonio García de León Griego, antiguo asesor del grupo armado que hace 25 años irrumpió en Chiapas para reivindicar a las comunidades indígenas marginadas.

García de León, quien en 1996 participó en los diálogos de paz con el gobierno de Ernesto Zedillo en el pueblo de San Andrés Larráinzar, puntualiza que, a fin de cuentas, la herencia de los zapatistas es positiva, pues dieron preponderancia a las comunidades indígenas marginadas y pusieron a Chiapas en el horizonte del apoyo federal.

Frente a los proyectos ferroviarios y de infraestructura carretera del gobierno de Andrés Manuel López Obrador, es factible que la influencia del zapatismo en las comunidades indígenas se revitalice por los movimientos que actualmente hay en Chiapas, Yucatán, Quintana Roo y Oaxaca, dice el doctor en historia económica y social por la Universidad de la Sorbona al hacer un repaso de los 25 años del EZLN.

García de León, quien cursó su maestría en lingüística en la Escuela Nacional de Antropología e Historia, es uno de los principales conocedores de la vida indígena chiapaneca, de lo cual ha dejado constancia en sus libros Resistencia y utopía. Memorial de agravios y crónica de revueltas y profecías acaecidas en la provincia de Chiapas durante los últimos 500 años de historia, así como Fronteras interiores. Chiapas, una modernidad particular, en el que aborda la historia de esa entidad entre 1940 y el año 2000.

El EZLN, dice, tiene presencia nacional e internacional, y si bien ésta ha menguado y sufrido cambios en su dirigencia –el 14 de febrero de 2013 el subcomandante Marcos fue relevado por el comandante Moisés–, su lucha por los derechos y la cultura de los pueblos indígenas sigue vigente, comenta el historiador.

“En un sentido general, veo que el EZLN posicionó a las comunidades indígenas en el debate nacional; eso es evidente. Pero hay otros aspectos que también son importantes: las autonomías y la participación desde la base van a ser necesarias si el gobierno (de López Obrador) centraliza demasiado la construcción de megaproyectos como el Tren Maya y el proyecto del Istmo de Tehuantepec, que puedan ser ofensivos para el medio ambiente o para las comunidades indígenas.

“Todo eso va a reactivar una resistencia de las comunidades y la única resistencia posible es una participación más activa (de los indígenas) en sus propios destinos.”

–Parafraseando un poco uno de sus libros, ¿cuáles serían las utopías y las resistencias del EZLN a 25 años del alzamiento? ¿Qué significado ha tenido?

–Por un lado, ha propiciado movimientos muy diversos que poco tienen que ver con el EZLN, pero que han representado el empoderamiento de ciertas élites que se autodenominan indígenas y tratan de sustituir la representación indígena. Esto es muy importante porque el nuevo régimen está utilizando de manera patética la cultura indígena, reinterpretada de una manera muy parecida a como lo hacía el viejo PRI.

(Adelanto del reportaje especial publicado en Proceso 2200, ya en circulación)

https://www.proceso.com.mx/565730/25-anos-del-ezln-el-zapatismo-esta-vigente-y-puede-reaccionar-ante-los-megaproyectos-de-amlo?fbclid=IwAR3YyEXY481w8RpNm2hmz1Ek3JBI6PeuRG4Xir12EjUc_0g81Epc8iD_URU

 

Read Full Post »

#EZLN La storia delle domande

A chi di dovere,

Sono io un evaso,

Non appena nato

In me m’hanno chiuso

Ma sono scappato.

Mi cerca la mia anima

Per monti e per mari,

Che mai la mia anima mi possa trovare.

Fernando Pessoa

Scrivo questa mia mentre da una parte mi giungono i comunicati dei nostri compagni sui preparativi dell’avanzata delle nostre unità e dall’altra viene bruciato l’ultimo mucchio di lettere a cui non ho risposto. Vi scrivo a questo proposito. Mi sono sempre riproposto di rispondere a ognuna delle lettere che ci arrivano. Mi pareva, e mi pare ancora, che fosse il minimo che potessi fare per contraccambiare tutta quella gente che si è presa il disturbo di scriverci e che ha corso il rischio di metterci nome e indirizzo in attesa di una risposta. La ripresa della guerra è imminente. Non potrò più conservare queste lettere, devo distruggerle perché, se cadessero in mano al governo, potrebbero causare problemi a tanta brava gente ed a pochissima cattiva. Ecco che le fiamme crescono e i colori cambiano, a volte in un azzurro cangiante che illumina questa notte di grilli e lampi lontani che si avvicinano a un freddo dicembre di profezie e conti in sospeso. Si, erano molte. Sono riuscito a rispondere a tante, ma non appena riuscivo a scemarne una pila, ne arrivava subito un’altra cesta. “Sisifo”, mi chiamavo. “O l’aquila che divora il fegato di Prometeo”, aggiunge il mio alter ego, sempre così puntuale nel suo velenoso scetticismo. A dire il vero, devo confessare che ultimamente, il sacco che arrivava si faceva sempre più piccolo. All’inizio incolpavo quei ficcanaso del governo, ma a poco a poco mi sono reso conto che la gente, per quanto buona possa essere, si stanca … e smette di scrivere … e, a volte, smette di lottare …

Sì, lo so che scrivere una lettera non è come dare l’assalto al Palazzo d’Inverno, ma a noi faceva viaggiare lontano … Un giorno eravamo a Tijuana, un altro a Mérida, a volte in Michoacán, o in Guerrero, o in Veracruz, o in Guanajuato, o in Chihuahua, o in Nayarit, o in Queretaro, o a Città del Messico. Altre volte andavamo più lontano: in Cile, in Paraguay, in Spagna, in Italia, in Giappone. Bene, basta con questi viaggi che ci strappavano più di un sorriso e che scaldavano notti di fredde veglie e rinfrescavano giorni di caldo afoso.

Vi dicevo che mi ero ripromesso di rispondere a tutte le lettere e noi, cavalieri erranti, sappiamo mantenere fede alle promesse (a meno che non siano d’amore), e così ho pensato alla bontà che renderebbe più lieve la mia pesante colpa se tutti voi accettaste che vi rispondessi con un’unica e significativa missiva, nella quale voi sareste i particolari destinatari di una così irregolare corrispondenza.

Quindi, poiché gioca a mio favore il fatto che non potete protestare o manifestare il vostro disaccordo (potete farlo ma io non lo saprei e visto che la corrispondenza ecc. …. quindi sarebbe inutile), allora procedo lasciando sfogo alla folle dettatura che s’impadronisce della mia mano destra quando c’è da scrivere una lettera. E quale miglior modo di iniziare con i versi di Pessoa, che sono maledizione e profezia, e che dicono così …

Il guardare, che sta guardando

Dove non vede, si volta:

Noi due stiamo parlando

di quanto non si è conservato.

Ciò sta finendo o inizia?

 

Un giorno del mese dell’ineffabile anno 1994.

 

A chi di dovere.

Vorrei dirvi alcune cose riguardo a quanto è successo da gennaio ad oggi. La maggioranza di voi ci ha scritto per ringraziarci. Immaginate la sorpresa quando leggiamo le vostre missive in cui ci ringraziate di esistere. Io, per esempio, che la massima effusione che ricevo dalle mie truppe è un gesto di rassegnazione quando arrivo a una delle nostre postazioni, mi sorprendo sorprendendomi, e quando mi sorprendo nella sorpresa mi possono accadere cose imprevedibili. Mi succede, per esempio, che mordo troppo la pipa e rompo il bocchino. Succede, per esempio, che non trovo niente poi per aggiustarla. Succede, per esempio, che cercando un’altra pipa trovo qualche dolcetto e commetto il grave errore di provocare quel rumore tipico dei dolci avvolti nel cellofan e che quelle piaghe che chiamano “bambini” riescono a sentire a decine di metri di distanza, a chilometri se hanno il vento a favore. E succede, per esempio, che mentre alzo il volume del registratore per cercare di soffocare il rumore del cellofan con una canzone che fa …

 

Chi ha una canzone

avrà una tempesta,

chi ha compagnia,

la solitudine. Chi che segue la buona strada

avrà sedie pericolose

che lo invitano a fermarsi.

Ma la canzone vale la pena

di buona tempesta,

e la compagnia vale la solitudine,

vale sempre la pena

l’agonia della fretta

anche se è piena di sedie

la verità

 

appare nella stanzetta (perché tutto ciò solitamente succede in una stanzetta col tetto di cartone, di paglia o di nylon) Heriberto, con la faccia di “ti ho beccato!”, ed io faccio finta di niente e fischietto il motivo di un film di cui non ricordo il titolo, ma che era  buono per il protagonista perché una ragazza (….) gli si avvicinava sorridendo, e io mi accorgo che non è una ragazza ad avvicinarsi, ma è Heriberto. Insieme a lui c’è Toñita col suo bambolotto. Toñita, quella del bacio negato perché “punge”, quella dei denti cariati che compie cinque anni ed entra nei sei, la beniamina del Sup. Heriberto, lo strillo più rapido della Selva Lacandona, il disegnatore di anatroccoli anti-Sup-marini, il terrore delle formiche mulattiere e del cioccolato natalizio, il beniamino di Ana María, la punizione che qualche dio rancoroso ha inferto al Sup per essere un trasgressore della violenza e un professionista della legge. Cosa? Non era proprio così? Vabbè, non preoccupatevi…

Attenti! Ascoltate ciò che vi dico! Allora, arriva Heriberto e mi dice che Eva sta strillando perché vuole vedere il cavallo cantastorie e il maggiore non glielo fa vedere perché sta guardando il Decamerone di Pasolini. Naturalmente Heriberto non dice che è il Decamerone, ma io lo intuisco perché Heriberto dice, testualmente: “Il maggiore sta guardando le donne nude”. Per Heriberto ogni donna che porta la gonna all’altezza del ginocchio o poco più in alto è “nuda”, e ogni persona di sesso femminile che abbia più di quattro anni appena compiuti da Eva è una “donna”. Lo so che si tratta solo di uno sporco trucco di Heriberto per impadronirsi del dolce il cui cellofan ha risuonato come la sirena del Titanic in mezzo alla nebbia, ed Heriberto coi suoi anatroccoli è partito per salvarlo, perché non c’è niente di più triste al mondo di un dolcetto senza un bambino che lo salvi dalla sua prigione di cellofan.

Toñita scopre, invece, un coniglietto “a-prova-di-fango”, ossia nero, e decide di immergerlo in una pozzanghera che, secondo lei, ha tutte le caratteristiche necessarie per una prova di qualità.

Di fronte all’invasione “del quartier generale dell’ezetaelenne” io faccio l’indiano e mi fingo mooolto concentrato su quello che sto scrivendo. Heriberto se ne accorge e disegna un’anatra che intitola, in modo irriverente “Il Sup”. Io mi offendo perché Heriberto aggiunge che il mio naso è come il becco dell’anatra. Toñita posa su una pietra il coniglietto infangato accanto al pupazzo e li guarda con occhio critico. Penso che non sia molto soddisfatta del risultato perché muove la testa negativa con la stessa ostinazione come quando mi nega un bacio. Heriberto, di fronte alla mia indifferenza, pare darsi per vinto e si ritira ed io sono soddisfatto del mio trionfo, quando mi accorgo che il dolce non c’è più e allora ricordo che, mentre guardavo il disegno, Heriberto ha fatto uno strano movimento. Me lo ha portato via da sotto il naso! E guardate che con questo naso, non è cosa da poco. Sono depresso, e ancora di più quando mi accorgo che Salinas sta impacchettando le sue cose per andare alla presidenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e mi viene in mente quanto è stato ingiusto quando ci ha affibbiato l’epiteto di “trasgressori”. Se conoscesse Heriberto si accorgerebbe che, in confronto, noi siamo più legali del gruppo dirigente del PRI. Bene, eravamo rimasti al punto in cui io mi sorprendevo sorprendendomi nel leggere nelle vostre lettere quei “grazie” che a volte erano rivolti a Ana María, a Ramona, a Tacho, a Mario, a Laura, o a qualsiasi tra gli uomini e le donne che si coprono il volto per mostrarsi o se lo scoprono per nascondersi da tutti.

