Sulla Escuelita Zapatista
L’Italia
La mail dell’8 maggio non si differenziava molto dalle altre. Proponeva, quasi sfidava, i destinatari a rigenerarsi, a ricompattarsi attraverso l’azione. Ma il gruppo di persone che fino a poche stagioni prima giocava affiatato la partita della militanza anticapitalista in una delle molte periferie europee si stava, pur restando l’amicizia, disgregando. E le proposte, le provocazioni, le idee che comunque continuavano a circolare, spesso, sempre più spesso, sfiorivano senza generare frutti.
Così non accadde, almeno in parte, almeno per il sottoscritto, quella volta: l’invito alla prima Escuelita Zapatista per la settimana di ferragosto 2013 fu accettato e nel giro di 3 mesi mi trovai col culo sollevato da un vecchio charter a chilometri di altezza con in mano il passaporto fresco di Questura.
Meno fresco ed anzi clamorosamente arrugginito, si rivelò invece il mio spirito d’avventura e il mio piglio da compagno internazionalista. I dubbi mi attanagliavano: i figli piccoli, l’amata, i tempi risicati, il castigliano da scuola elementare (italiana), la sospensione della routine, anche politica, che ormai caratterizzava il mio quotidiano. Come se non bastasse i comunicati dal sudest messicano, firmati da quel vecchio poeta che tanto amavo in gioventù, mi suonavano beffardi, preoccupanti, spiazzanti: “Solo scarpe da tennis e mp3, null’altro è necessario se avrete il cuore aperto e le orecchie disponibili all’ascolto”. Si trattava di una presa per il culo? Ora so che lo era solo in parte… la prima.
L’invito a partecipare alla “Escuelita Zapatista – “La libertad según l@s zapatistas” era giunto a noi, piccoli e marginali compagn@ della Franciacorta, grazie al lavoro decennale di appoggio alle comunità indigene del Chiapas. La vendita del caffè, un blog di informazione e traduzione, i banchetti e la partecipazione ad eventi fruttarono questo importante riconoscimento. Nessuno però sapeva, nemmeno chi di noi seguiva senza interruzioni l’evolversi dell’esperienza nata dal levantamiento dell’EZLN nel 1994, cosa ci aspettasse. L’ipotesi più semplice e tranquillizzante era quella di un rilancio della collaborazione internazionalista attraverso occasioni simili alle giornate di incontro tra i Popoli Zapatisti ed i Popoli del Mondo. Leggendo i numerosi comunicati della Comandancia però si capiva che c’era qualcos’altro, che non c’era nulla da rilanciare ma molto da mostrare, condividere, donare.
Il Messico
Non provavo e non provo alcuna attrazione per il Messico da cartolina turistica e le bianche spiagge di Cancun non hanno in nessun modo messo in crisi questo mio sentire. Dei 18 giorni di permanenza in questo Paese almeno la metà sono stati impegnati nel raggiungere e per andarsene dalla Escuelita. Di queste tappe di attraversamento rimane la sensazione amara che danno i luogi senza una chiara identità, incompiuti e indecisi.
Mai sentito così circondato da tante e tanti tipi di forze armate, fortemente armate, pur in un contesto formalmente pacifico.
Mai provato una presenza così asfissiante di attività commerciali e una tanto diffusa offerta “libera” di prodotti di ogni tipo e in ogni dove.
Mai visto divisioni di classe così evidenti esemplificabili nelle opposte luminosità delle architetture: dagli abbaglianti Grand Hotel alle lucenti lamiere delle barcollanti baraccopoli.
Mai capito così chiaramente di trovarmi in una Nazione che aveva venduto tutto il vendibile a Su Majestad il Capitale.
Ma poi:
Le poche volte che abbiamo ascoltato il molesto gracchiare di un notiziario siamo stati informati di come la Polizia Comunitaria nello stato del Guerrero stesse creando non pochi problemi a chi sta in alto (narcotrafficanti, potenti o speculatori non fa differenza).
