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Acteal, un’altra volta.

18 agosto 2009 di Comitato Chiapas "Maribel" Bergamo

La Jornada – Martedì 18 agosto 2009

Acteal, un’altra volta

Luis Hernández Navarro

Non è una visione manichea e semplicista. Il massacro di Acteal è quello che è: un crimine di Stato perpetrato dal governo di Ernesto Zedillo. La liberazione di 20 dei paramilitari responsabili del massacro da parte della Corte Suprema di Giustizia della Nazione (SCJN), col pretesto che non è stato garantito oro un giusto processo, non copre questo fatto. La ragione giuridica non può occultare la verità storica.

L’imminenza del bagno di sangue ad Acteal era stata avvertita da molti giornalisti, analisti e conoscitori della regione. I drammatici reportage di Hermann Belinhausen, Blanche Petrich e Juan Balboa mostravano le tracce della preparazione del crimine prima ancora che si verificasse. Il sacrificio era annunciato.

Per comprendere appieno la tragedia bisogna capire tanto quello che succedeva nella comunità e in Chiapas. Luoghi come la regione chol ed il municipio di Bachajón vivevano situazioni simili da mesi. Anche se parlava di pace, Ernesto Zedillo faceva la guerra. Nei posti chiave dello stato si promuoveva la formazione di gruppi paramilitari. Ma molte delle sue vittime non furono zapatisti, ma civili pacifici e disarmati che, come nel caso di Acteal, pregavano per la pace.

Editoriali de La Jornada del 22 novembre e del 17 dicembre 1997 dicevano senza ambiguità quello che sarebbe successo ad Acteal. Nel primo si segnalava che (la crescita della violenza) “è estremamente preoccupante poiché il tipo di conflitto in atto a Chenalhó ha grandi similitudini con quanto accaduto nella zona nord dello stato, dove agisce Paz y Justicia“. Il supplemento Masiosare dedicò la copertina del 14 dicembre 1997 a questo tema e titolò: “Chenalhó, un altro giro di guerra“.

Padre Miguel Chateau, parroco di Chenalhó ed uno dei più profondi conoscitori della regione avvertiva: “la guerra di bassa intensità annichilisce il mondo tzotzil” (La Jornada, 15/12/97). Il prete non parlava tanto per dire. Egli stesso era minacciato di morte. Jacinto Arias, presidente municipale del PRI ed uno dei principali promotori dei paramilitari, gli mise una birra in mano e gli disse: “Se non controlla la sua gente, un giorno o l’altro l’ammazziamo. Glielo dico faccia in faccia, padre. Bruceremo il suo corpo perchè non brucino i vermi“.

In un reportage televisivo sugli indigeni sfollati del municipio dai paramilitari, intitolato Chiapas: testimonianza di un’infamia, Ricardo Rocha percepiva la tempesta che si stava avvicinando. Intervistando don Samuel Ruiz e don Raúl Vera, il giornalista confessò loro: “Vengo dagli Altos del Chiapas e sono profondamente indignato, attonito che ancora possano succedere queste cose (…) anche profondamente addolorato per quello che succede là e che sicuramente voi conoscete: è inumano… ”

Andrés Aubry e Angélica Inda, due dei più grandi conoscitori della dinamica sociale degli Altos del Chiapas, analizzarono con rigore la nascita dei paramilitari nella regione in nove illuminanti articoli pubblicati da La Jornada. Il primo di questi, “Chenalhó in bilico“, apparso il 30 novembre 1997, tre settimane prima del massacro, smontava l’ipotesi che dietro la violenza in corso c’era un conflitto religioso. “A Chenalhó i due dirigenti antagonistici, il presidente costituzionale (del PRI) ed il suo concorrente, il presidente (ribelle) della sede autonoma dello stesso municipio, sono evangelici“, scrivevano.

Mesi prima nell’articolo: “Chenalhó: i pericoli dell’anima“, pubblicato da La Jornada a giugno del 1997, analizzavo la gestazione dell’offensiva paramilitare in quel municipio per concludere: “Quello che oggi è in pericolo non è l’anima, ma la vita degli uomini pipistrello“. Il 2 dicembre, ne “La guerra che non osa dire il suo nome“, scrivevo che la paramilitarizzazione era la risposta governativa all’espansione politica e sociale dello zapatismo, evidenziata dalla trionfale marcia dei mille 111 ribelli a Città del Messico a settembre di quell’anno, così come alla sua crescente installazione in territorio chiapaneco. “I paramilitari – scrivevo – a differenza dell’Esercito o della polizia, non devono rendere conto a nessuno, esulano dal giudizio pubblico. Possono agire con la più assoluta impunità e, perfino, presentarsi come vittime.” Purtroppo la recente sentenza della SCJN dà ragione a quelle parole.

Il massacro non fu un fatto isolato o fortuito, prodotto dalla rivincita di fazioni indigene in lotta per problemi comunitari. Non fu uno scontro. In Chiapas c’è una guerra, e non c’è attività umana più pianificata di questa. Acteal è stata un’azione bellica che rispondeva alla sua logica profonda: l’intensificazione del conflitto, che avviene, secondo Clausewitz, quando due eserciti si affrontano e “devono divorarsi tra loro senza tregua, come l’acqua ed il fuoco che non si equilibrano mai.”

La strategia governativa era tracciata in anticipo. Immediatamente dopo il massacro l’Esercito ampliò la sua presenza in Chiapas con più di 5.000 effettivi oltre a quelli già presenti ed autorizzò la sua partecipazione “nella prevenzione di nuovi fatti violenti“. Si trasferirono verso le Cañadas truppe distaccate in Campeche e Yucatan, mentre si stabilirono nuovi accampamenti nella regione degli Altos. Si volle tendere un nuovo accerchiamento militare allo zapatismo, un nuovo cordone sanitario, per tentare di frenare la sua espansione e l’esrcizio dei municipi autonomi.

Questa logica venne allo scoperto nei mesi successivi. La guerra sporca contro lo zapatismo seguì il suo corso sanguinoso. Acteal fu il segnale di partenza per accrescere l’offensiva bellica. Forze combinate di diverse polizie ed eserciti attaccarono violentemente i municipi di Taniperlas, Amparo Aguatinta, Nicolás Ruiz e El Bosque, fino a che il 6 luglio 1998, a Chavajeval ed Unión Progreso, le forze repressive cozzarono contro un muro.

La liberazione degli assassini di Acteal e la pretesa di riscrivere la storia del massacro non sono un atto di giustizia: sono la continuazione della guerra con altri mezzi. http://www.jornada.unam.mx/2009/08/18/index.php?section=opinion&article=019a1pol

(Traduzione “Maribel” – Bergamo  https://chiapasbg.wordpress.com )

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