Io mi produco nel il mio migliore inchino per ringraziare quando Ana María appare sulla porta con Heriberto singhiozzante e mi chiede perché non voglio dare il dolcetto a Heriberto. “Non gli voglio dare il dolcetto?”, dico e guardo stupito Heriberto che ha mascherato le tracce del dolce con quelle lacrime e quel moccio che hanno portato Ana María dalla sua parte. “Sì – afferma implacabile Ana María -, Heriberto dice che ti ha dato un disegno in cambio di un dolce, ma tu non hai tenuto fede al patto”. Io, che mi sento vittima di un’ingiusta accusa, faccio la faccia da ex presidente del PRI che si prepara a prendere possesso di un importante ministero statale e a salire in tribuna per pronunciare il suo miglior discorso quando, improvvisamente, Ana María prende da chissà dove un sacchetto di dolcetti e lo dà tutto! a Heriberto. “Tieni” dice, “gli zapatisti rispettano sempre la parola data”. Poi i due se ne vanno. Io sono mooolto triste perché quei dolci erano per il compleanno di Eva, che non so più quanti anni compie, perché quando ho chiesto a sua madre quanti anni aveva mi ha risposto “sei”. “Ma se l’altro giorno mi ha detto che era entrata nei quattro”, ho ribattuto. “Sì, ne compie quattro ed entra nei cinque, cioè va per i sei”, mi risponde tranquilla la signora e mi lascia lì a far di conto con le dita, dubbioso su tutto il sistema educativo di una volta che insegnava chiaramente che 1+1 fa 2, 6×8, 48 e altre cose altrettanto importanti ma che, evidentemente, nelle montagne del Sudest non lo sono e che qui funziona un’altra logica matematica. “Noi zapatisti siamo tutta un’altra cosa”, mi ha detto il Monarca una volta, raccontandomi che quando finiva il liquido dei freni lo sostituiva con l’urina. L’altro giorno, per esempio, c’è stata una festa di compleanno. Si è riunito il “gruppo giovanile” ed ha organizzato un ‘olimpiade zapatista; la “maestra di cerimonie” ha annunciato che sarebbero seguite le gare di salto in lungo – che significa “chi salta più in alto” – e di salto in alto – ossia “chi arriva più lontano” -. Stavo contando nuovamente con le dita quando arriva il tenente Ricardo che mi dice che al mattino erano stati a cantare le canzoncine al festeggiato. “E dove è stata la serenata?”, ho chiesto felice che tutto fosse tornato alla normalità (…). “Al cimitero”, mi risponde Ricardo. “Al cimitero?”, ripeto tornando ai miei conti sulle dita. “Sì, era il compleanno di un compagno morto nei combattimenti di gennaio”, dice Ricardo mentre se ne va perché hanno annunciato la “corsa ad ostacoli”

“Bene”, mi dico, “una festa di compleanno per un morto. Perfettamente logico … nelle montagne del Sudest messicano”. E sospiro.

Sospiro di nostalgia ricordando i vecchi tempi quando i cattivi erano cattivi e i buoni erano buoni, quando la mela di Newton seguiva la sua irresistibile caduta verso una qualche mano infantile, quando il mondo odorava di aula scolastica il primo giorno di scuola: paura, mistero, novità. Sono lì, sospirando con sincera enfasi, quando entra El Beto, di corsa, e mi chiede se ci sono dei palloncini e, senza aspettare una risposta, inizia a rovistare tra mappe, ordini operativi, rapporti di battaglia, cenere di tabacco da pipa, lacrime asciugate, fiorellini rossi disegnati col pennarello, cartucciere e un passamontagna puzzolente. Da qualche parte El Beto trova un sacchetto di palloncini e la foto di una playmate abbastanza vecchia (la foto, non la playmate). El Beto è incerto tra il sacchetto e la foto; poi decide, come decidono generalmente i bambini in questi casi, per entrambi. Io l’ho sempre detto che questo non è un comando ma un asilo infantile. Ieri ho detto al Moy di mettere qui attorno qualche mina antiuomo. “Credi che i soldati arrivino fin qui?” mi ha chiesto preoccupato. Io rispondo con un brivido che mi percorre da cima a fondo. “I soldati non lo so, ma i bambini …”. Il Moy fa sì con la testa, comprensivo, e inizia a spiegarmi un progetto abbastanza complicato di una trappola acchiappa-bobos [bobo= uccello tipico delle regioni calde americane; anche sinonimo di stupido – N.d.T.], che consiste in buco nel terreno camuffato e con dei pali appuntiti e avvelenati sul fondo. L’idea mi piace, ma se questi bambini hanno un pregio, è quello di non essere stupidi, quindi è forse meglio mettere l’alta tensione e varie mitragliatrici “a tre canne” all’ entrata. Il Moy non è convinto; dice che ha un’idea migliore e se ne va lasciandomi nel dubbio …

Dov’ero rimasto? Ah, sì! Ai dolcetti che erano per Eva e invece se li è presi Heriberto. Sto parlando via radio a tutti gli accampamenti per cercare un sacchetto di dolci e farmelo mandare per sostituire il regalo per Eva, quando appare la suddetta con dei tamales che “li manda la mia mamma perché oggi è il mio compleanno”, dice Eva guardandomi con degli occhi che tra dieci anni scateneranno più di una guerra.

Io ringrazio con grandi inchini e le dico – cos’altro avrei potuto fare? – che ho un regalo per lei. “Dov’è?”, dice-chiede-esige Eva e io inizio a sudare perché non c’è niente di peggio di due occhi scuri arrabbiati, e lo sguardo di Eva si sta trasformando, di fronte alla mia incertezza, come in quel film Il Santo contro l’Uomo Lupo e, come se non bastasse, in quel momento arriva Heriberto a vedere se “il Sup non e più arrabbiato” con lui. Io sorrido per prendere tempo e calcolare se riesco a dare un calcio a Heriberto, quando Eva si accorge che Heriberto ha un sacchetto di dolcetti mezzo vuoto e gli chiede chi glieli ha dati de Heriberto, con la bocca impastata le dice “il Ciup”, io non capisco che Heriberto voleva dire “il Sup” finché Eva non si volta e mi ricorda “E il mio rega­o?”. Heriberto, alla parola “regalo”, spalanca gli occhi e getta il sacchetto di dolci, che ovviamente è ormai vuoto, si mette accanto a Eva e le dice con nauseante cinismo: “Sì, e il nostro regalo?”. “Nostro?”, dico mentre torno a calcolare la portata del calcio, ma in quel mentre vedo che Ana María è nei dintorni e ci rinuncio. Allora dico: “L’ho nascosto”. “Dove?”, chiede Eva che vuole risparmiarsi ogni mistero. Heriberto, invece, accetta la sfida e sta già aprendo il mio zaino e sollevando la coperta, la bussola, l’altimetro, il tabacco, una scatola di proiettili, un calzino, e in quel momento lo fermo con un convincente grido: “Lì non c’è!”; Heriberto allora si getta sullo zaino del Moy e lo sta aprendo quando aggiungo: “Dovete indovinare un racconto per sapere dove sta il regalo”. Heriberto, che si era già scoraggiato da solo perché le cinghie dello zaino del maggiore sono ben strette, viene a sedersi accanto a me, lo stesso fa Eva. Beto e Toñita si avvicinano, io accendo la pipa per cercare di capire in che diavolo di guaio mi sono cacciato con questa storia dell’indovinello, quando si avvicina il vecchio Antonio che, indicando un piccolo Zapata in argento inviatoci, ripete ora, per bocca mia,

 

La storia delle domande

Il freddo di queste montagne è opprimente. Ana María e Mario mi accompagnano in questa esplorazione, dieci anni prima di quell’alba di gennaio. I due si sono appena arruolati nella guerriglia e io, allora tenente di fanteria, devo insegnare loro ciò che altri mi hanno insegnato, cioè vivere sulle montagne. Ieri mi sono imbattuto per la prima volta nel vecchio Antonio. Entrambi abbiamo mentito. Lui dicendo che andava a vedere il suo campo di granturco, io dicendo che andavo a caccia. Entrambi sapevamo che l’altro mentiva e sapevamo di saperlo. Lascio che Ana María prosegua nell’esplorazione e torno indietro verso il fiume per vedere se posso ubicare col clisimetro sulla cartina un monte molto alto davanti a me, e se mi imbatto di nuovo nel vecchio Antonio. Lui deve avere pensato la stessa cosa perché ricompare nello stesso punto dell’incontro precedente.

Come ieri, il vecchio Antonio si siede in terra, si appoggia da un huapac di muschio verde e inizia a rollare una sigaretta. Io mi siedo di fronte e accendo la pipa. Il vecchio Antonio inizia:

“Non sei a caccia”.

Io rispondo: “E voi non siete al vostro mais”. Qualcosa mi spinge a dare del voi, per rispetto, a quell’uomo di età incerta e dal volto simile alla corteccia del cedro, che vedo per la seconda volta in vita mia.

Il vecchio Antonio sorride e aggiunge: “Ho sentito delle voci su di voi. Nelle valli dicono che siete dei banditi, nel mio villaggio non sono tranquilli perché hanno paura che vi aggiriate da queste parti”.

“E voi credete che siamo dei banditi?”, chiedo. Il vecchio Antonio butta fuori una grande boccata di fumo, tossisce e fa cenno di no con la testa. Io prendo coraggio e faccio un’altra domanda: “E voi, chi credete che siamo?”.

“Perché non me lo dici tu?”, risponde fissandomi negli occhi.

“È una lunga storia” dico e inizio a raccontare dal tempo di Villa e Zapata e la rivoluzione e la terra e l’ingiustizia e la fame e l’ignoranza e la malattia e la repressione e tutto il resto. E termino con un “e così noi siamo l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale”. Cerco un segnale sul volto del vecchio Antonio che non ha smesso un attimo di guardarmi.

“Raccontami qualcosa d’altro di questo Zapata”, dice dopo un po’ di fumo e tosse.

Io inizio con Anenecuilco, proseguo col il Plan de Ayala, la campagna militare, l’organizzazione dei villaggi, il tradimento in Chinameca. Il vecchio Antonio continua a guardarmi mentre finisco di raccontare.

“Non andò così”, mi dice. Sorpreso, riesco solo a balbettare un “No?”. “No”, insiste il vecchio Antonio. “Ti racconto io la storia di questo Zapata”.

Il vecchio Antonio tira fuori il tabacco e la macchinetta per rollare ed inizia la sua storia che unisce e confonde tempi vecchi e nuovi, così come il fumo della mia pipa a quello della sua sigaretta si confondono.

“Tante storie fa, quando i primi dei, ma proprio i primi, quelli che crearono il mondo, stavano ancora aggirandosi nella notte, parlano due dei che erano Ik’al e il Votٕán. Erano due ma uno solo. Se uno si voltava, mostrava l’altro, e viceversa. Erano contrari. L’uno era luce, come un mattino di maggio al fiume. L’altro era buio, come una notte fredda nella tana. Erano la stessa cosa. I due erano uno, perché l’uno faceva l’altro. Ma non camminavano, stavano sempre fermi questi due dei, che erano uno immobile. “Allora, che facciamo?”, chiesero entrambi. “È così triste la vita così come stiamo”, ‘tristeggiavano’ i due che erano uno, nella loro immobilità. “La notte non passa mai”, disse Ik’al. “Non passa il giorno”, disse il Votán. “Camminiamo”, disse l’uno che era due. “Come?”, chiese l’altro. “Verso dove?” chiese l’uno. E videro che così si erano mossi un poco, prima per chiedere come, e poi per chiedere dove. Felice fu uno che erano due quando vide che si muovevano un poco. I due vollero muoversi contemporaneamente ma non ci riuscirono. “Ma come facciamo?”. E prima l’uno e poi l’altro si sporsero e si mossero un altro poco e si accorsero che prima l’uno e poi l’altro potevano farlo e si misero d’accordo per muoversi prima l’uno e poi l’altro, e iniziarono a muoversi e nessuno ricorda chi si mosse per primo per iniziare a muoversi perché erano così contenti di muoversi che “Cosa importa chi è stato il primo, se ora ci muoviamo”, dicevano i due dei che erano uno, e ridevano, e la prima cosa su cui si misero d’accordo fu di ballare e ballarono, un passetto l’uno e un passetto l’altro, e fu un ballo lungo perché erano contenti di essersi accordati. Stanchi quindi di tutto quel ballare, capirono che cosa avrebbero potuto fare e che la prima domanda “come muoversi?” aveva portato con se la risposta “insieme ma separati di comune accordo”, e quella domanda non li interessò molto perché quando se ne accorsero si stavano già muovendo e allora giunse l’altra domanda quando videro che c’erano due sentieri: uno breve che portava poco lontano, e si vedeva chiaramente che quel sentiero finiva lì vicino; e tanto era il piacere di camminare che avevano ai piedi, che dissero subito che quel sentiero era troppo corto e non lo volevano fare, e si misero d’accordo di prendere quello lungo e si stavano incamminando quando la questione della scelta del cammino fece loro chiedere “dove porta questo sentiero?”; ci pensarono un po’ i due che erano uno e d’improvviso venne loro in mente che solo percorrendo il sentiero lungo avrebbero saputo dove portava, perché così dove stavano non avrebbero mai saputo dove portava il cammino lungo. E allora si dissero l’uno che due erano: “Forza, mettiamoci in marcia, muoviamoci” e iniziarono a camminare, prima l’uno e poi l’altro. E così si accorsero che a percorrere il sentiero lungo ci voleva tanto tempo e allora arrivò l’altra domanda “Come facciamo a camminare per tanto tempo?”, ci pensaronoun bel po’ e poi Ik’al disse chiaramente che lui non sapeva camminare di giorno e Votán disse che la notte aveva paura di camminare e si misero a piangere, poi una volta finita la frignata si misero d’accordo che Ik’al avrebbe potuto camminare di notte e Votán di giorno e Ik’al avrebbe portato Votán di notte e così giunsero alla conclusione che avrebbero potuto camminare tutto il tempo. Da allora i due dei marciano con le domande e non si fermano mai, mai arrivano e mai vanno. E così gli uomini e le donne veritieri impararono che le domande servono per camminare, non per restarsene fermi. E da allora uomini e donne veritieri per camminare domandano, per arrivare si congedano e per andarsene si salutano. Non stanno mai fermi”.