Le moltissime volte in cui ci siamo fermati e serviti in una delle tante attività di commercio improvvisate abbiamo sentito sulla pelle la vicinanza a quegli uomini e a quelle donne che compravano una povera sussistenza vendendoci i loro prodotti.
Lo stare forzato in alcuni luoghi del turismo di massa ci ha mostrato l’iper-sfruttamento delle persone che ci lavorano e nel contempo l’evidente crisi del turismo industriale.
Durante la nostra esperienza abbiamo capito che, anche per l’indisponibilità di beni pubblici garantiti, gli Stati Uniti Messicani sono uno dei paesi con più lotte attive e maggiori prospettive di autorganizzazione dal basso e oltre lo Stato.
Tra le caratteristiche del Messico moderno spiccano su tutto le disparità di classe, la corruzione, l’uso massiccio delle armi, la bellicosa presenza del narcotraffico e del traffico di persone, la sanguinaria repressione verso i movimenti sociali e la completa sudditanza al modello capitalista neoliberale. Sopra a tutto questo sta il Grande Vicino USA, con la sua colonizzazione mediatico cuturale a stento arginata dall’originalità e dalla storia dei popoli originari. In un tale contesto la quantità e la qualità delle forme di lotta, di resistenza, di autonomia è imparagonabile alla nostra situazione italiana: dai movimenti studenteschi del Distrito Federal, alla “comune di Oaxaca”, dall’autonomia in costruzione da parte di molti popoli indigeni alle molteplici lotte vittoriose contro i megaprogetti speculativi e distruttori dei territori. Questo profondo sommovimento proveniente dal basso fa del Messico un paese straordinariamente interessante.
San Cristobal
La crisi arrivò, quasi inaspettata dopo una gradevole cena alla Casa del taco di San Cristobal. I compagni italiani che ci avevano accolto con un inaspettato calore e un’eccezionale disponibilità se ne uscirono con due frasi che mi catapultarono nel caos delle paure: “Non è affatto detto che starete insieme e, no, non è proprio buono che tu non parli spagnolo”. Tutto il resto l’avevo digerito senza timori: le probabili fatiche fisiche, le condizioni di vita in una comunità contadina indigena, i lunghi e tortuosi spostamenti che ci attendevano. Quello che mi agitò all’inverosimile fu l’ipotesi di stare 6 giorni da solo, senza i miei compagni di viaggio a farmi da spalla, senza la possibilità di farmi capire appieno da chi stava al mio fianco. Quella notte, l’ultima su un letto, dormii profondamente solo grazie alle parole di conforto di Paolo e Jacopo e dopo essermi ripetuto più volte che, se le cose non si fossero disposte per il verso giusto, non sarei partito, sarei rimasto a fare il turista solitario a San Cristobal.
La mattina dopo quelle paure furono scacciate da una stupenda telefonata con Cristina che mi incitava, rincuorava, caricava e da quello che vidi al CIDECI, l’atipica Università della Terra ispirata dagli zapatisti e messa in piedi dagli indigeni in una delle periferie baraccate della città. ***Mi impressionò la bellezza del luogo, l’energia che sprigionava e la quantità di persone presenti; gente da tutto il mondo, di diversi colori, culture e lingue ma tutte con il sorriso sul volto. Non avevo mai visto qualcuno così felice di andare a scuola. Tutti sorridenti seppur nessuno sapeva cosa esattamente sarebbe accaduto. Tutti sorridenti perché sicuri di trovarsi nel posto e nel momento giusto. ***
La giornata filò dritta e senza intoppi, a dimostrazione dell’impegno e della forza organizzativa messa in campo dal Movimento: accoglienza, iscrizione, distribuzione del materiale didattico, assegnazione del Caracol di destinazione (per me e Paolo fu il V “Roberto Barrios”), intrattenimento musicale, divisione per gruppi e partenza sui diversi e numerosissimi mezzi di trasporto comunitario. Tutt’intorno a noi i primi indigeni zapatisti, con e senza passamontagna.
