La fame dei rarámuris
Le notizie infondate dei suicidi collettivi dei rarámuris a Chihuahua perché non avevano niente da mangiare, ed ora le massicce campagne di raccolta cibo per portare qualcosa nella pancia di questi popoli, possono trasformare un’emergenza reale, drammatica e non certo nuova, in azioni di carità che sovvertono i diritti collettivi dei popoli indigeni ponendoli nuovamente come oggetti di diritto, non come soggetti dello stesso, tralasciando le responsabilità dello Stato non solo nel cambiamento climatico, ma nelle conseguenze che hanno avuto le invasioni nei territori indios dei diversi progetti transnazionali.
18 anni fa l’insurrezione zapatista introdusse nel dibattito nazionale ed internazionale il riconoscimento degli indigeni di questo paese come soggetti di diritti collettivi, escludendo le politiche paternalistiche e le immagini folcloristiche di più di 60 popoli esclusi e condannati alla povertà estrema. Nei primi mesi del 1994 quel dibattito vinse, indipendentemente dal fatto che poi nel 2001 fu elaborata una controriforma che ignorò ufficialmente i diritti e la cultura indigeni e, con questo, il diritto all’autonomia.
Questa settimana hanno cominciato a proliferare in tutto il paese centri di raccolta di cibo presso i quali persone di buona volontà vanno a donare acqua, riso, fagioli e latte in scatola. Ovvio che tutto questo e molto di più è necessario per affrontare l’emergenza, ma il discorso non può essere quello di “aiutare i poveri tarahumaras che stanno morendo di fame”. Sostenere l’aiuto con questo orizzonte vuol dire trascura una conquista raggiunta faticosamente dal movimento indigeno nazionale.
È ovvio che l’invio di un pacchetto speciale di 100 mila provviste di cibo, coperte ed acqua sulla serra Tarahumara da parte della Segreteria per lo Sviluppo Sociale (Sedeso), “per assistere i casi di fame provocata dalla siccità e dalle gelate che hanno colpito la regione”, non risolverà il problema enorme che ha a che vedere con la mancanza del riconoscimento e con le politiche di esclusione dei rarámuris e degli altri popoli indios del paese.
In questi momenti mancano la presenza e le parole da Ricardo Robles, El Roco, da sempre accompagnatore gesuita dei rarámuris e profondo conoscitore della sierra. Cito da uno dei suoi scritti: “… E ritornando alla questione dei cannibali, dobbiamo chiederci chi lo è oggi, il turismo o le vittime dell’invasione, le compagnie minerarie o gli avvelenati, le dighe o gli sfollati, gli asili o i bambini, i partiti o i cittadini, il narco o suoi prigionieri, i poliziotti o i manifestanti, l’Esercito o i morti, i governi o quelli di sotto… ed infine, l’avarizia o i depauperati”. http://www.jornada.unam.mx/2012/01/21/opinion/016o1pol
La resistenza sta nel saper ascoltare la terra. John Berger
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