Io continuo a mordicchiare l’ormai striminzito bocchino della pipa in attesa che il Vecchio Antonio continui, ma pare che lui non abbia intenzione di farlo. Col timore di rompere qualcosa di importante chiedo: “E Zapata?”.

Il vecchio Antonio sorride: “Intanto hai imparato che per sapere e avanzare bisogna domandare”. Tossisce e accende un’altra sigaretta che non ho capito quando ha preparato e, tra il fumo che esce dalle sue labbra cadono parole come semi nel terreno.

“Questo Zapata apparve qua sui monti. Non nacque, dicono. Semplicemente apparve. Dicono che sia Ik’al e Votán, arrivati qui nel loro lungo cammino e che, per non spaventare la brava gente, divennero uno solo. Perché dopo tanto andare assieme, Ik’al e Votán avevano imparato che era lo stesso e che potevano diventare uno solo di giorno e di notte e quando sono arrivati qui sono diventati uno solo e si sono messi il nome di Zapata e Zapata disse che era arrivato fino a qui e qui avrebbe trovato la risposta di dove porta il lungo cammino e disse che a volte sarebbe·stato luce e a volte buio, ma che era la stessa persona: il Votán Zapata e Ik’al Zapata, lo Zapata bianco e quello nero, e che i due rappresentavano lo stesso sentiero per gli uomini e le donne veritieri.

Il vecchio Antonio tira fuori dalla suo piccola sacca una bustina di nylon. Dentro c’è una vecchia foto del 1910 di Emiliano Zapata. Zapata impugna con la sinistra la sciabola all’altezza delle vita. Nella destra tiene una carabina, al petto: due cartucciere incrociate e una fascia a due colori bianca e nera da sinistra a destra. Ha i piedi come chi sta fermo o sta camminando e lo sguardo come dicesse “sono qui”, oppure “arrivo”. Ci sono due scale. In una, quella che esce dall’oscurità, si vedono altri zapatisti dai volti bruni; l’altra, illuminata, è vuota e non si vede da dove viene ne dove va. Direi una bugia se affermassi di essermi accorto di tutti quei dettagli. Fu il vecchio Antonio a farmeli notari. Dietro alla foto si legge:

Gral. Emiliano Zapata, Jefe del Ejercito Suriano.

Gen. Emiliano Zapata, Commander in Chief of the Southern Army.

Le General Emiliano Zapata. Chef de l’ Armee du Sud.

C.1910. Photo by: Agustin V. Casasola.

 

Il vecchio Antonio mi dice: “Io ho fatto tante domande a questa foto. È così che sono arrivato fino a qui”. Tossisce e getta il mozzicone di sigaretta. Mi dà la foto. “Prendi”, mi dice. “Perché tu impari a chiederle … e a cammmare”.

“È meglio congedarsi quando si arriva. Così non dispiace tanto quando uno se ne va”, dice il vecchio Antonio tendendomi la mano per dirmi che se ne va, cioè che sta arrivando. Da allora, il vecchio Antonio saluta con un “addio” quando arriva e si congeda alzando la mano e allontanandosi con un “sto arrivando”. Il vecchio Antonio si alza. Lo stesso fanno Beto, Toñita, Eva ed Heriberto. Io tiro fuori la foto di Zapata dal mio zaino e gliela mostro.

“Sta per salire o per scendere?”, chiede Beto.

“Sta per mettersi in cammino o restare lì in piedi?”, chiede Eva.

“Sta tirando fuori la spada o rimettendola a posto?”, chiede Toñita.

“Ha appena sparato o sta per farlo?”, chiede Heriberto.

Io non smetto di meravigliarmi per tutte queste domande che suscita questa foto di 84 anni fa e che nel 1984 mi aveva regalato il vecchio Antonio. La guardo un’ultima volta prima di decidermi a regalarla ad Ana María e la foto mi strappa un’ulteriore domanda. E il nostro ieri o il nostro domani?

E visto che si parlava di domande, e con una coerenza sorprendente per i suoi quattro-anni-compiuti-entrata-nei-cinque-cioè-sei, Eva rilancia: “E il mio regalo ?” La parola “regalo” provoca identiche reazioni in Beto, Toñita ed Heriberto, cioè si mettono tutti a gridare: “E il mio regalo?”. Sono assediato e sul punto di sacrificarmi quando compare Ana María che, come quasi un anno fa a San Cristóbal ma in altre circostanze, mi salva la vita. Ha con se un sacchetto di dolci grande grande, ma grande davvero. “Eccovi il regalo che vi aveva preparato il Sup”, dice Ana María mentre mi guarda con una faccia da “che-fareste-voi-uomini-senza-noi-donne”.

Mentre i bambini si mettono d’accordo, cioè litigano, per dividersi i dolci, Ana María saluta militarmente e mi dice:

“A rapporto: la truppa è pronta a uscire”.

“Bene”, dico mettendomi la pistola alla cintura. “Partiremo all’alba, come stabilito”, Ana María esce.

“Aspetta”, le dico. E le do la foto di Zapata.

“E questa?”, chiede guardandola.

“Ci servirà”, rispondo.

“A cosa?”, insiste.

“Per sapere dove andiamo”, rispondo ispezionando la mia carabina. In cielo un aereo da guerra compie evoluzioni …

Bene, non disperate, ho quasi terminato questa “lettera delle lettere”.

Prima devo cacciare fuori i bambini …

Per ultimo, risponderò ad alcune domande che, certamente, vi starete ponendo. Sappiamo dove andiamo? Sì.

Sappiamo ciò che ci aspetta? Sì.

Vale la pena? Sì.

Chi può rispondere “sì” alle tre domande precedenti, può restare senza fare niente e non sentire che qualcosa dentro si sta rompendo?

È tutto. Saluti e un fiore per questa tenera furia, credo che se lo meriti.

Dalle montagne del Sudest messicano

Subcomandante Insurgente Marcos

 

P.S. per scrittori, commentatori e popolo in generale. Brillanti penne hanno trovato aspetti interessanti nel movimento zapatista, ma invece ci hanno negato la nostra fondamentale essenza: la lotta nazionale. Per loro continuiamo ad essere gente di borgata, coscienti dei nostri bisogni istintivi ma incapaci, almeno senza un aiuto “esterno”, di intendere e di fare nostri concetti come quelli di “nazione”, “patria”, “messico”. Sì, tutti con la minuscola, si intonano in questi tempi grigi. Per loro va bene che abbiamo lottato per le necessita materiali, ma lottare per quelle spirituali è eccessivo. È comprensibile che ora queste penne si volgano contro la nostra ostinazione. Ci dispiace, qualcuno deve essere coerente, qualcuno deve dire “No”, qualcuno deve ripetere “Basta!”, qualcuno deve mettere da parte la prudenza, qualcuno deve dare più importanza alla dignità che alla vita, qualcuno deve … Bene, volevo solo dire a queste brillanti penne che capiremo la condanna che ora sortirà dalle loro mani. A nostra difesa posso solo dire che quanto abbiamo fatto non lo abbiamo fatto per fare piacere a loro, che quanto abbiamo detto e fatto è stato solo per noi stessi, per il gusto di lottare, vivere, parlare, camminare … Brava gente di ogni classe sociale, di ogni razza, di ogni genere ci ha aiutato. Qualcuno per alleviare il rimorso di coscienza, altri perché di moda, la maggioranza per convinzione, per la certezza di trovarsi davanti a qualcosa di nuovo e di buono. Perché noi siamo i buoni, per questo avvisiamo prima di quello che faremo, affinché possiate mettervi al sicuro, affinché siate preparati, che non siate colti di sorpresa. So che questo ci svantaggia, ma a parte lo svantaggio tecnologico, possiamo trascurare lo svantaggio di perdere la sorpresa.

 

A tutta questa brava gente io vorrei dire di continuare a fare i bravi, di continuare a credere, di non lasciare che lo scetticismo li rinchiuda nella dolce prigionia del conformismo, di continuare a cercare, di continuare a trovare qualcosa in cui credere, qualcosa per cui lottare.

Abbiamo avuto anche brillanti nemici. Penne che non si sono accontentate dell’aggettivo dispregiativo o di facili parole, penne che hanno cercato argomenti forti, saldi, coerenti, per attaccarci, denigrarci, isolarci. Ho letto brillanti testi che denigravano gli zapatisti e difendevano un regime che deve pagare, e molto, per fingere che qualcuno lo ami. Peccato che, alla fine, hanno finito per difendere una causa puerile e vana, peccato che finiranno per affondare insieme a questo edificio che si sta sgretolando…

P.S. che, a cavallo e con un mariachi, canta sotto la finestra di una nonnina la canzone di Pedro Infante intitolata “Dicono che sono un donnaiolo e che finisce così. ..

Tra i miei dolci amori

uno vale molto di più

che mi ama senza rancori

taratutun.

Una nonnina graziosa

che non credo di meritare

col suo cuore mi offre

il più divino amore.

Davanti ad una nonna uno è sempre un bambino che soffre ad andare via … Addio nonna, sto arrivando. Ho finito, sto iniziando …

Pubblicato su La Jornada il 13 dicembre 1994

 

Testo originale: http://enlacezapatista.ezln.org.mx/1994/12/13/la-historia-de-las-preguntas/?platform=hootsuite

Read Full Post »

Messico – “Il desiderio di cambiare di milioni di messicani dovrà confrontarsi con la rete di interessi concordata da López Obrador”

Per comprendere cosa significhi l’arrivo di Andrés Manuel López Obrador alla presidenza del Messico e le sfide del governo e del paese in questi nuovi prossimi sei anni, Horizontal ha diffuso questo questionario tra intellettuali e analisti. Riportiamo le risposte di Luis Hernández Navarro, coordinatore della sezione “Opinión” de La Jornada ed uno dei più attenti osservatori della politica messicana. Crediamo che sia una delle analisi più lucide lette negli ultimi tempi dove, spesso a sproposito, si è voluto leggere nella elezione di AMLO una ripresa del cammino di quella “sinistra” latino americana che invece ha mostrato tutti i suoi limiti negli ultimi anni.

  1. Cosa dobbiamo intendere come quarta trasformazione?

Ripetutamente AMLO ha dichiarato che intende essere alla testa della quarta trasformazione nella storia del Messico. Non è solo un’altra proposta, ma uno degli assi centrali del suo progetto. Si tratta, né più né meno, di rifondare lo Stato messicano.

López Obrador sa di cosa sta parlando. Ha studiato, ricercato e scritto sulla storia del Messico. La sua visione della politica è basata ad una riflessione vera e originale su quello che è successo nel Paese.

Tuttavia, nonostante ciò, il candidato non ha specificato o dettagliato la sua iniziativa di “Quarta Trasformazione”.  La ha illustrata man mano durante tutta la campagna elettorale, negli incontri e dibattiti, o nelle dichiarazioni come presidente eletto, enunciando in generale le sue caratteristiche. Si tratta – ha detto – di un cambiamento profondo, pacifico e radicale che sradicherà il regime corrotto, l’ingiustizia e i privilegi; di una metamorfosi del corpo politico in cui la sovranità tornerà al popolo.

