La Jornada – Mercoledì 15 gennaio 2014
Autorità del Chiapas indifferenti all’esilio di centinaia di ejidatarios di Chenalhó
Hermann Bellinghausen. Inviato. San Cristóbal de Las casas, Chis., 13 gennaio. Il punto più critico del presunto conflitto nell’ejido Puebla, municipio di Chenalhó, è l’accusa del commissario ejidale, Agustín Cruz Gómez, contro due ejidatarios basi di appoggio zapatiste, di aver avvelenato l’acqua della comunità il 20 luglio scorso. L’ente sanitario dello stato svolse le analisi delle acque e non riscontrò alcuna presenza di veleni. Tuttavia, i risultati delle analisi non sono mai stati resi pubblici. Questa omissione potrebbe essere stata determinante per il successivo sgombero forzato degli indigeni, accusati infondatamente e, come si vedrà, in mala fede.
Non sono stati neppure diffusi i risultati delle analisi a dimostrazione dell’acqua avvelenata, a parte aver mostrato un liquido coloro caffè, realizzate dalla Procura Generale della Repubblica in Quintana Roo.
Il 12 settembre, i risultati furono inviati al titolare della Direzione Generale Perizie della Procura Generale di Giustizia del Chiapas, César Enrique Pulido Guillén.
Le analisi erano negative per qualsiasi sostanza tossica. Il liquido scuro era semplicemente veleno per topi nel suo contenitore commerciale, cosa che non provava niente.
Cinque mesi di esilio
In assenza della smentita ufficiale, nella comunità la voce causò panico e collera, ed aprì la strada allo sgombero violento, un mese dopo, di più di cento indigeni, membri di Pueblo Creyente e Las Abejas, e di basi di appoggio dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e di famiglie di religione battista. Da agosto queste famiglie tzotzil vivono da profughi nell’accampamento di Acteal ed in altre comunità.
Mariano Méndez Méndez e Luciano Méndez Hernández furono accusati di aver avvelenato l’acqua della comunità. La polizia li fermò ma dovette liberarli per mancanza di prove. Quando gli ispettori sanitari vollero esaminare la cisterna presunta inquinata, questa era vuota e la parte accusatrice impedì i controlli.
Ciò nonostante, decine di indigeni furono portati all’Ospedale di San Cristóbal de las Casas. Alcuni presentavano sintomi intestinali; la maggioranza per esercitare pressione. La Jornada è in possesso di copia delle cartelle cliniche dei presunti avvelenati visitati dal personale medico. Le cartelle concordano: Non ci sono segni di avvelenamento, benché alcuni pazienti presentavano patologie infettive di altra origine. Niente di tutto questo è stato reso noto.
Non importa che il delegato regionale della Sanità, Ulises Córdova, avesse negato l’esistenza di casi di intossicazione d’acqua in tutta la zona; la comunità era segnata e le autorità governative non fecero niente per disattivare la falsa accusa.
Le conseguenze sono state gravi. Gli accusati erano stati trascinati per strada da Germán Gutiérrez Arias e le autorità comunitarie, con le mani ed il collo legati ad un bastone, con la minaccia di essere cosparsi di benzina e dati alle fiamme. Tra gli aggressori c’erano: Nicolás Santiz Arias e Agustín Méndez López, ausiliari municipali, oltre a Calixto e Benjamín Cruz Gómez, figli del commissario ejidale che guida le aggressioni contro il gruppo cattolico della comunità fin dalla scarcerazione di Jacinto Arias Cruz, ex sindaco di Chenalhó condannato per il massacro di Acteal ed originario dell’ejido, che una volta libero è tornato a far visita ai suoi correligionari in aprile. Le aggressioni sono poi cominciate a maggio.
Invece di indagare sugli autori delle numerose aggressioni (comprese quelle rivolte al parroco di Chenalhó, a funzionari e difensori dei diritti umani), cioè i responsabili della situazione precaria delle famiglie esiliate, il governo li considera suoi unici interlocutori e li premia perfino.
Nel frattempo, gli sfollati che vogliono andare a racciogliere il loro caffè, vengono accusati dal governo statale di essere radicali e di “violare gli accordi”. http://www.jornada.unam.mx/2014/01/14/politica/017n1pol
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