La presenza dello zapatismo per le strade della bella città coloniale di San Cristobal non è più così invasiva come ai tempi della “moda EZLN”. Pochi gadget, nessun riferimento nelle insegne, solo scritte spontanee sui muri e il centro CIDECI. ***Il Centro Indigena de Capacitaciòn Integral è un’Università ma molto atipica: non riceve alcun aiuto dallo Stato ed è un vero e proprio ponte tra la città e il mondo indigeno, in particolare quello che si ispira allo zapatismo. E’ una scuola informale che assomiglia più alle università medioevali quando queste erano un vero centro di cultura e ricerca piuttosto che, come oggi, un luogo per produrre laureati. In questa scuola non si certifica nulla perché il sapere non è certificabile, non si insegnano materie specifiche perché il sapere non è a compartimenti stagni, non ci sono registri perché non esistono prove di verifica né obblighi di presenza, non ci sono aule divise per età o grado di avanzamento perché ognuno apprende secondo i suoi ritmi e secondo la propria maturità. *** Anche la collocazione (in una periferia fatta di piccole baracche sorte spontaneamente) e la sua finezza architettonica (è composto da edifici costruiti secondo i principi della bioedilizia collocati sapientemente nella natura boschiva dell’altopiano) ne fanno un fiore all’occhiello per la Città, per il Messico e sopratutto per gli indigeni che l’hanno creato e lo fanno vivere. Come sia stato possibile concretizzare questo incantesimo in uno degli stati più poveri del Paese e facendo perno sulle forze dei soli popoli indigeni è domanda che contiene già la sua risposta: il pensiero perbenista occidentale del povero indigeno vessato e da aiutare è il concetto neo-coloniale più distante dalla realtà costruita da queste genti ed esemplificata dal CIDECI.
Il Caracol V – Roberto Barrios
Otto ore seduti in quattro su un sedile costruito (almeno 15 anni fa) per ospitarne tre. Aver avuto per sorte l’angolo più distante dal portellone d’uscita e dove l’asiento aveva ormai svelato la sua anima d’acciaio e perso qualsiasi affinità con la parola morbido. Una strada che altalenava in ordine sparso ma consequenziale tornanti, buche e maledetti dossi artificiali. Credevo fosse stata una vera sfortuna, mi sbagliai ancora visto che, ogni spostamento motorizzato da quel giorno in avanti sarebbe stato, seppur diverso, ugualmente scomodo. Ma lo rifarei, eccome se lo rifarei, anche solo per un terzo delle emo-le-zioni provate in quella settimana.
Il mio Votan si chiama Jesus. E’ un ragazzo di 19 anni. Corporatura tozza ma passo svelto e morbido. Occhi scuri ed espressivi, capaci di parlare meglio della voce che comunque sà comunicare ottimamente in castigliano, in Chol e in Tzotzil. Dopo la settimana passata insieme, la sua giovane memoria, ripete anche una discreta quantità di parole italiane. Da principio, seduto alla mia sinistra sulla lunga panca in prima fila del grande auditorium, non riesce a nascondere la sua agitazione. Gli tremano le mani e i suoi occhi non mi guardano. L’imbarazzo dura per tutte e due le ore di lezione. Quando ci alziamo diventa direttivo; mi indica più volte la strada per i bagni, per la fila del pranzo, per il dormitorio dove ho lasciato lo zaino e ripete in continuazione che è il momento di salire sul mezzo che ci condurrà alla comunità a cui siamo stati assegnati. E’ sempre al mio fianco e la cosa, da principio, mi sembra molto limitante.
Nei giorni successivi ho benedetto quella presenza costante che man mano diveniva più allegra, più confidenziale, più preziosa. “Per bocca del vostro Votan parleranno tutti gli Zapatisti” diceva uno degli ultimi comunicati che lessi prima di partire. Non solo questo è stato Jesus per me. E’ stato mano a cui aggrapparsi nelle salite, braccio che dava il cambio durante le fatiche, piede che indicava la strada più sicura, occhi che orientavano lo sguardo nella giusta direzione. E’ stata una presenza fraterna, amica. E’ stato un vero compagno.