Come ha spiegato Enrique Semo, le rivoluzioni di Indipendenza, Riforma e Rivoluzione avevano obiettivi precisi associati alla struttura del capitalismo e della nazione. Ma ora, a differenza di quelle, non è stato spiegato quale sia il punto di arrivo di questa quarta trasformazione, né le sue forze trainanti ed i suoi dirigenti, né il suo programma.

Le rivoluzioni di Indipendenza, Riforma e Rivoluzione diedero vita a nuove costituzioni. López Obrador ha rifiutato l’ipotesi di convocare una nuova costituente. Inoltre, ha annunciato che non promuoverà cambiamenti della Magna Carta durante i primi tre anni del suo governo.

Come si può rifondare una nazione e stabilire legalmente un nuovo patto sociale senza una nuova Costituzione? Lottando contro la corruzione? Ovviamente è molto importante moralizzare la vita pubblica del paese. Ma, sebbene la lotta alla corruzione sia una condizione necessaria per inaugurare una nuova fase nella vita pubblica del paese, non è sufficiente.

Per il presidente eletto, la corruzione è il problema principale del paese. Secondo lui, la disuguaglianza è legata alla corruzione della “mafia” che governa e non allo sfruttamento del padrone sul lavoratore. Dal suo punto di vista, quelli che parlano di sfruttamento sono in errore perché “in Messico queste leggi non si applicano”.

Nel nostro paese, dice Enrique Semo, l’era delle rivoluzioni borghesi si è chiusa nel 1940. Nessun grande movimento sociale di trasformazione può avere come segno lo sviluppo del capitalismo o la costituzione della nazione. Ciò significa che una quarta trasformazione come quella annunciata da López Obrador richiederebbe una rottura con il modello di sviluppo attuale. Ma non ci sono segnali che qualcosa di simile succederà.

In diversi momenti, López Obrador ha dichiarato che intende smantellare il potere dell’oligarchia per stabilire il potere della Repubblica; separare il potere pubblico dal potere privato, il potere economico del potere politico.

Una concezione di questa natura presuppone una visione bonapartista della politica: ergersi al di sopra delle classi sociali per governare al di fuori di esse. La Repubblica non esiste a margine delle classi sociali.

  1. Quale Messico trova il nuovo governo? In quale tappa storica viviamo?

Come succede nei primi momenti che seguono dopo un improvviso incidente stradale su una superstrada in cui sono coinvolte molte macchine, è difficile sapere con precisione dove si sta dirigendo il Messico in questo momento. Molti eventi di segno opposto stanno accadendo contemporaneamente. Situazioni di segno opposto si scontrano tra loro. Nello stesso tempo, López Obrador sta definendo un suo margine di autonomia con il potere economico egemone, favorendo nuovi gruppi di imprese attraverso le grandi opere, lottando contro la corruzione e promuovendo megaprogetti e riforme simili a quelle che i governi del PRI e il PAN hanno cercato di fare ma senza successo.

AMLO riceve un paese devastato dal punto di vista economico, ambientale e sociale, con una grave crisi dei diritti umani e un’ondata di violenza inarrestabile. Un paese con istituzioni sequestrate dal narcotraffico.Viviamo in un momento di scontro, all’interno del nuovo governo, nel quale si contrapporranno i desideri e la volontà di cambio di milioni di cittadini che hanno votato per Lopez Obrador con la rete di interessi che il candidato ha accettato prima e durante la campagna per vincere.

Uno scontro tra la pretesa del capitale transnazionale di arrivare, attraverso una amministrazione progressista, a progetti e politiche che non è stato possibile fare con i governi del PAN e del PRI, e la resistenza di settori subalterni che saranno colpiti da questi progetti.

  1. Che tipo di sinistra rappresenta il governo di Andrés Manuel López Obrador? 

Alfonso Romo, futuro capo dell’Ufficio di presidenza di AMLO e coordinatore del suo piano di governo, ha dichiarato alla giornalista Martha Anaya: “Il paese ci sta dando un mandato di centro. È un piano di governo di centro che tiene conto di chi è stato dimenticato. L’importante è far uscire il Messico dalla povertà “.

Questo piano di governo di centro di cui parla l’uomo d’affari può modificare alcuni pezzi dell’attuale modello economico, ma non cammina nella direzione della rifondazione della Repubblica da sinistra. Secondo lo stesso Romo, si tratta di trasformare il Messico in un paradiso per gli investimenti privati, e il sud-est del paese in una grande Zona Economica E-speciale (ZEE).

Con il nuovo governo non è in gioco il cambiamento del modello economico; non è all’ordine del giorno la fine del modello neoliberale in Messico. L’opzione di spostarsi verso una strada diversa dal Consenso di Washington non è alle porte.

Non lo è, per due diversi motivi. Primo, perché, nonostante la retorica, López Obrador non tiene in conto la necessità di percorrere una via post-neoliberista. Il suo programma governativo non propone questa alternativa. Secondo, perché dal 1994-1996 è stata approvata una serie di paletti legali che proteggono giuridicamente il percorso tecnocratico.

Il Progetto alternativo di paese, coordinato da Alfonso Romo, sostiene che lo Stato deve essere recuperato democraticamente e trasformato nel promotore dello sviluppo politico, economico e sociale del paese. Afferma che le persone saranno consultate sul mantenere o cancellare le riforme strutturali. Annuncia che il bilancio sarà veramente pubblico e verrà data la preferenza ai poveri.

Insiste sulla centralità della lotta alla corruzione Ma non parla esplicitamente – come ha fatto in passato – di limare le spine più aguzze del riccio neoliberista.

Tuttavia, sebbene non vi sia una rottura fondamentale con il modello di sviluppo seguito finora, ciò non significa che il suo progetto sia semplicemente in continuità con quello attuale. Certamente ci sono dei cambiamenti. Dove sono? Nella revisione dei contratti per le opere pubbliche e le concessioni governative, che sono, secondo Lorenzo Meyer, il cuore della politica. Soprattutto quelli della costruzione del Nuovo Aeroporto Internazionale di Città del Messico (NAICM) e quelli delle concessioni per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi.

La proposta di AMLO si è concentrata sulla lotta alla corruzione. Per lui è sempre stata fondamentale. Nella sua concezione, le grandi fortune e le disuguaglianze in Messico non derivano dallo sfruttamento, ma dalla corruzione sotto la protezione del potere pubblico. E, secondo lui, nella lotta contro questo male (e nell’abolizione dei privilegi dei dipendenti pubblici), c’è la chiave per promuovere lo sviluppo. Per fare ciò, non ci sarà bisogno di aumenti delle tasse, dell’indebitamento del paese o dell’aumento dei prezzi degli idrocarburi. Un governo che non riconosce la realtà dello sfruttamento difficilmente può essere classificato come di sinistra.

Di volta in volta, Alfonso Romo ha dato garanzie agli investitori che i loro interessi non saranno danneggiati. Tuttavia, una parte di questi si scontrano frontalmente con quelli delle comunità rurali e delle popolazioni indigene. Questo è il caso, ad esempio, delle concessioni minerarie o dei progetti energetici. Anche con l’annunciato di costruire una ferrovia nell’Istmo di Tehuantepec, con il Treno Maya o con l’intenzione di promuovere le piantagioni forestali. Lo scontro tra queste due logiche è incombente e le previsioni sono sconosciute.

  1. Cosa o chi è la nuova opposizione?

Il vento che ha portato López Obrador alla presidenza ha smantellato il sistema partitico come era esistito fino ad ora. Non è finita la partitocrazia (i partiti continuano ad avere il monopolio della rappresentanza politica), ma ha colpito con forza il PRI e il PAN, il PRD e il PVEM sono quasi spariti e ha cancellato dalla mappa Nuova Alleanza.

L’opposizione politica al nuovo governo non verrà, essenzialmente, dai partiti politici. Non hanno né il Senato né la Camera dei Deputati, né la forza né la consistenza per farlo. PRI e PAN sono spaccati. Lo erano già prima delle ultime elezioni, ma ora la loro spaccatura è maggiore. La lotta per vedere chi resta con loro è alla morte.

Al momento, chi controlla il tricolore è Osorio Chong, ma se lo contendono due gruppi: Luis Videgaray e Aurelio Nuño (responsabile diretto della sconfitta) ed Emilio Gamboa e Manlio Fabio Beltrones. In effetti, la rimozione di Zamora dalla CNOP (Confederación Nacional de Organizaciones Populares) fu perché il sonorense arrivavasse lì. Tuttavia, questo non è successo. D’altra parte, il governatore di Campeche, Alejandro Moreno, gioca la carta di essere lui a raggiungere la leadership del partito, scommettendo sul diventare un attore chiave nella costruzione lopezobradorista di un blocco di potere nel sud-est.

La rottura del PAN è già un dato di fatto. Felipe Calderón è fuori e scommette sulla costruzione di un nuovo partito, replicando l’esperienza di Morena. Un settore di imprenditori sembra aver già scommesso chiaramente per rafforzare la leadership di Marko Cortés.

Di fronte al crollo del PAN e la balcanizzazione e distruzione del PRI, la società civile sponsorizzata e auspicata da Claudio X. Gonzalez e soci, che è stata rinforzata per le elezioni di luglio (la rete dei Messicani contro la corruzione), insieme ad alcuni mezzi di comunicazione (con Reforma come punta avanzata) aspira a diventare la nuova opposizione di destra al nuovo governo.

L’altra opposizione è a sinistra di AMLO. E si colloca nel mondo indigeno e nello zapatismo.

Solo pochi giorni dopo aver annunciato la cancellazione di NAIM, Lopez Obrador ha annunciato la realizzazione di una nuova consultazione sul Treno Maya, la costruzione di un canale secco nell’istmo di Tehuantepec, una nuova raffineria nello stato di Tabasco e l’applicazione di 10 programmi sociali.

Il Treno Maya è un servizio di trasporto ferroviario che attraverserà la penisola dello Yucatan. Le sue stazioni saranno distribuite su 1.500 chilometri, assomigliando alla forma di un aquilone. Sarà accompagnato dal trasferimento della popolazione e dalla creazione di nuovi centri urbani. Il suo obiettivo è quello di rendere la regione Maya un corridoio di sviluppo che, sebbene non sia riconosciuto come tale, in realtà funzionerà come una Zona Economica Speciale (ZEE). Una ZEE è un’enclave in cui il quadro normativo in cui le società devono operare (ad esempio, il pagamento delle imposte o il rispetto degli obblighi amministrativi) è ridotto al minimo in relazione a quello esistente nel resto del paese.

Il canale Transístmico mira a promuovere lo sviluppo regionale attraverso la costruzione di un canale secco che colleghi il Golfo del Messico con l’Oceano Pacifico, collegando i porti di Coatzacoalcos, nello Stato di Veracruz e Salina Cruz, nello Stato di Oaxaca. Prevede anche una zona franca e di essere parte delle ZEE. La sua realizzazione è stata un sogno fallito negli ultimi 51 anni.

Sia il Treno maya che il Transístmico saranno costruiti nei territori indigeni. Quello della penisola dello Yucatan in una regione maya. Il progetto di Tehuantepec in un territorio abitato di 12 popoli indigeni, che vivono in 539 comunità: chinantecos, chochocos, chontales, huaves, mazatecos, mixtecos, mixes, zapotecos, nahuatlacos, popolucas e zoques.

La Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, firmata dal Messico, richiede che per lavori di questo tipo venga organizzata una Consultazione libera, preventiva e informata con le comunità indigene, affinché possano decidere la loro posizione. Questa consultazione, diversa da quella che AMLO ha convocato per i cittadini, non è stata effettuata. Nonostante questo, il presidente eletto ha già annunciato che i lavori del Tren Maya inizieranno il 16 settembre.

Questi popoli hanno resistito ancestralmente ai progetti di modernizzazione che cercano di privarli delle loro terre, territori e risorse naturali attraverso le mani del progresso. Al di là della volontà di trasformazione e lotta alla corruzione, il corridoio transísmico, l’estensione delle ZEE annunciano l’imminente scontro di questi progetti con le popolazioni indigene.

Questo conflitto è stato annunciato nella Seconda Assemblea Nazionale del Congresso Nazionale Indigeno – Consiglio Indigeno di Governo – Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale -, tenuta dall’11 al 14 ottobre a San Cristóbal de las Casas. In questa occasione è stato sottolineato dai partecipanti che il prossimo governo AMLO, “con le sue pratiche corrotte, ha i suoi occhi puntati sui nostri territori”.

