La Jornada – Lunedì 11 giugno 2012
A 14 anni dal massacro a El Bosque non ci sono colpevoli
In Chiapas si vuole che cessi la persecuzione giudiziaria contro le comunità indigene
Hermann Bellinghausen
Centinaia di indigeni domenica hanno sfilato nel municipio El Bosque, negli Altos del Chiapas, per chiedere che cessi la persecuzione giudiziaria contro abitanti innocenti di San Pedro Nixtalucum, e la liberazione del professor Alberto Patishtán Gómez e dello zapatista Francisco Santiz López, di Tenejapa. Questo, a 14 anni dal massacro di El Bosque, uno dei crimini di Stato meno indagati degli ultimi anni avvenuto tre giorni dopo il massacro di El Charco, in Gueriero, durante il governo di Ernesto Zedillo. Erano trascorsi sei mesi dalla tragedia di Acteal, ed Alberto Albores Guillén era già il mandatario statale.
Intanto, il dirigente contadino e direttore della rivista Lucha indigena en Perù, Hugo Blanco, ha espresso il suo appoggio alla seconda settimana mondiale per la liberazione di Santiz López e Patishtán Gómez: “In Messico le prigioni non sono per i narcotrafficanti, ma per gli indigeni che non hanno fatto niente di male, come Patishtán e Santiz López”. Il loro “reato” è stato “pensare che il Messico deve essere per tutti i messicani, dove tutti lavorino e vivano tranquillamente, senza sfruttare né essere sfruttati, godendo dei frutti che dà la terra”, in un paese “dove tutti possano ricevere un’educazione e assistenza per la propria salute, dove non ci siano milionari né mendicanti, dove tutti si interessino di tutti, come nelle comunità indigene”.
Il Messico, ha detto Blanco, “è diventato un modello per il potente paese del nord, il più consumatore” di stupefacenti, “dove risiedono i baroni della droga; il paese che invia sostanze chimiche per la produzione di cocaina, dove si lava il denaro e da dove si mandano armi ai narcotrafficanti”. Ed aggiunge: Il “Messico serve da laboratorio per la ‘guerra falsamente chiamata al narcotraffico’. Si è mobilitato l’Esercito in questa guerra nella quale muoiono centinaia di innocenti. Il sogno dei baroni della droga degli Stati Uniti è estendere questo modello a tutta l’America Latina per schiacciare i popoli ed arricchirsi”.
Il 10 giugno 1998, circa mille soldati e centinaia di poliziotti statali e federali attaccarono le comunità Unión Progreso e Chavajeval, ed occuparono El Bosque, governato dal consiglio municipale autonomo zapatista di San Juan de la Libertad, i cui membri furono imprigionati. Ad Unión Progreso otto indigeni furono assassinati, sei dei quali erano stati catturati vivi e poi giustiziati, presumibilmente da truppe federali. Il numero delle vittime a Chavajeval, almeno quattro, non si è mai saputo, perché non tutte erano basi di appoggio zapatiste, morirono anche dei priisti ed i loro padroni non poterono alzare la voce.
Il pretesto delle autorità per quell’operativo fu un cruento assalto, all’alba, sulla strada per El Bosque, compiuto dalla banda criminale della comunità Los Plátanos, efficacemente addestrata come gruppo paramilitare, dedita alla coltivazione e spaccio di marijuana con la protezione della polizia, come fu documentato da La Jornada, e ricorrente assalitrice nei mesi precedenti del vicino Unión Progreso. Dopo l’assalto fuggirono in montagna circa 800 indigeni in condizioni straordinariamente precarie. Inoltre, circa 200 persone di Los Plátanos erano da due mesi rifugiate sulle aspre montagne della zona.
Carlos Payán Velver, allora senatore perredista e membro della Commissione di Concordia e Pacificazione (Cocopa), denunciò la “schizofrenia” del governo zedillista che parlava continuamente di pace e volontà di dialogo e contemporaneamente realizzare un operativo “più grave di Acteal”, poiché vi avevano partecipato truppe dell’Esercito con mortai, bazooka ed armi di grosso calibro. Da parte sua, Andrés Manuel López Obrador, in quegli anni dirigente nazionale del Partito della Rivoluzione Democratica, il giorno del massacro dichiarò: “Niente giustifica la decisione del governo di ordinare l’azione dell’Esercito” a El Bosque, Unión Progreso e Chavajeval. L’incursione “è stata criminale ed irresponsabile”, e con questo Zedillo “ha disatteso il suo impegno di non usare la forza per rispondere al conflitto chiapaneco”.
Come dimostra oggi l’incessante lotta per la liberazione di Patishtán, quasi tre lustri dopo quasi sono ancora perte le ferite di quel massacro sul quale non si è mai indagato e per il quale nessuno è stato mai processato. http://www.jornada.unam.mx/2012/06/11/politica/022n1pol
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