I Caracol, cinque in tutto il Chiapas, sono il centro dell’organizzazione autonoma Zapatista. Si tratta di luoghi in cui sono concentrate tutte le strutture e le “istituzioni autonome” al servizio della comunità. A Roberto Barios, Zona Nord, vi hanno sede la locale Giunta di Buon Governo, la Commissione di Informazione e la Commissione di Vigilanza tutte composte da indigeni provenienti dalle comunità e dai municipi della Zona. Le persone che compongono queste forme di governo dal basso sono scelte nei singoli luoghi di origine attraverso un voto in assemblea, hanno durata variabile e ruolo a rotazione. Chi fa parte di queste “istituzioni” non percepisce stipendio ma la comunità di origine si impegna nel sostenere, col lavoro collettivo, la sua famiglia. Nel Caracol di Roberto Barrios trovano spazio diverse strutture pubbliche: un grande auditorium, le cucine, i servizi igienici, una clinica, diversi dormitori, il negozio di artigianato, e diversi edifici per la formazione. Gli zapatisti lo utilizzano come centro per gli incontri e per le feste, come punto di riferimento per risolvere problemi legali o sanitari, come luogo della formazione collettiva dei promotori (di salute, dell’educazione e delll’agroecologia). Tutto questo seguendo i 7 principi del comandare obbedendo: Servire e non Servirsi; Rappresentare e non Sostituire; Costruire e non Distruggere; Ubbidire e non Comandare; Proporre e non Imporre; Convincere e non Vincere; Scendere e non Salire.
Nazareth
Le nostre facce spaventate erano velate dal buio e dalla pioggia. L’enorme jeep si fermò in mezzo alla stretta valle dopo aver insistito per almeno un’ora a viaggiare su un sentiero che ci sembrava impossibile. Il piccolo gruppo di studenti, dieci in tutto, ognuno con il proprio Votan al fianco, si arrampicò nel fango di un prato dirigendosi verso una casupola in legno che poi scoprimmo essere la scuola autonoma. Li ci aspettavano, imbarazzati quanto noi, altrettanti uomini che, dopo un breve saluto, ci accompagnarono, una coppia per ogni famiglia, nei nostri alloggi. Non vidi il posto quella sera, o meglio non me ne capacitai. Ricordo solo l’indaffarato lavorio a cui collaborai per appendere le amache ma, appena steso, sprofondai in un sonno comodo.
Poche ore più tardi mi trovavo sulla colma di uno dei monti che affiancavano la valle dove stavano le 20 casupole della Comunità Nazareth. Eravamo nella milpa famigliare del mio duegño. Li mi venne impartita una lezione, forse la più tecnica, sui metodi di coltivazione zapatisti. I campi di mais affidati ai singoli gruppi famigliari dalla riforma agraria di inizio 900 sono spesso distanti dalle abitazioni (noi ci mettemmo un’ora comoda a raggiungerlo) e spesso si tratta di terreni difficili, scoscesi, di montagna. Ma il mio capofamiglia andava fiero del suo coltivo: mais da semi autoprodotti e fagioli che si arrampicano alle sue basi. Niente diserbi, niente insetticidi, niente aiuti dal malgoverno, rifiuto di qualsiasi intervento che possa modificare il fertile equilibrio della Madre Terra. A fine stagione si ripristina l’humus grazie ad altre culture tra le quali il chili. La diversità culturale e l’assenza di artifici chimici erano sottolineati in continuazione così come l’obiettivo di sfamare una famiglia di 10 persone con solo due ettari di terreno. Il paragone con la nostra agroindustria basata sulla monocultura e sul massiccio uso della chimica mi faceva impallidire. Mi stupì anche il livello di preparazione teorico che il campesino dimostrava. Anche su questo gli Zapatisti stavano dimostrando il loro grado di avanzamento. Raccogliemmo due sacchi di pannocchie ancora verdi per il Pozol e ce ne scendemmo con passo svelto ma interrotto dalle molte indicazioni, pronunciate in Chol dal Duegño e tradotte dal mio Votan in castitaliano, delle piante e degli arbusti che, pur crescendo spontaneamente, impreziosivano la dieta della comunità.