I partecipanti hanno denunciato che con la ratifica dell’Accordo di Libero Scambio con gli Stati Uniti il prossimo governo continuerà la politica neoliberista che danneggia i popoli indigeni del paese e che anche i 50 mila giovani reclutati nei ranghi delle forze armate, come proposto da AMLO, serviranno alla repressione e all’espropriazione. Hanno affermato: “Non abbiamo che da difendere la vita, con o senza le bugie del governo che va via o del governo che arriva, perché le parole sono inutili quando si minacciano i popoli”.

I conflitti aumenteranno ancora di più perché lo scorso 23 ottobre, il senatore Ricardo Monreal ha presentato un’iniziativa di riforma che propone l’abrogazione dell’attuale Legge Agraria e l’emissione di una Legge per lo Sviluppo Agricolo. Il suo obiettivo principale è quello di rafforzare i meccanismi per la privatizzazione delle terre ejidal e comunali (contadine e indigene) e la distruzione della proprietà sociale. Si tratta di un’altra riforma strutturale neoliberale che mette la produzione di idrocarburi, di energia elettrica e l’estrazione mineraria al primo posto di ogni cosa rafforzando il ruolo della terra come merce.

Sembra che quello che l’amministrazione di López Obrador vuole fare sia portare a compimento una serie di riforme neoliberiste che i governi PRI e PAN non sono riusciti a portare a buon fine.

  1. In America Latina il nuovo governo è visto come una speranza per la sinistra. Cosa attende il Messico come leader regionale?

Iniziamo dall’inizio. Davvero in America Latina il nuovo governo è visto come una speranza per la sinistra? Sembra davvero così o alcune forze hanno bisogno di vederlo in questo modo? In effetti, non sono pochi gli analisti regionali di sinistra che salutano pubblicamente il trionfo di AMLO come un segnale positivo per l’America Latina, ma in privato sono molto più scettici sulla sua vocazione trasformatrice.

Perché questo atteggiamento? Il ciclo progressista in America Latina è in riflusso. I processi di integrazione regionale sono in declino. L’offensiva americana nel continente contro i governi di centro-sinistra, che è iniziata dopo il colpo di stato in Honduras nel 2009 (nel mezzo dell’amministrazione Obama), sta andando avanti in modo schiacciante. Presentare il trionfo di Lopez Obrador come una grande vittoria della sinistra continentale è in parte una trovata pubblicitaria per creare l’illusione che il declino delle forze progressive nella regione non sia così pronunciato come realmente è.

E ora passiamo alla domanda. No, il Messico non è un leader regionale in America Latina. Ha smesso di esserlo molto tempo fa. La sua diplomazia nella regione va di pari passo con gli interessi di Washington. Basta vedere la sua partecipazione al Gruppo di Lima e il modo in cui ha gestito la questione venezuelana.

Anche se la diplomazia di AMLO sarà diversa da quella fatta dopo la presidenza di Ernesto Zedillo, non c’è nulla che suggerisca che il futuro governo riconquisterà quella leadership nella regione. Marcelo Ebrard ha già detto che il Messico continuerà nel Gruppo di Lima e che il libero commercio sarà l’asse delle relazioni tra il paese e l’America Latina. Anche se si è sostenuto che la politica estera del governo coprirà più territori e non solo un rapporto bilaterale con gli Stati Uniti, nei fatti la prima priorità della diplomazia messicana continua a essere il rapporto di questo paese con gli Stati Uniti.

È stato annunciato che la politica estera del Messico sarà guidata dai principi stabiliti nell’articolo 89 della Costituzione. Una politica basata sul rispetto, l’amicizia, la pace e la cooperazione tra i popoli e i governi del mondo. Probabilmente ci sarà un atteggiamento di distensione nei confronti del Venezuela e un approccio con Cuba, ma non si vede una politica più attiva nella regione.

  1. Come sarà la relazione con il governo di Donald Trump?

Durante tutta la campagna presidenziale, diversi nemici di AMLO lo hanno accusato di essere il Donald Trump messicano. Non era un complimento, ma un modo di colpirlo politicamente. Inaspettatamente, settimane dopo, attraverso una lettera, il futuro presidente messicano ha ammesso che ci sono importanti somiglianze tra i due.

Nell’ultimo paragrafo della lettera inviata al Presidente degli Stati Uniti, AMLO individua dei parallelismi con lui e dice: “Sono incoraggiato dal fatto che entrambi sabbiamo compiere ciò che diciamo ed abbiamo affrontato le avversità con successo. Siamo riusciti a mettere al centro i nostri elettori e cittadini per togliere di mezzo l’establishment o il regime predominante “.

La dichiarazione sorprende. Trump ha offeso il Messico e i messicani. Ha attaccato e perseguitato i connazionali che vivono negli Stati Uniti. Ha imposto, nel mezzo di una rinegoziazione dell’Accordo di Libero Scambio Nordamericano (NAFTA), dazi doganali sulle esportazioni messicane. Invece di un cambio di paradigma nelle relazioni estere, il fatto che il prossimo presidente messicano si omologa con il presidente degli Stati Uniti è un errore.

Qual è la necessità di trovare somiglianze con lui? Su quale principio di politica estera si basa una mossa come questa? Cosa guadagna la diplomazia messicana accomunando il suo presidente eletto a uno dei politici più detestati del mondo? Non si tratta di attaccare il newyorkese da parte del tabasqueño o di dirgli cose che mettono in pericolo il futuro della relazione tra i due paesi. Niente di tutto ciò. Ma di mantenere una sana distanza. Se invece della sua firma quelle parole portassero quella di qualsiasi altro politico messicano, ci sarebbe stato un vero scandalo.

La lettera di AMLO a Donald Trump è molto più di un semplice saluto al vicino del nord, la manifestazione della volontà di mantenere cordiali relazioni bilaterali o di un’agenda di questioni da affrontare insieme. È anche un insolito rapporto unilaterale delle misure che il governo prenderà per fermare la migrazione negli Stati Uniti. Ci saranno molti cambiamenti, signor Presidente Trump, scrive il tabasqueño.

L’obiettivo esplicito delle misure comunicate a Trump è che i messicani non debbano migrare a causa della povertà o della violenza, cercando invece di raggiungere il benessere e il lavoro nei loro luoghi di origine. Si cerca di promuovere una serie politiche per l’occupazione che rallentino lo spostamento della forza lavoro negli Stati Uniti.

Tra le azioni che si propone di intraprendere è la piantumazione di un milione di ettari di alberi da frutto e da legname nel sud-est del paese, per creare 400 mila posti di lavoro. Inoltre, si prevede l’avviamento del corridoio economico nell’Istmo di Tehuantepec.

Inoltre, si sposteranno le dogane messicane più a sud, di 20 o 30 chilometri, e le tasse raccolte nell’area di confine saranno ridotte della metà. Allo stesso modo, verrà stabilita una fascia di zona libera lungo i 3 mila 185 chilometri di confine. “Questa sarà – dice la lettera – l’ultima barriera per mantenere i lavoratori all’interno del nostro territorio”.

L’atteggiamento sorprendente nei confronti Donald Trump ha la sua controparte nell’annuncio che, a partire da oggi, la diplomazia messicana si inspirerà al principio del rispetto per l’autodeterminazione dei popoli e dalla non ingerenza negli affari interni. Al suo insediamento ha invitato tutti i presidenti con i quali il Messico ha relazioni diplomatiche, incluso il presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, Nicolás Madura. Queste misure contrastano con la subordinazione quasi assoluta che la diplomazia messicana ha avuto negli ultimi anni ai dettami di Washington.

  1. Cosa succederà al sistema dei partiti in Messico? Morena diventerà il nuovo PRI?

Apertamente o di nascosto, molti importanti settori del PRI hanno sostenuto López Obrador in tutto il paese durante la sua campagna elettorale. Costretti ad unirsi a candidati e dirigenti che non erano del loro partito, esclusi dalla candidatura, privi dei mezzi per fare proselitismo e maltrattati dalla squadra che conduceva la campagna elettorale di Jose Antonio Meade, molti “tricolores” hanno votato per Morena.

La tecnoburocrazia dell’ITAM (Instituto Tecnológico Autónomo de México) li ha privati ​​del governo, del partito e delle cariche elettive. Non hanno ricevuto mai gli aiuti per far vincere le loro compagini. Si sono vendicati unendosi alle file dell’amloismo.

L’appoggio non è stato gratis. Gli accordi presi si possono vedere nella composizione del potere legislativo e nel futuro gabinetto. La loro cultura politica permea le loro manovre politiche. È particolarmente notevole l’enorme quantità di figure di rilievo provenienti dallo zedillismo, una corrente politica che ha come principio, come diceva Baudalaire del diavolo, il farci credere che non esiste. L’ex presidente, si ricorderà, ha avuto con López Obrador una intensa sintonia politica quando era un leader nazionale del PRD e responsabile dell’avvento degli Accordi di Barcellona.

López Obrador è impegnato a costruire un nuovo rapporto con i settori popolari sulla base dei programmi di studio e dei suoi programmi di aiuti finanziari. Ha deciso di mettere da parte i tradizionali gestori di queste richieste (che giudica essere dei corrotti) e stabilire un rapporto diretto con la popolazione, a partire dalla revoca di un elenco di precedenti beneficiari. Questo è il vecchio piano Pronasol di Carlos Salinas reso realtà, solo che ora è fatto senza promuovere il tessuto associativo che invece aveva preso forma nei comitati di solidarietà.

Se questa iniziativa avrà successo, le organizzazioni contadine tradizionali, le associazioni popolari urbane e il Partido del Trabajo, che costruiscono le loro basi sociali dalla gestione della domanda popolare, si troveranno in una brutta situazione.

È interessante notare che il principale responsabile di questi programmi e il coordinamento con i funzionari statali è in capo a Gabriel Hernández, Segretario di Organizzazione di Morena.

Curiosa ironia, ogni volta che un’élite ha cercato di riformare radicalmente il paese dall’alto contro quelli del basso, il paese reale ha finito con il far pagare il prezzo ai modernizzatori e fatto deragliare le loro riforme.

Ciò accadde quando il Messico era ancora la Nuova Spagna, con le riforme borboniche che portarono alla Rivoluzione dell’Indipendenza; questo è accaduto con la modernizzazione e la pace sociale porfirista, sbaragliata dalla Rivoluzione Messicana, e così è accaduto con la riforma dell’articolo 27 della Costituzione (che ha messo sul mercato le terre indigene e contadine) e la firma del North American Free Trade Agreement (NAFTA) durante l’amministrazione di Carlos Salinas de Gortari, duramente contestate dalla rivolta zapatista del gennaio 1994. Niente assicura che questa volta con la “Quarta Trasformazione” e la sua pretesa di rifondare la nazione dall’alto questo non possa accadere di nuovo.

6 dicembre 2018

Testo originale: https://horizontal.mx/el-deseo-de-cambio-de-millones-se-confrontara-con-la-red-de-intereses-acordados-por-lopez-obrador/

Traduzione Cooperazione Rebelde Napoli https://yabastanapoli.blogspot.com/2018/12/messico-il-desiderio-di-cambiare.html?fbclid=IwAR1kbBuene50pGs2qEYdyayDhsiT8d9Tafk2QjIsA48CMDYAqz2qUPK3bPI

 

Read Full Post »

@lhan55 Il dolore di Acteal

Luis Hernández Navarro

Una giovane donna tiene in mano la fotografia di una bambina di sei anni in una cornice di legno. È il ritratto di Silvia Pérez Luna. In basso si possono vedere le sue date di nascita e di morte: 1991-1997.

Silvia è stata una delle 45 persone assassinate selvaggiamente dai paramilitari ad Acteal, Chiapas, il 22 dicembre 1997. Le vittime, 7 uomini, 21 donne e 15 bambini, uno di questi ancora non aveva un anno, stavano pregando per la pace in una piccola cappella. Gli omicidi finirono i feriti ed aprirono il ventre alle donne incinta.

L’immagine del ritratto di Silvia portato da un suo familiare è parte della protesta dei familiari dei martiri di Acteal (vittime loro stessi), appartenenti all’organizzazione della società civile Las Abejas, lo scorso 8 dicembre. Quel giorno, a Tuxtla Gutiérrez, si insediava il nuovo governatore del Chiapas, Rutilio Escandón.