L’ultima notte fu la più lunga tra quelle passate nella comunità Nazareth. La festa a base di cerdo bollito durò fino a mezzanotte e, nonostante il maltempo, il clima fra studenti e campesini era ormai rilassato. Non poteva che essere così visto come, la novità rappresentata dalla nostra presenza e soprattutto dalla presenza dei nostri votan in quanto indigeni zapatisti di altre comunità sorelle, aveva animato le giornate di studio e di lavoro. Durante la visita agli edifici comuni (la forneria delle donne, la casa della salute, la tienda), grazie al lavoro nel collettivo de ganado e alla presenza nelle case dove abbiamo collaborato in cucina nei lavori che un tempo erano esclusivamente femminili, si sono create affinità e accorciate le distanze che ci separavano. I discorsi di saluto di quella sera peccavano di un’ufficialità un poco forzata ma riuscirono a volteggiare con parole tanto leggere quanto impegnative.
Partimmo alle 4 del mattino con la stessa jeep che ci aveva scaricato alcuni giorni prima. Quando il sole inizio a schiarire l’aria fredda delle montagne, la luce che trapelava dal telone illuminò i visi sussultanti e assonnati dei giovani passeggeri messicani. Mi accorsi che nelle loro espressioni qualcosa era cambiato. Era come se avessero superato un rito di iniziazione, mi sembravano diversi, più maturi e adulti. Chissà se anche loro hanno notato qualche cambiamento nel mio viso?
Le comunità indigene sono il cuore pulsante dell’Autonomia Zapatista. In questi luoghi sparsi nei posti più irraggiungibili della selva o delle montagne si misurano i miglioramenti effettivi delle condizioni di vita degli aderenti al movimento. In questi luoghi la cultura originaria maya rinasce e si arricchisce in opposizione ai dettami del capitalismo neoliberista e alle pressioni del malgoverno. Qui si lotta ogni giorno per avere cibo sufficiente per tutti, perché non ci si ammali o si guariscano le malattie che prima uccidevano, perchè tutti possano ricevere un’istruzione basata su ciò che potrà servire nella vita della comunità.
Nelle comunità si organizzano e sviluppano quei lavori collettivi che consentono a tutti di essere eletti come rappresentanti nei Caracol, di mandare i figli a formarsi per diventare promotori, di essere curati nelle cliniche autonome e di essere sostenuti nei momenti di difficoltà.
Nelle comunità si misurano gli avanzamenti dei diritti delle donne, la diminuzione dei conflitti famigliari e la cancellazione dei disastri causati dall’uso di alcolici (vietati in tutti i territori zapatisti).
Nelle comunità zapatiste in resistenza si misura la forza di un movimento che rifiuta la classica visione novecentesca della “presa del potere” per concentrarsi sulla costruzione di un’Autonomia che non è statale ma basata sui rapporti di appartenenza comunitari. Nelle comunità non ci si divide fra chi è zapatista e chi no e nei territori zapatisti non si tracciano confini intorno alle comunità filo governative ma si sperimenta una quotidiana mescolanza perché si è consapevoli che il nemico si trova in alto e non di fianco.
Forse anche per questi motivi, per quest’originalità costruita negli ultimi 20 anni, lo zapatismo non è più fra i riferimenti internazionali dei movimenti europei ed italiani. Facciamo fatica a capirlo, a codificarlo, perché spesso siamo troppo autoreferenziali e supponenti. O forse sono loro ad essere troppo avanti.
Furore MD http://www.di-wan.org/2013/09/sullescuelita-zapatista/
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