Quel giorno, come fanno da quasi 21 anni, hanno denunciato che Acteal è un crimine di lesa umanità perpetrato dallo Stato messicano, per cui non c’è stata giustizia, i responsabili dei fatti non sono stati puniti e non si è fatta luce sulla verità. Hanno ricordato, inoltre, come, una vergogna del paese, il 12 agosto 2009 la Corte Suprema di Giustizia della Nazione avesse ritenuto più importante impugnare una sentenza accademica che difendere la giustizia ordinando la liberazione di 29 paramilitari detenuti e condannati.

In coincidenza col 21° anniversario del massacro, è stato pubblicato un opportuno e commovente libro: El dolor de Acteal. Una revisione storica, 1997-2014, scritto dall’esperta in questioni religiose Mónica Uribe M.

Nonostante sia un’opera che utilizza con rigore gli strumenti della sociologia della religione, la storia, l’antropologia e la scienza politica, la sua lettura suscita un forte impatto emotivo. Il dolore, l’indignazione, la rabbia, l’angoscia, l’orrore che genera si riassumono nella sua copertina: una riproduzione del Grido, del pittore Edvard Munch.

Per analizzare quanto successo ad Acteal, Mónica Uribe ricorre a fonti documentali quasi sconosciute o solo parzialmente utilizzate.Tra altre, si trovano la denuncia civile che un gruppo di 11 vittime presentò (contro l’opinione di Las Abejas) ad una corte degli Stati Uniti contro l’ex presidente Ernesto Zedillo. Lo si accusava di responsabilità di comando, per aver ordinato, partecipato e cospirato in associazione delittuosa per eseguire il massacro di Acteal e per il suo successivo insabbiamento.

Il libro approfondisce le pagine del Rapporto della procura specializzata in reati commessi nell’applicazione ed amministrazione della giustizia nello stato e nel villaggio di Acteal. Lì è inclusa la dichiarazione rilasciata da uno dei principali attori della tragedia, l’allora segretario di Governo, Emilio Chuayffet. Nelle sue risposte, il funzionario conferma chiaramente che Ernesto Zedillo sapeva, da un anno prima, dell’imminente violenza, tanto per vie istituzionali del governo che dalla stampa nazionale, oltre al fatto che gli attori del conflitto chiapaneco lo avevano avvicinato per informarlo ed avvertirlo sulle possibili conseguenze della situazione.

Nel rapporto c’è una conversazione telefonica di Chuayffet in cui, secondo il documento, risulta evidente la corresponsabilità e trattative segrete sui fatti di Liébano Sáenz, segretario personale del presidente Zedillo.

El dolor de Acteal include un’intervista realizzata poco più di un anno fa con Alejandro Vázquez che, nei giorni del massacro, era sergente in secondo archivista, appartenente allo Stato Maggiore della Difesa Nazionale, e lavorava direttamente per il capo degli assistenti del segretario della Difesa, Enrique Cervantes Aguirre. Secondo la sua testimonianza, il generale segretario inusitatamente lavorò la domenica del 21 dicembre 1997. Quel giorno era occupato con le comunicazioni del Chiapas e le istruzioni della Presidenza, attraverso il telefono rosso. Egli era il responsabile di alzare la cornetta e rispondere alla chiamata.

Secondo il tenente Vázquez, gli fu detto di stare in silenzio e lavorare anche il giorno dopo. Ad Acteal – assicura – partecipò personale della Brigata di Polizia Militare e personale dei servizi logistici provenienti da diverse zone militari, non del Chiapas, in abiti borghesi ed i cui precedenti nell’Esercito erano negativi.

A partire da una copiosa documentazione, El dolor de Acteal mette allo scoperto le manovre informative di vari intellettuali e di Hugo Eric Flores (il dirigente di Encuentro Social) per elaborare una narrazione dei fatti conveniente al potere, esclude che il massacro abbia avuto una matrice religiosa e conclude che Ernesto Zedillo è il responsabile ultimo dei fatti di Acteal.

I sopravvissuti del massacro di Chenalhó chiedono al nuovo presidente che li ascolti, come fece con i familiari dei 43 desaparecidos di Ayotzinapa. A 21 anni, Acteal aspetta giustizia.

Twitter: @lhan55

Testo originale: https://www.jornada.com.mx/2018/12/11/opinion/016a2pol#

 

Read Full Post »

@lhan55 Bastone di comando e neoindigenismo

Luis Hernández Navarro 

L’insediamento di Andrés Manuel López Obrador come Presidente è stato, nello stesso tempo, rituale repubblicano e spettacolo. Le messe in scena sono state molte e prolungate. Ne cito alcune: giuramento in San Lázaro; conferimento del bastone di comando indigeno; occupazione cittadina de Los Pinos; pranzo con mandatari; trasferimenti con una modesta auto Jetta bianca; intrattenimento con un ciclista e spettacolo musicale.

Migliaia di persone hanno partecipato alle diverse cerimonie e feste. Con animo gioioso sono diventate attori di una data storica: l’avvio di quello che è stato battezzato come la Quarta Trasformazione. Hanno occupato strade e piazze pubbliche di Città del Messico non per protestare, ma per festeggiare.

Tra le tante cerimonie, una risalta: la consegna al nuovo Presidente da parte di dirigenti indigeni di un bastone di comando, in una cerimonia sui generis (inventata per l’occasione), con invocazioni ai quattro punti cardinali, amuleti, preghiere e copal.

Andrés Manuel López Obrador non è il primo presidente a ricevere il bastone di comando. Come ha ricordato Harim B. Gutiérrez, l’uso politico di questo atto è un’abitudine delle campagne elettorali della seconda metà del XX° secolo. Il candidato del PRI alla presidenza Adolfo López Mateos lo ricevette nel 1957 a Guelatao, Oaxaca. Anche alcuni presidenti in carica. A José López Portillo fu concesso a Temoaya, nel 1978. Si tratta di uno scambio di favori politici: i candidati e mandatari ottengono legittimità e le comunità la possibilità di ottenere opere e risorse. Da allora, il patto si è ripetuto con i candidati e capi dell’Esecutivo di turno.

Tuttavia, in questa occasione, la consegna del bastone ha avuto un altro scenario ed un’altra trama: lo Zócalo della capitale, a nome di una rappresentanza dei 68 popoli indigeni del Messico, coordinata dall’Istituto Nazionale dei Popoli Indigeni (INPI).

Il virus è nell’aria de è contagioso. Così come Claudio X. González e la sua rete di ONG pretendono di parlare a nome della società civile, alcuni leader indigeni legati al nuovo governo si presentano come i rappresentanti di tutti i popoli originari.

Ovviamente chi ha dato al nuovo Presidente il bastone di comando non rappresenta l’insieme degli indigeni del Messico. Rappresentano se stessi e, in alcuni casi, le loro comunità ed organizzazioni. Non parlano per l’insieme del movimento, ma per una corrente di questo che cerca uno spazio in seno all’INPI. Senza andare troppo lontano, il Congresso Nazionale Indigeno, l’articolazione più importante del mondo indio, non ha partecipato a questa cerimonia.

L’idea stessa di un solo bastone di comando che rappresenti l’insieme dei popoli indigeni del paese è stata criticata da molti intellettuali indio ed autorità comunitarie. È un’invenzione. I bastoni sono simboli di autorità di ogni comunità, tribù o nazione.

Jaime Martínez Luna, uno dei più brillanti intellettuali zapotechi, insieme ad altri creatore del concetto di comunalidad, ha scritto sulla cerimonia (che ha definito una performance) di investitura dello Zócalo: Chi lo ha consegnato al nuovo Presidente della nazione in questa occasione non rappresenta nessuno. Lui lo sa, e lo sa il Presidente. Lo sappiamo noi che guardiamo un rituale inesistente in termini reali, per una nazione inesistente.

Tra coloro che hanno partecipato al rito per l’occasione ci sono distinti attivisti sociali. Il lavoro di Carmen Santiago e della sua organizzazione Flor y Canto a Oaxaca sono esemplari. Ma molti altri dei partecipanti sono parte di un settore di professionisti della rappresentanza indigena nelle istituzioni governative che, dal 2000, sono alla caccia di poltrone e risorse. Ed insieme a lotte emergenti, come quella di Oxchuc, in Chiapas, o Ayutla, in Guerrero, puntano a diventare gli interlocutori dei popoli originari nella Quarta Trasformazione.

La cerimonia di investitura nello Zócalo ha posto il mondo indio al centro dell’attenzione pubblica. Questo, che doveva essere un grande avvenimento, ha finito per perdere la sua essenza perché si è svolto in maniera folcloristica. Si è trivializzata la cultura e la spiritualità dei popoli originari, aggiogandola al potere. Non ne aveva bisogno il nuovo presidente che, fin dai suoi primi passi nella politica indigenista nella Chontalpa, ha una profonda conoscenza della dinamica statale della situazione in cui vivono le comunità. Perché allora metterla in scena?

La cerimonia si può comprendere solo nella logica del neoindigenismo che accompagna e giustifica l’avvio di grandi megaprogetti nei territori dei popoli originari. Benché non lo si ammetta, per la nuova amministrazione gli indigeni sono oggetto di politiche di lotta alla povertà, non soggetti di diritto, in particolare quello della libera determinazione. Per averne conferma basta vedere il modo in cui si è costituito e conservato e istituito l’INPI, l‘iniziativa di legge Monreal per lo sviluppo agrario o il silenzio sul compimento degli accordi di San Andrés. https://www.jornada.com.mx/2018/12/04/opinion/019a1pol#

Twitter: @lhan55

Read Full Post »

 

El saldo negativo de los gobiernos “progresistas” en América Latina y la llegada de AMLO a la presidencia de México, una revisión de Raúl Zibechi

Gloria Muñoz Ramírez

29 noviembre 2018

Ciudad de México | Desinformémonos. Los gobiernos progresistas en América Latina “han resultado en una regresión y para los pueblos indígenas han significado una doble o triple regresión, porque se les ha folklorizado. Hoy hay hombres de sombrero y mujeres de pollera en el parlamento, pero folklorizados, no representando políticamente a sus pueblos. Es una política de despojo que los fuerza a desplazarse. Y en esto no hay ninguna diferencia entre los gobiernos progresistas y los gobiernos de derecha y conservadores, como el de Perú o el de Colombia. La actitud anti-indígena es una constante en ambos casos”, advierte Raúl Zibechi, periodista uruguayo, escritor y acompañante desde hace más de 30 años de diversos movimientos sociales del continente.

“El saldo de los gobiernos progresistas en América Latina es negativo”, sentencia Zibechi en entrevista con Desinformémonos, luego de participar en una serie de encuentros con movimientos sociales e indígenas de Chiapas y Oaxaca, durante una breve gira por México en la que presentó su más reciente libro: Los desbordes desde abajo (Ediciones Bajo Tierra, 2018).

De la llegada de Andrés Manuel López Obrador a la presidencia de México, Zibechi señala que no representa ningún cambio para la región. Y sus consultas, opina, “son mecanismos de desarticulación de la protesta”. Habrá resistencia, dice, “pues las luchas no van a desaparecer porque haya un gobierno que sonría”.

La desarticulación de los movimientos sociales, la inclusión de cuadros de abajo en el nuevo gobierno, la imposición de proyectos extractivistas, el aislamiento de los críticos, la polarización de la prensa, el rol de Estados Unidos, entre otros, son los temas de esta entrevista.

– ¿Cuál es el saldo de los gobiernos progresistas en América Latina?

– El saldo de los gobiernos progresistas en América Latina es negativo. El saldo es Bolsonaro, el saldo es Macri, es una Venezuela destruida. El saldo es Daniel Ortega, genocida, violador. Como dijo Chico de Oliveira en Brasil, fundador del Partido del Trabajo de los Trabajadores, “el lulismo fue una regresión política”.

Y cuando decimos esto no hablamos de esos millones que salieron de la pobreza pero que ahora volvieron, no hablamos de algunas cuestiones interesantes que se hicieron interesantes, como las cuotas para las personas negras en las universidades brasileñas. Hablamos de que destruyeron la potencia emancipatoria de los pueblos porque dispersaron a los movimientos sociales, se llevaron a los dirigentes a los ministerios, se corrompieron.

No hay país con gobierno progresista en el que no haya habido casos de corrupción. El que fue vicepresidente de mi país, Uruguay, que tiene un apellido noble, Raúl Sendic, debió renunciar a la vicepresidencia por un caso de corrupción. En Argentina tiraban bolsos llenos de dinero adentro de un convento para eludir el tema de la apropiación indebida que hubo.

El saldo es negativo, pero eso no quiere decir que no comprenda a la gente que los votó, que los apoyó y que los sigue apoyando, porque frente a eso está una derecha espantosa. Pero en resumidas cuentas el saldo es negativo.

– En concreto, ¿cuál es el saldo en el ámbito económico?

– En lo económico no hubo reforma agraria, pero no hubo una reforma del sistema impositivo. No hubo reformas estructurales. Hubo una mayor renta a los sectores populares, pero esa renta fue bancarizada, financierizada, y entonces consiguieron, a través de las políticas sociales, que la gente tuviera un poco más de dinero, pero tiene además un cartoncito como el de las tarjeta de crédito o débito, que necesitan para poder sacar el dinero de las políticas sociales del banco y con eso van a los las malls o de shopping a comprar televisiones de plasma, motos, coches. Es una integración a través del consumo.

Durante el periodo de Lula en Brasil, el sector que más lucró y que tuvo las mayores ganancias de su historia fue la banca. Entonces fue una integración de los sectores populares, pero a través del consumo, y eso despolitiza, y además enriquece a la intermediación bancaria.

– ¿Y los megaproyectos en territorios indígenas?

– El extractivismo, la soja, la expansión del agronegocio, la minería, generaron un desplazamiento o acorralamiento de los pueblos indígenas. Hay un caso en Brasil que es demencial y se llama Belo Monte, que es la represa, la tercera más grande del mundo, que desvía 100 kilómetros del río Xingú, y en esa cuenca que se vacía se van a morir de hambre o van a tener que emigrar los pescadores, los habitantes de las riberas, todas las personas que vivían del río y que son pueblos originarios. Pero además, la demarcación de las tierras indígenas no se respetó.

Por otro lado tenemos el ejemplo paradigmático que es Bolivia. En Bolivia el movimiento popular tenía cinco organizaciones que hicieron el pacto de unidad, y después de la marcha en defensa del Territorio Indígena y Parque Nacional Isiboro-Sécure (TIPNIS) en 2011, el gobierno empezó a dividir a las organizaciones.

Hay dos organizaciones, y esto fuera de Bolivia se sabe poco: el Consejo Nacional de Ayllus y Markas del Qullasuyu (Conamaq) y la Confederación de Pueblos Indígenas de Bolivia (CIDOB), dos organizaciones históricas de los pueblos indígenas, a las que Evo Morales y Álvaro García dieron sendos golpes de Estado. Mandaron a la policía, echaron a los dirigentes legítimos y atrás llegaron, protegidos por la policía, los dirigentes afines al gobierno, al Estado. Esto es un auténtico golpe de Estado y sucedió en Bolivia.

Cuando decimos que el progresismo ha resultado en una regresión, para los pueblos indígenas ha significado una doble o triple regresión, porque se les ha folklorizado. Hoy hay hombres de sombrero y mujeres de pollera en el parlamento, pero folklorizados, no representando políticamente a sus pueblos. Es una política de despojo que los fuerza a desplazarse. Y en esto no hay ninguna diferencia entre los gobiernos progresistas y los gobiernos de derecha conservadores, como el de Perú o el de Colombia. La actitud anti-indígena es una constante en ambos casos.

– Vamos al terreno de las libertades. ¿Qué pasó en estos gobiernos con la libertad de expresión y con la libertad de manifestación? ¿Se llevaron a cabo “linchamientos” a quienes, desde la izquierda, se opusieron o cuestionaron lo que estaban haciendo?

– Durante los primeros años hubo una ampliación de libertades, de manifestación, de crítica, pero a partir de la crisis de 2008 hubo un repliegue de estos gobiernos. Una vez más Brasil es un caso paradigmático porque en junio de 2013, 20 millones de jóvenes salieron a las calles en 353 ciudades durante un mes, inicialmente contra el aumento del transporte, que es muy caro en Brasil (cada desplazamiento de autobús o metro vale entre 20 y 25 pesos mexicanos), pero terminó siendo una revuelta contra la desigualdad. São Paulo es la ciudad que tiene más helipuertos y helicópteros del mundo porque la burguesía no se digna a ir en coche por la superficie.

Esa revuelta contra la desigualdad tocó los límites del progresismo, que se limitó a repartir un poquito mejor la renta salarial, pero no la renta total y no tocó las desigualdades. Cuando surgió ese movimiento hubo un repliegue del gobierno de Dilma Rousseff, del PT y de la izquierda en su conjunto, y mandaron a la policía. Por supuesto que lo que habría tenido que haber hecho un gobierno de izquierda era ponerse del lado de la gente, pero al mandar a la policía generaron un vacío político y una desmoralización tan fuerte que de eso se vino aprovechando la derecha hasta el día de hoy. El 2013 fue un parteaguas en Brasil y en toda la región. Son los movimientos, la irrupción de la gente cansada de que le tomen el pelo, de que se burlen de ella, una de las dos o tres causas principales de la crisis de los progresismos en América Latina.

– ¿Y los medios de comunicación? ¿Qué papel jugaron y juegan?

– Sobre los medios de comunicación hay varias dinámicas. Hay países donde los Estados han ido avanzando sobre los medios de comunicación, como Venezuela, clausurándolos, domesticándolos o comprándolos. El grueso de los medios de comunicación de Venezuela son estatales o pro-estatales. El otro extremo podría ser Argentina, donde hay alrededor de 200 medios de comunicación culturales, autogestionados, digitales y en papel, como Desinformémonos en México. Esos 200 medios tienen entre cinco y siete millones de lectores mensuales, en un país de 40 millones de habitantes. Se trata de medios minoritarios, pero ya no son marginales. Más aún, cuando hay un conflicto, como cuando una fábrica de Monsanto se iba a instalar en las Malvinas Argentinas, y desde Uruguay, si se quería saber lo que pasaba, entrabas a la prensa de la derecha, La Nación, Clarín, y no aparecía nada. Entrabas a la prensa de la izquierda, como Página 12, y tampoco aparecía nada. Tenías que informarte en estos medios comunitarios o alternativos.

Estos medios ya no son una minoría marginada, sino que tienen una masa crítica, y cumplen el rol de que informan a los nuestros de lo que otros no informan.

– Hemos visto que se ha dado una polarización de los medios durante estos medios. Los que están con el gobierno, en este caso progresista, y los que tiene la ultraderecha…

Sí, claro. En Brasil está pasando algo increíble, Bolsonaro hace campaña contra la Red Globo, que es la hegemónica, y contra Folha de São Paulo, que es el periódico de las élites, y se apoya en las redes sociales y en los medios de comunicación evangélicos, que son de ultraderecha. Hay una reconfiguración de los medios muy interesante, que hay que seguirla, porque incluso Bolsonaro amenazó con clausura Folha de São Paulo, que es un escándalo, es como clausurar un diario de derecha de México. Es la misma actitud que tiene Donald Trump con los medios. Pero están emergiendo otros medios, como es el caso de los evangélicos, son una fuerza política y social que merece ser estudiada a fondo, y están compitiendo ya con la Red Globo en Brasil. Por otro lado, en la mayoría de los países existen medios como los nuestros, alternativos, pero no en todos tienen fuerza.

– Hay otros medios, que no son alternativos ni marginales, sino grandes medios de izquierda, o críticos al poder, bien colocados en sus países, como Brecha en Uruguay, o Página 12 en Argentina. ¿Qué papel juegan con los gobiernos progresistas?

– Debo decir que Brecha fue crítico antes de la llegada de los gobiernos y durante los gobiernos progresistas. Siempre hemos sido un periódico crítico. Página 12, en cambio, se hizo kirchnerista y dependió hasta hoy de recursos bajados por el Estado. Todo lo malo tiene una parte buena, y acá en México lo van a vivir. La parte mala es que los progresistas nos destruyen o nos crean muchos problemas. La parte buena es que el escenario se clarifica, ya no quedan lugares para las medias tintas, estás o no con el Estado. Cuando estás con el Estado la excusa es q ue ahora lo gobierna la izquierda, pero estás con el Estado, eso es lo principal. Y los que se mantienen en su trabajo de autonomía, de trabajo por fuera de las instituciones.

Página 12 claudicó, en los 90 fue un diario bien importante no sólo en Argentina, tenía una estética particular y un impacto con tapas de página muy potentes. Por otro lado, hay otros medios que se han mantenido fieles a su trayectoria. Yo no quiero exagerar, pero diría que Brecha, en Suadamérica, es de los pocos que ha atravesado el progresismo con muchas dificultades económicas. No vivimos de Brecha, estamos mal económicamente, pero mantuvimos la dignidad y una posición independiente, aunque hay matices. Hay algunos periodistas dentro más afines al gobierno, pero siempre críticos.

– ¿Y cuáles son los costos de mantenerse críticos, desde la izquierda, a los gobiernos progresistas?

– Los costos de mantener la postura crítica son el aislamiento, no te llaman para hacerte entrevistas, te ignoran. Hay deterioro económico personal, tenemos que buscarnos trabajitos para sobrevivir, y eso es un costo importante, pero hay que fijarnos muy bien, hay una trampa del progresismo que hemos logramos sortear, pues así cómo como la profesión periodística, en el caso de Brecha, hoy tiene un salario muy bajo, pero ha habido una renovación generacional y de género. Y hoy la mayoría de la planta son personas jóvenes y mujeres. Los que quieren ganar más se han ido con el gobierno o a crear periódicos afines al progresismo, y los que nos quedamos, bueno, pues ganamos poco, pero ahí estamos.

– ¿Lo que nos estás diciendo es que nos va a ir muy mal a los que mantengamos una postura crítica, en el caso de México, a Andrés Manuel López Obrador?

– Yo no diría “irnos muy mal”. El aislamiento es duro, pero te hace más fuerte. Y además no aspiramos a hacernos ricos. Por ejemplo en Brecha, de 35 trabajadores, habrá cinco o seis con carro, los demás vamos en transporte público, y eso me parece que es muy importante porque marca algo que en este momento es una siembra, no se ve, pero están ahí las semillas y en algún momento van a florecer.

Pero lo que está sucediendo en México hay que leerlo de otro modo por dos razones. El ciclo progresista en América Latina inició por el 2000 y terminó por el 2014, y es un ciclo que fue posible gracias a los altos precios de las commodities, del petróleo, de la soja, del mineral de hierro, porque a las burguesías en esa época de bonanza económica no les importó mucho que les subieran un poco los impuestos, y porque los sectores populares estuvieron tranquilos. Pero hoy en día vivimos la post crisis del 2018. Las clases dominantes del mundo se han hecho más bestiales, más brutales. El uno por ciento tiene una riqueza como nunca soñó tener en la historia y se han hecho mucho más intransigentes, más ultras, y están en contra de los pueblos.

El gobierno de López Obrador llega en el momento en el cual las clases dominantes no están dispuestas a ceder en nada. Hay una situación que llevará muy rápidamente al gobierno a alinearse con los intereses empresariales. Estos pocos días que llevo en México he visto algo sorprendente. Prendo la televisión y en el parlamento unos diputados del PAN ponen una manta que dice “#NoALaDictaduraObradorista”. Son terribles, pero desde el primer día ya están oponiéndose, no le dan ninguna chance. Parece que eso va a marcar: Te doblegas completamente o vas a tener una oposición implacable como tuvo Dilma en sus últimos años en Brasil.

– ¿Qué representa la llegada de López Obrador para el Continente Americano?

Me gustaría decir que representa algo par ala región, pero yo creo que no representa nada, porque desde el punto de vista de la integración regional latinoamericana, no aporta nada, y desde el punto de vista de un giro a la izquierda en la región, ya no es posible, y tampoco aporta nada y porque la política exterior, por lo que yo entiendo, va a ser de alineamiento total con el nuevo NAFTA y con las políticas de Donald Trump. Entonces yo no espero nada.

Si hubiera sido diez o quince años atrás, capaz que se podría esperar algo en un clima distinto, pero hoy en día, cuando hay una guerra comercial con China y con Estados Unidos, cuando hay un encrespamiento de las relaciones internacionales y una intransigencia muy fuerte, como hace una semana que se pelearon Trump y Macron y hubo un destrato mutuo muy fuerte… pues no hay margen para ninguna otra política.

– Háblanos de los movimientos sociales dentro de los gobiernos progresistas, a los cuáles

– Los gobiernos progresistas han sido maestros en el arte de desactivar a los movimientos sociales y a la protesta social. Han cegado las bases sociales de sus movimientos con políticas sociales, pequeñas cosméticas que entusiasmaron a mucha gente que nunca había recibido nada. También cooptaron a los dirigentes de los movimientos.

El personal político de los gobiernos progresistas viene de abajo, los cuadros tecnocráticos que están al frente nacieron y conocen la cultura organizativa de los movimientos sociales, entonces, cuando están arriba saben muy bien qué teclas tocar para debilitar, y eso es muy peligroso.

Hay dos cosas que ponen en peligro a los movimientos sociales. Primero, el Estado se reviste de legitimidad con el progresismo, y un Estado con legitimidad, un Estado fuerte, es peligroso. Después, los saberes de abajo que han llegado allá arriba están destinados a debilitarnos. Y estas dos cuestiones juntas pueden ser enormemente depredadores para los movimientos populares. Un ejemplo es Bolivia con Evo Morales y Álvaro García, que se disfrazaron diciendo que era el gobierno de los movimientos sociales e hicieron los golpes de Estado a los mismos.

En Argentina está el caso piquetero. El movimiento piquetero fue completamente neutralizado, dispersado, destruido, por las políticas sociales. Hay un manual en un libro del Ministerio de Desarrollo Social, donde estaba la hermana de Néstor Kirchner, que dice que el funcionario ideal del Ministerio es “aquel militante social que en los 90 se opuso y organizó a la gente en la base social en los territorios contra el modelo neoliberal”. Succionan cuadros políticos y militantes y saberes a los Estados y eso es un elemento muy definitorio y fundamental.

El tercer ejemplo pueden ser los compañeros de Brasil del Movimiento de los Sin Tierra y de los Sin Techo, movimientos muy importantes, muy luchadores, con una trayectoria impecable, que reconocen que Lula y Dilma entregaron menos tierras con la reforma agraria que el gobierno neoliberal de Fernando Henrique Cardoso, pero aun así, los apoyaron porque hay un chorro de dinero que fue destinado a la educación, la vivienda, etcétera. Son movimientos potencialmente revolucionarios que quedaron neutralizados completamente.

– Y el caso de México, país al que también conoces muy bien desde hace un cuarto de siglo

– En México hay muchos movimientos potentes. Los movimientos urbanos tienen una larga trayectoria de haber sido dispersados, sobre todo por gobiernos del PRD, pero me preocupan mucho los movimientos indígenas, que son una parte minoritaria de la población, pero importantísima, y me preocupa el aislamiento y la posibilidad de golpes o represiones quirúrgicas. Me preocupa mucho que en los próximos seis años haya un proceso de debilitamiento del zapatismo y del CNI, y de otros movimientos indígenas y populares, que son los que se han opuesto a los grandes proyectos.

Hay una operación muy fina. Las consultas que se ha hecho y las que se van a hacer son mecanismos de desarticulación de la protesta. Mañana tú puedes decir que estás en contra del Tren Maya por tal o cual razón, y te van a decir que vayas y votes. En esta consulta, la del aeropuerto, hubo 1 millón y cacho de votos, pero yo creo que en las próximas consultas pueden votar más personas, y si votan más personas mayor será la legitimidad de la consulta, aunque sea ilegal, sin sustento jurídico y sin sustento de ningún tipo.

Supongamos que respeten la consulta. El mensaje que están enviando los progresistas y López Obrador es que el conflicto no vale la pena porque es riesgoso, que votando o apoyando al gobierno se van a solucionar los problemas. El mecanismo de la consulta busca encasillar y conducir la protesta al terreno de las urnas. ¿Para qué me voy a oponer a la carretera si estoy en contra y puedo votar. Y si pierdo, por lo menos pude opinar en un ejercicio democrático en el que no tuve que poner el cuerpo y la policía no me dio un golpe? Lo que se hace es deslegitimar el conflicto y deslegitimar la protesta, y eso va de la mano de aislar a los que protesten. Los que protestan aislados son rápidamente víctimas de la represión estatal. Ése es el riesgo que yo veo ahí.

Espero que la consulta no tenga la última palabra. Con la consulta los pueblos tienen dos opciones: o jugarse por la consulta, que no creo que sean tan poco hábiles, o que digan que hagan todas las consultas que quieran pero que ellos no quieren que el tren pase por ahí, que es lo que han hecho otros pueblos en América Latina.

Por suerte, en algunos casos como el de las comunidades zapatistas o Cherán, hay una fortaleza. Igual la van a pasar muy mal, creo yo y ojalá me equivoque, pero no es lo mismo pasarlo mal cuando están temblequeando a cuando estás bien y firme en tus bases, como los zapatistas.

Po otra parte, estoy seguro de que López Obrador se jubilará, no creo que se pueda reelegir, aunque me imagino que ya está pensando en reelegirse. Pasarán seis años, se irá Morena o no, pero el zapatismo va a seguir en pie, y eso es importante porque son luchas de cinco siglos que no van a desaparecer porque haya un gobierno que sonría o tenga buenos modales.

– ¿Y la resistencia?

– Habrá resistencia. Lo que han hecho los gobiernos progresistas es profundizar el capitalismo, han traído más capitalismo, más transnacionales y más monopolios. Esto de hacer mega obras en el sur es para cooptar al resto de México, porque ha sido la zona más rebelde y eso todos lo sabemos. Los pueblos van a resistir. Hay muchas personas que, como decimos en Uruguay, “no se comen la pastilla”, no se dejan engañar. La gente está alerta, además ya tienen 15 años de nuestra experiencia y saben lo que pasó en el sur. Habría que ser un poco más optimista.

– ¿Qué papel juega Donald Trump y Estados Unidos?

– Trump es más que Trump. Es la mayor intransigencia de las clases dominantes, de los ricos, y la mayor intransigencia del Pentágono, que tiene tanto peso como las clases dominantes. Esta gente se está inclinando por la guerra, por militarizar el escenario global. La guerra comercial contra China es una guerra y, comercial por ahora. La guerra va a escalar y es probable que lleguemos a guerras entre naciones con armas nucleares, eso que los zapatistas llaman el colapso.

El régimen Trump tiene aspectos del colapso, es una manifestación de la crisis del sistema, del imperialismo yanqui, pero también es una manifestación de que ellos pueden apostar al colapso antes de soltar la sartén que creen o temen que se les está escapando. Un escenario horrible. El que venga después de Trump, aunque sea demócrata, va a seguir muchos de los pasos de Trump. El gobierno de Trump no es un paréntesis, sino un viraje en las estrategias de las clases dominantes.

Estados Unidos apuesta cada vez más a la subordinación absoluta de México. Es un patio trasero del cual no van a soltar las garras y por lo tanto, en ese proyecto de tener a México subordinado, el gobierno de López Obrador les pueda venir incluso muy bien, pues esto de llevar las mega obras al sur, de facilitar el flujo de mercancías, commodities, minerales, maderas, todo lo que haya para sacar, los monopolios lo ven muy bien, y más si además consigue aplacar a una parte de la ciudadanía.

Lo que no va a conseguir este gobierno ni ninguno, por ahora, es bajar los niveles de violencia, los feminicidios, la actividad del narcotráfico, de la ilegalidad. Eso para Estados Unidos es algo importante, porque desde la guerra contra el narco apuesta a la violencia, al Plan Mérida, a la descomposición del tejido social. Todos son planes del imperio que ahora los va a ejecutar López Obrador. Con este señor además se van a cumplir los planes que profundizan el capitalismo, el monopolio, y lo que los compas zapatistas han llamado la cuarta guerra mundial, el despojo de los pueblos. Eso es lo que está a la orden del día.

– Para finalizar, ¿qué lectura le das al fenómeno migratorio que estamos viviendo estos días de Centroamérica hacia el norte?

– Quiero creer que con esta marcha masiva de migrantes está naciendo un movimiento, porque antes la migración era individual, de familias, gota a gota, pero ahora es masiva y organizada. Para movilizarse 7 mil personas todas juntas hay que estar organizado. Capaz que es la primera de muchas marchas y si es así es bueno, porque la migración solitaria es fácilmente reprimible, vulnerable, pero con esta probablemente la gente haya llegado a la conclusión de que es mejor migrar en masa para estar más protegidos. No tengo claro que Trump vaya a poder impedir el paso de los migrantes por la frontera, a pesar de todas las gárgaras que hace. Es un costo político muy alto. Lo bueno es que está naciendo algo nuevo, desde abajo.

https://desinformemonos.org/saldo-negativo-los-gobiernos-progresistas-america-latina-la-llegada-amlo-la-presidencia-mexico-una-revision-raul-zibechi/

 

 

Read Full Post »

I 43 studenti di Ayotzinapa spariti per il legame tra Stato e gruppi criminali.

Messico 30 novembre 2018 Associazione Ya Basta! Êdî bese!

http://www.yabastaedibese.it/2018/11/i-43-studenti-di-ayotzinapa-spariti-per-il-legame-tra-stato-e-gruppi-criminali/

di Christian Peverieri

Per la Comisión Nacional de Derechos Humanos messicana non ci sono dubbi: la sparizione forzata di 43 studenti, l’omicidio di altre 6 persone e il ferimento di altre 42 persone nella notte tra il 26 e 27 settembre 2014 sono avvenuti per il legame della polizia municipale di Iguala, della polizia statale, della polizia federale e dell’esercito con i gruppi criminali organizzati.

La conferma di quanto è sempre stato sostenuto dai familiari degli studenti desaparecidos e dagli attivisti che accompagnano la loro lotta per la verità e la giustizia ora è scritta nero su bianco in un report di oltre 2000 pagine e 16 “raccomandazioni”: a essere tirati in ballo nelle responsabilità sono il sindaco di Iguala, il Congresso Statale, la Difesa, la Marina Militare e anche il Presidente Enrique Peña Nieto. Per il presidente della CNDH, Luis Raúl González Pérez varie «autorità hanno violentato il diritto alla verità delle vittime e della società in diverse occasioni».

La complicità è evidente dal momento che le autorità non hanno indagato in profondità, per omissione o tolleranza dei funzionari pubblici di diversi ordini di governo: «un crimine di tali dimensioni è potuto succedere solo per la penetrazione del crimine organizzato nelle strutture di governo», ha detto il rappresentante della CNDH.

Il report evidenzia anche le responsabilità della PGR (Procura Generale della Repubblica), con azioni di depistaggi e la volontà di insabbiare il caso, ma d’altra parte riabilita parzialmente la “verdad historica” prodotta dalla stessa PGR e smentita varie volte dalle indagini indipendenti.

Secondo la CNDH, nella discarica di Cocula, almeno 19 persone sono state bruciate in tempi compatibili con la scomparsa dei 43 studenti. Le analisi sui resti ritrovati tuttavia non danno la possibilità di risalire a chi appartengano tali ossa. Questa rivelazione ha suscitato grande attenzione nei media, tanto che si può leggere nei giornali messicani della “riabilitazione” della verità storica e dei funzionari che l’hanno prodotta. Quest’ultimo annuncio è stato criticato dall’EAAF, l’Equipo Argentino de Antropologia Forense: «l’EAAF non è d’accordo con una parte importante delle conclusioni raggiunte dalla raccomandazione della CNDH nell’interpretazione e nelle conclusioni per quanto riguarda la discarica di Cocula ed i risultati presumibilmente recuperati da un sacchetto del Río San Juan, Cocula, secondo la PGR».

(QUI il comunicato completo).

La battaglia per la verità continua. Il Segretario di governo uscente Navarrete Prida ha accettato il report e le raccomandazioni e ha commentato con un lapidario «è compito del nuovo governo risolvere il caso Ayotzinapa». E in effetti, il nuovo presidente Andrés Manuel Lopez Obrador, che entrerà in carica il 1° dicembre, come primo atto del suo governo, ha convocato al Palacio Nacional i genitori dei 43 studenti dei desaparecidos e gli avvocati che li seguono per lunedì 3 dicembre. Già da lunedì infatti è prevista l’emanazione del decreto presidenziale con cui verrà creata una Commissione di indagine, strumento «importante perché non è una Commissione per la Verità in termini classici, ma un meccanismo straordinario di giustizia, con facoltà penali» ha segnalato Mario Patrón del Centro de Derechos Humanos Miguel Agustín Pro Juárez, organizzazione che segue i familiari fin dall’inizio.

Dopo oltre 50 mesi dalla sparizione forzata, si apre uno spiraglio per i familiari: la speranza è che il nuovo governo progressista possa dar seguito alle volontà dei familiari e alle indicazioni delle varie indagini indipendenti e ritrovare la strada che conduce alla verità, alla giustizia e al castigo dei colpevoli.

Read Full Post »